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mercoledì 9 giugno 2021

Parla, anzi taci. Saman Abbas e il "silenzio delle femministe"

Mio malgrado torno a scrivere, mentre ancora si cerca il corpo, di Saman Abbas e del suo oramai purtroppo sempre più certo femminicidio. Non avrei voluto scriverne oggi, e sopratutto non qui in Fb e con un post raffazzonato di fretta ma mi è presa come una sorta di urgenza. Spero solo non sia travisato o usato (consapevolmente o meno) per rafforzare quel meccanismo mistificatorio e strumentale che - a mio avviso - è stato sapientemente messo in moto appena questa terribile vicenda è cominciata a rimbalzare sui media in maniera via via più martellante a partire dall'ultima settimana di maggio. .

mercoledì 27 novembre 2013

Violenza sessista: né rigurgito dell’arcaico, né anomalia della modernità

Un articolo di Annamaria Rivera appena pubblicato sul sito di MicroMega, Violenza sessista: né rigurgito dell’arcaico, né anomalia della modernità. Buona lettura e riflessioni // Ora che il femicidio e il femminicidio hanno guadagnato l’attenzione dei mediae delle istituzioni, il rischio è che, costituendo un tema in voga, la violenza di genere sia usata per vendere, fare notizia, sollecitare il voyeurismo del pubblico maschile. Un secondo rischio, già ben visibile, è che la denuncia e l’analisi siano assorbite, quindi depotenziate e banalizzate, da un discorso pubblico – mediatico, istituzionale, ma anche ad opera di “esperti/e” –, costellato di cliché, stereotipi, luoghi comuni, più o meno grossolani. Proviamo a smontarne alcuni, adesso che, spentisi i riflettori sulla Giornata internazionale contro la violenza di genere, anche la logorrea si è un po’ smorzata. Anzitutto: la violenza di genere non è un rigurgito dell’arcaico o un’anomalia della modernità. Sebbene erediti credenze, pregiudizi, strutture, mitologie proprie di sistemi patriarcali, è un fenomeno intrinseco al nostro tempo e al nostro ordine sociale ed economico. E comunque è del tutto trasversale, presente com’è in paesi detti avanzati e in altri detti arretrati, fra classi sociali le più disparate, in ambienti colti e incolti. Del tutto infondato è il dogma secondo il quale la modernità occidentale sarebbe caratterizzata da un progresso assoluto e indiscutibile nelle relazioni tra i generi, mentre a essere immersi/e nelle tenebre del patriarcato sarebbero gli altri/le altre. Per riferire dati ben noti, nell’ultimo rapporto (2013) sul Gender Gap del World Economic Forum, su 136 paesi di tutti i continenti, le Filippine figurano al 5° posto su scala mondiale per parità tra i generi (dopo Islanda, Finlandia, Norvegia e Svezia), mentre l’Italia è solo al 71°, dopo la Cina e la Romania e in controtendenza rispetto alla maggior parte dei paesi europei. Eppure non sempre c’è un rapporto inversamente proporzionale tra la conquista della parità di genere e la violenza sessista. Esemplare è il caso della Svezia (ma anche, in diversa misura, della Danimarca, Finlandia, Norvegia). Questo paese, da sempre in prima linea nel garantire la parità fra i generi, tanto da occupare, come si è detto, il 4° posto su 136 paesi, registra un numero crescente di stupri: negli ultimi vent’anni si sono quadruplicati, al punto da interessare una donna svedese su quattro. Ciò dipende non solo dal fatto che il numero di denunce sia aumentato rapidamente quale effetto di una crescente consapevolezza femminile, ma anche da un reale incremento dei casi. Ancora a proposito dell’Europa e volendo fare un riferimento ormai storico, si può ricordare che un paese come la Jugoslavia, il quale all’epoca si distingueva per un livello alto di emancipazione femminile, di sicuro più elevato che nell’Italia di allora, ha conosciuto nel corso della guerra civile l’orrore degli stupri etnici. Il pene usato come arma per colpire i nemici attraverso i corpi femminili mostra, fra l’altro, la continuità tra l’odio e la violenza “etnici” e la violazione delle donne, finalizzata al loro annientamento: lo stupro nasconde sempre un desiderio o una volontà di colpire l’identità e l’integrità della persona-donna. Ci sono ragioni varie e complesse che possono spiegare come mai in società “avanzate”, avanzi pure il numero di stupri e femicidi. Per citarne una: non tutti gli uomini sono in grado o disposti ad accettare i cambiamenti che investono i ruoli e la condizione femminile, che anzi spesso sono vissuti come minaccia alla propria virilità o al proprio “diritto” al possesso se non al dominio. La narrazione della virilità è divenuta oggi meno credibile che in passato. E molti uomini appaiono spaventati dalle rappresentazioni e dalle immagini dell’intraprendenza, anche sessuale, delle donne (più che dalla realtà di una loro autonomia effettiva, almeno in Italia, dove è alquanto debole). Questa inadeguatezza della società (maschile) si riflette anche nelle prassi delle istituzioni rispetto alla violenza di genere, spesso tardive e/o inadeguate. Per esempio, in molti casi che hanno come esito il femicidio, le vittime avevano denunciato più volte i loro persecutori. Tutto questo per dire che il sadismo, la volontà di reificare e/o annientare le donne e gli altri sono all’opera dentro le nostre stesse società, in forme più o meno latenti, finché certe condizioni non ne rendono possibili le manifestazioni palesi. Il sistema di dominazione e appropriazione delle donne (per usare il concetto-chiave della sociologa femminista Colette Guillaumin) tende a colpire – con lo stupro o il femicidio – non solo le estranee o quelle che, come in Jugoslavia, sono state alterizzate e nemicizzate, ma anche le donne con le quali s’intrattengono relazioni d’intimità o prossimità. Basta dire che, su scala globale, il 40% delle donne uccise lo sono state da un uomo a loro vicino. E, per riferirci ancora all’Europa, secondo le Nazioni Unite la metà delle donne assassinate tra il 2008 e il 2010 lo sono state da persone cui erano legate da qualche relazione stretta (per gli uomini lo stesso dato scende al 15%). Per tutto ciò che abbiamo detto finora, conviene diffidare degli schemi evoluzionisti e dei facili ottimismi progressisti: il pregiudizio, la dominazione e/o la discriminazione in base al genere – come quelli in base alla “razza”, alla classe, all’orientamento sessuale – non sono necessariamente residuo arcaico del passato, segno di arretratezza o di modernità incompiuta, destinato a dissolversi presto. Sono piuttosto tratti che appartengono intrinsecamente e strutturalmente anche alla tarda modernità; o forse dovremmo precisare alla modernità decadente. Per dirla nei termini delle curatrici de “Il lato oscuro degli uomini”, un libro prezioso, appena pubblicato nella collana “sessismoerazzismo” dell’Ediesse, la violenza maschile contro le donne è sia “prodotto dell’ordine patriarcale”, sia “frutto delle moderne trasformazioni delle relazioni fra donne e uomini” (p. 33). Secondo un altro luogo comune corrente, per contrastare e superare la violenza di genere sarebbe sufficiente un cambiamento culturale, tale da archiviare finalmente i residui della cultura patriarcale e di tradizioni retrive. Una pia illusione: la Svezia può dirsi forse un paese dominato da cultura patriarcale? Insomma, se è vero che la violenza di genere è un fenomeno strutturale, come si ammette, essa è incardinata in dimensioni molteplici. Per dirla in modo succinto, il dominio maschile ha una matrice culturale e simbolica, certamente, ma anche assai materiale. Se ci limitiamo al caso italiano, il neoliberismo, la crisi del Welfare State, l’esaltazione del modello del libero mercato, le privatizzazioni, poi la crisi economica e le politiche di austerità hanno significato per le donne arretramento in molti campi. E arretramento significa perdita di autonomia, dunque incertezza di sé, maggiore subalternità e vulnerabilità. Certo, in Italia, un contributo rilevante alla reificazione-mercificazione dei corpi femminili lo ha dato la televisione, in particolare quella berlusconiana. Per lo più volgare, sessista, razzista, è stata ed è elemento cruciale dell’offensiva contro le donne e le loro pretese di uguaglianza, autonomia, liberazione. Essa ha finito per condizionare non solo il linguaggio dei politici, sempre più apertamente sessista, ma la stessa struttura del potere politico e delle istituzioni. Per non dire dell’uso dei corpi femminili come tangenti: merci di scambio di un sistema di corruzione ampio e profondo a tal punto da essere divenuto sistema di governo. Ed è innegabile che oggi in Italia vi sia una notevole complicità della società, delle istituzioni, dell’opinione pubblica, perfino di una parte della popolazione femminile rispetto a un tale immaginario e a un simile utilizzo dei corpi femminili. E allora non c’è niente da fare? Tutt’altro. Ma la questione va declinata anzitutto in termini politici. A salvarci non sarà il recente provvedimento – tipica misura da larghe intese – che affronta il tema della violenza maschile in termini tutti emergenziali (e accanto a misure repressive contro il “terrorismo” dei NoTav, i furti di rame e cose simili). E neppure possiamo illuderci che l’attenzione riservata a questo tema dalle istituzioni e dai media mainstream rappresenti un avanzamento certo e irreversibile. Né compete principalmente alle donne la cura (ancora una volta!) del “lato oscuro degli uomini”. A noi tutte spetta, invece, contribuire a ricostruire una soggettività collettiva libera, combattiva, consapevole della propria autonomia e determinazione. E tale da sabotare l’esercizio del dominio maschile, su qualunque scala e in qualunque ambito si manifesti

mercoledì 29 maggio 2013

Assassino è chi uccide. Ovunque

Ricevo dal Centro di Women’s Studies Milly Villa dell'Università della Calabria - e condivido - una riflessione sulla costruzione e (ri)produzione di un certo tipo di discorso pubblico sull'omicidio, avvenuto qualche giorno fa in provincia di Cosenza, di una ragazzina di quindici anni. Ecco il testo: "L’omicidio di Fabiana Luzzi ci interroga e ci fa riflettere. Crediamo che in questi casi sia necessario rispettare il dolore di una famiglia e di una comunità. Come Centro di Women’s Studies Milly Villa non possiamo tuttavia tacere rispetto alla costruzione e alla (ri) produzione del discorso pubblico a cui stiamo assistendo in queste ore. Non possiamo dare spazio alla costruzione del discorso mediatico che possa anche solo minimamente legittimare una posizione o rafforzare stereotipi e pregiudizi. C’è sempre un pericolo nascosto quando si esprime un giudizio o un’opinione che diventa pubblica: il pericolo del non approfondimento, della rinuncia a conoscere. Il pericolo è quello dell’inerzia o della frettolosità che fa irrigidire la definizione della realtà, investita emozionalmente da chi la esprime, in puro pregiudizio. L’omicidio di una donna è tale ovunque accada: non è il luogo a stabilire naturali predisposizioni. Non è biologia, né cultura naturalizzata. E’ violenza, e la violenza non conosce appartenenze territoriali o regionali. Assassini lo si diventa quando si uccide.E’ per questo che come Centro sottolineiamo il pericolo nascosto all’interno di ogni stereotipo che diventa pregiudizio: il pericolo di un razzismo che nasconde la realtà e che non permette di leggerla nelle sue tante dimensioni. Riteniamo indispensabile ripensare alle categorie attraverso le quali leggiamo la violenza di genere, attraverso cui proviamo a comprendere i cambiamenti nelle relazioni, nelle dinamiche di potere, di riconoscimento, di costruzione di una idea di relazione affettiva come possesso e dominio. Essere situate in una terra come la Calabria significa anche decostruire un immaginario legato alle donne del sud, agli uomini del sud, alle dinamiche tra i generi. A Sud, ma non solo. Significa decostruire concetti come quelli di emancipazione, per approfondire le diverse forse di dominio da cui liberarsi, ed uscire dalla logica che ci rende libere o oppresse nelle rispettive scelte di partire o restare. Significa decostruire quella visione ricorrente (a cui sembra che due ‘importanti’ giornali nazionali siano ormai affezionati) che tende a svalutare e razzizzare i sud - e la Calabria in particolare - confinandoli in una costruzione discorsiva che li vuole immobili, depauperati, senza storia, stretti dalla morsa del patriarcato. Significa, per lo stesso motivo, anche sfuggire ai discorsi che si arroccano intorno a una ‘presunta’ identità ferita, a una ‘calabresità’ offesa e da difendere: anche in questo caso il rischio è quello di ‘naturalizzare’ la Calabria,annullare le criticità, i chiaroscuri, la forza di un paradigma eterosessista declinato al maschile. Come Centro di Women’s Studies dell’Università della Calabria speriamo che da questa orrenda vicenda si possa avviare una riflessione seria a partire dal linguaggio utilizzato dai media: parlare non di amore, di gelosia, di passione, ma di violenza, rabbia, calcolo e orrore. Speriamo che da qui si possa rimettere al centro la vita delle donne, la dignità delle persone, a partire dall’individuazione di nuove prospettive di analisi, dalla proposta di percorsi formativi ed educativi, dal sostegno ai centri antiviolenza, rafforzando ciò che esiste e resiste, spesso a fatica. Rinnoviamo la nostra vicinanza alla famiglia di Fabiana, e a tutte le vittime di femminicidio"

lunedì 27 maggio 2013

Cesare Lombroso e la specificità calabrese

Una ragazzina di quindici anni, Fabiana Luzzi, viene uccisa in maniera atroce dal suo "fidanzato", poco più grande di lei, in un paesino in provincia di Cosenza. La lettera di una "trentenne calabra, direttore delle relazioni esterne di una multinazionale" inviata e poi pubblicata da Il Corriere della Sera con il titolo Sono nata nella terra dove è stata uccisa Fabiana, io sono fuggita lei non c'è riuscita, ha scatenato una serie di reazioni tra chi, come si legge su Scirocco News, non riesce a scorgere l'attinenza tra l'omicidio di una ragazzina e il fatto che fosse nata in una certe regione e si oppone all'immagine di una Calabria terra barbara e retrograda, dove gli uomini sono tutti dei padre padrone con la clava e le donne tutte vittime e sottomesse. Un omicidio riconducibile insomma ad una sorta di "specificità calabrese", così come per l'omicidio di Sarah Scazzi si era parlato di cultura meridionale. Doriana Righini nel suo La rivincita di Lombroso, scrive che, come affermava Rosa Luxemburg, il primo gesto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro vero nome e che quindi, riprendendo le parole di Renate Siebert, non si può che definire razzista quanto espresso nella lettera pubblicata dal Corriere della Sera, poiché " una storia come questa potrebbe essere accaduta in qualsiasi altro posto d’Italia. Trovo assolutamente razzista e aberrante che si possa parlare, in questa vicenda, di specificità calabrese [...] Per come conosco la Calabria devo dedurre che chi sostiene queste tesi è sostanzialmente razzista ”. // Alcuni articoli correlati in Marginalia: Il ritorno del meridionale mafioso e omertoso, Il colore delle donne meridionali, I meridionali sono meno intelligenti. E le meridionali ancora meno

lunedì 20 maggio 2013

La marcia per la vita e le madri snaturate

Anche se con un certo lag (l'articolo è stato pubblicato la scorsa settimana sul blog della 27esima ora), segnaliamo questo intervento di Lea Melandri che ci sembra offra spunti interessanti di riflessione sul legame tra la violenza subita quotidianamente dalle donne in Italia (nella stragrande maggioranza da parte - diversamente da come certa retorica razzista/sessista vorrebbe farci credere - di padri, mariti, compagni, amanti ...) e quella che l'autrice definisce " la grande ossessione della cultura maschile più conservatrice" che trova nelle "marce per la vita" uno dei suoi momenti più significativi

venerdì 25 novembre 2011

Violenza sulle donne / Appello per Adama: una storia, molte violenze

In occasione del 25 novembre le iniziative di denuncia delle violenze contro le donne si moltiplicano, ottenendo un'effimera - quanto inutile - visibilità anche su quei mezzi di informazione ordinariamente silenziosi su queste questioni (tranne, beninteso, quando la "notizia" può essere proficuamente strumentalizzata e messa al servizio di politiche razziste e sessiste, sicuritarie e di controllo). Per questo, forse, avremmo evitato in questa giornata di scriverne se non ci fosse giunto da Paola Rudan - che ringraziamo - l'invito a far circolare l'appello di Migranda / Trama di Terre per Adama, donna migrante rinchiusa da fine agosto nel CIE di Bologna: aveva chiamato i carabinieri di Forlì dopo essere stata derubata, picchiata, stuprata e ferita alla gola con un coltello dal suo ex-compagno. L’unica risposta che Adama ha ricevuto è stata la detenzione nel buco nero di un centro di identificazione e di espulsione nel quale potrebbe restare ancora per mesi. E la storia di Adama non è una storia isolata: il 13 dicembre, a Bruxelles, si svolgerà un convegno internazionale del Picum - un organismo che si occupa di migranti "senza documenti"* - sulla situazione difficilissima vissuta dalle donne migranti considerate "clandestine" in Europa. Chi mi ha inoltrato l'appello per Adama scrive qualcosa che condivido pienamente: "Non vogliamo essere le rappresentanti o le tutrici di una vittima, ma l'amplificatore di una donna che sta lottando e che non ha altro modo di far sentire la sua voce". Vi invitiamo dunque a firmare e far circolare l'appello che trovate nel sito di Migranda, affinché Adama possa "riprendere in mano la propria vita" e noi tutte la nostra.

* Che significa: senza documenti giudicati validi nella Fortezza Europa.

sabato 25 giugno 2011

Il colore della violenza contro le donne / The Color of Violence Against Women

Poiché la nostra assenza si sta rivelando più lunga del previsto ci connettiamo da un pc di fortuna per lasciarvi almeno qualcosa in lettura: un intervento di Angela Davis, The Color of Violence Against Women. Non è recentissimo (è stato scritto / pubblicato nel 2000), ma crediamo offra ancora spunti di riflessione molto interessanti per una pratica (e una teoria) femminista sull'argomento (purtroppo sempre "attuale"). Se poi qualcuna/o (?) avesse il tempo di farne una traduzione ;-)

sabato 9 ottobre 2010

Sarah e le pari opportunità



Mentre oggi si terranno i funerali di Sarah Scazzi (la ragazzina di 15 anni strangolata e poi violentata dallo zio, il cui cadavere è stato ritrovato solo dopo più di un mese in un pozzo, ricoperto di pietre), ancora nessuna dichiarazione della ministra delle Pari Opportunità Mara Carfagna. Eppure, neanche una settimana fa, poche ore dopo la notizia dell' omicidio della migrante di origini pakistane Begm Shnez da parte del marito, aveva annunciato di volersi costituire parte civile al processo contro quest'ultimo. Notizia riportata con grande enfasi dai maggiori organi d'informazione. Sono questi i "privilegi" di cui godono i/le migranti nel nostro paese.
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L'immagine è un'opera dell'artista Jenny Holzer, qui in Marginalia via Gli occhi di Blimunda.

martedì 5 ottobre 2010

Matrimoni combinati tra sessismo e razzismo

Relegato generalmente in scarni trafiletti, il quotidiano bollettino di guerra di femminicidi e varie violenze che si consumano in Italia ai danni di donne e bambine, scatena l'attenzione dei media e i commenti del politico di turno, quando la nazionalità dell'omicida e/o stupratore si presta ad essere usata strumentalmente per legittimare la politica securitaria e xenofoba che oramai caratterizza questo paese. Nonostante la nostra scarsa propensione alla "cronaca" abbiamo denunciato tante (troppe) volte questo meccanismo negli ultimi anni (e per non crivellare queste poche righe di link rinviamo agli articoli correlati in coda), e non avremmo voluto scrivere dell'ennesimo omicidio di una donna, presto immortalata sull'altare del sistema sessismo / razzismo. Lei, come si legge in svariati quotidiani, si chiamava Begm Shnez, quarantasei anni, pakistana, viveva a Modena. E' stata uccisa a sassate dal marito, Hamad Khan Butt, mentre difendeva la figlia ventenne - presa a sprangate dal fratello - che non voleva cedere al ditakt paterno del "matrimonio combinato". Abbiamo letto ieri con sgomento un articolo di Giuliana Sgrena su questa vicenda, articolo pubblicato su il manifesto, nella sua rubrica La maschera dell'islamismo. Perché collegare questo orrendo femminicidio (frutto come tantissimi altri della violenta autorità paterna/patriarcale) a l'Islam (o con la sua versione "islamista") quando in realtà la pratica dei "matrimoni combinati" è frutto di un retaggio culturale (violentemente riattivato dal processo di sradicamento migratorio) non immediatamente riconducibile ad una religione o un'altra? Perché "etnicizzarlo" collegandolo agli omicidi di Hina Saleem e Sanaa Dafani (e solo a quelli)? Perché scrivere che anche il suicidio avvenuto qualche settimana fa in provincia di Cremona di una ragazza di origini indiane era dovuto al timore di un "matrimonio combinato", quando invece sembra che quello che questa ragazza temeva era di essere espulsa grazie alla Bossi-Fini perché senza lavoro? E perché infine la ministra delle cosiddette Pari Opportunità, Mara Carfagna, chiede di costituirsi parte civile nel processo contro Hamad Khan Butt mentre è restata muta in tante altre occasioni, quando i massacratori erano uomini di nazionalità italiana, magari mariti di donne che il "matrimonio per amore" non ha ugualmente risparmiato?

(Alcuni) articoli correlati in Marginalia:

Hina Saleem e la religione dei padri
Per Sanaa Dafani
Ricordando Hina Saleem. E le altre
L'uomo bianco stupra, lo stato bianco assolve
Economia politică a violului
Interruzioni involontarie di gravidanza
Economia politica dello stupro
No Trespassing
Sessismo e razzismo: informazione e deformazione
Violenza sulle donne e razzismo

venerdì 1 ottobre 2010

Teresa Buonocore e il silenzio sui femminicidi nostrani

Per Sakineh appelli e gigantografie con la sua foto sulle facciate di palazzi (con rappresentanti delle istituzioni davanti in posa), invece per Teresa Buonocore ( la donna uccisa il venti settembre da due sicari su ordine dell'uomo che aveva stuprato la sua bambina e che lei aveva fatto finire in galera), il solito silenzio. Addirittura in un primo tempo le avevano dato della camorrista, a lei che si era opposta a un potere oltre che patriarcale anche mafioso. Ancora una volta sono le donne a rompere questo silenzio: fiaccolata per Teresa oggi a Portici (e in contemporanea a Bologna), per dire no al femminicidio, il nostro, non solo quello d'altrove.

lunedì 13 settembre 2010

Sakineh o della guerra in nome delle donne


Affidiamo a quest'immagine (un'opera dell'artista iraniana Shirin Neshat, che avevamo già avuto occasione di usare qui in Marginalia e che preferiamo alla foto di Sakineh Mohammadi Ashtiani che gira massicciamente da mesi nei media) e al titolo - ovvero Sakineh o della guerra in nome delle donne - quanto pensiamo di questa vicenda. Con la nostra immutata e piena solidarietà a tutte (tutte) la vittime della pena di morte (per lapidazione o attraverso altre forme di supplizio quali l'iniezione letale in vigore nella maggioranza degli Usa - pratica che, sia detto per inciso, non riteniamo meno "barbara") e a tutte le vittime del sistema razzismo/sessismo e del suo uso strumentale della violenza (e dei diritti) delle donne: dalle tante vittime delle guerre "preventive" o "umanitarie" (come quella in Afghanistan fatta per "liberare le donne dal burqa") a quelle del cosiddetto pacchetto sicurezza e della fortezza europa. Rifiutiamo altre "guerre" (qui o altrove) in nostro nome, come rifiutiamo la logica del lavarsi la coscienza con una "firma per Sakineh", senza muovere un dito per le tante (e i tanti) "Sakineh" respinte/i in mare verso le prigioni libiche o rinchiuse/i in un Cie, in attesa di essere deportate/i e magari mandate/i a morire in un deserto. O impiccate, come Faith.

lunedì 17 maggio 2010

Spettri di femminista

Sembra che, ieri come oggi, per certi maschietti sessisti/maschilisti/fascisti (all'occorrenza razzisti) l'unica femminista buona è quella morta. Ma sappiamo fin troppo bene che chi annuncia la morte di qualcuna/o lo fa perché ossessionato dal suo spettro. E, per certi miserevoli individui, quello della "femminista" deve essere oltremodo inquietante ...

(Alcuni) articoli correlati in Marginalia:

Il burqa nel cervello
Il solito messaggio ...
Messaggio estivo per i soliti sessisti, razzisti, fascisti ...
Messaggio mattutino per sessisti, razzisti, fascisti ...
Messaggio domenicale per i soliti ...
Italian Graffiti

sabato 5 dicembre 2009

Le femministe si uccidono mirando alla testa

Obbligo di memoria: domani è il ventennale dell'"attentato di Montréal", non so quante (qui in Italia perlomeno) se ne ricorderanno. I fatti: il 6 dicembre del 1989, Marc Lépine, ventenne di buona famiglia, entra armato in un'aula dell'università di Montréal. Ordina agli studenti maschi di uscire e poi spara sulle donne, mirando sistematicamente alla testa. Dopo passa in altri locali dell'edificio e, con metodo, spara su tutte le donne che incontra. Trentasette i colpi esplosi, una trentina le donne colpite. Infine saranno uccise 13 studentesse e un'impiegata: Geneviève Bergeron, Hélène Colgan, Nathalie Croteau, Barbara Daigneault, Anne-Marie Edward, Maud Haviernick, Barbara Maria Kluznick, Maryse Laganière, Maryse Leclair, Anne-Marie Lemay, Sonia Pelletier, Michèle Richard, Annie St-Arneault e Annie Turcotte. Alla fine Lépine si suicida ma lascia una lettera dove afferma esplicitamente il suo "odio per le femministe". Femministe che sono per lui tutte le donne che si autodeterminano, che studiano, che pensano. Colette Guillaumin fa una lettura piena di rabbia e collera, ma terribilmente lucida di questo "fatto di cronaca" in Folie e norme sociale (1990). Testo che rileggo stasera, per mia (e nostra) memoria.
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venerdì 30 ottobre 2009

Gli standard giornalistici intrisi di razzismo e sessismo visti dalla Next Generation Italy

Un benvenuto nel web alle/ai ragazze/i italiane/i di "seconda generazione" originari di vari paesi (Albania, Eritrea, Marocco, Egitto ...) e al loro blog Next Generation Italy, di cui vi segnalo Standard giornalistici, un articolo che analizza i diversi "standard giornalistici" della stampa italiana che mentre fa scorrere fiumi di inchiostro quando l'omicida o lo stupratore è un uomo migrante (basti pensare a Hina Saleem, Saana Dafani o Giovanna Reggiani) liquida in sole 12 righe il caso di quel violento fondamentalista razzista padre italiano che ha tentato qualche settimana fa di uccidere la figlia con un punteruolo poiché non ne sopportava la relazione con un albanese ...
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giovedì 17 settembre 2009

Per Sanaa Dafani

Apprendo ora della morte di Sanaa Dafani. Sembra che ad ucciderla, sgozzandola, sia stato il padre. Non scrivo nulla adesso. Non posso/voglio aggiungere anche la mia voce, per quanto dissonante, allo scempio che di questa morte si sta facendo sulla stampa cartacea e non. Bastano le mara carfagna, le daniela santanchè, le souad sbai a disputarsi il suo cadavere ancora caldo. Sanaa come Hina, dicono.

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(Alcuni) articoli correlati in Marginalia

Ricordando Hina Saleem. E le altre.
L'uomo bianco stupra, lo stato bianco assolve
Economia politică a violului
Interruzioni involontarie di gravidanza
Economia politica dello stupro
No Trespassing
Violenza sulle donne e razzismo
Sessismo e razzismo: informazione e deformazione
La "femme" e "le petit nègre"
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giovedì 13 agosto 2009

Ricordando Hina Saleem. E le altre

L'11 agosto di tre anni fa, a Sarezzo, veniva uccisa a coltellate e seppellita nell'orto di casa dal padre e da altri parenti maschi Hina Saleem. Era emigrata in Italia dal Pakistan per ricongiungersi alla famiglia nel 1999, a quattordici anni. All'epoca dell'omicidio era dunque poco più che ventenne, lavorava in una pizzeria a Brescia dove conviveva con il suo ragazzo (italiano). Ma probabilmente tutti questi particolari sono inutili, ricorderete tutte e tutti Hina Saleem: come avevo già sottolineato in Violenza sulle donne e razzismo il suo fu uno dei pochissimi "omicidi in famiglia" saltati all'onore delle cronache italiane, mentre le tante donne uccise da mariti, fidanzati, amanti, padri, fratelli e parentame vario a stento riescono a conquistare uno striminzito trafiletto nelle pagine di cronaca. Ma nel caso di Hina fu diverso, tutt* avevano il proprio "guadagno" (o tornaconto): la stampa che banchettò sul suo corpo martoriato, i sostenitori dello "scontro di civiltà" che nell'omicidio vollero vedere la prova dell'impossibile "integrazione" dell'Islam nella nostra cultura, le presunte paladine dei diritti e della libertà delle donne come l'onorevole Daniela Santanchè che colsero l'occasione per denunciare i "barbari costumi" della famiglia musulmana di Hina e il silenzio delle "femministe" ... In realtà tante voci di donne, di femministe, italiane e non, furono semplicemente ignorate. Qualcuna scrisse che Hina siamo noi, altre che il mostro è il patriarcato parlando con coraggio della propria personale esperienza di oppressione. Io, piena di rabbia e disgusto dopo aver letto che Hina era stata seppellita "con la testa rivolta alla Mecca, come vuole la tradizione musulmana", chiedevo provocatoriamente in che direzione era rivolta la testa di quella giovanissima donna uccisa, vicino Venezia, dal suo amante a calci e pugni e poi sepolta ancora viva, incinta di nove mesi. Di questa donna non conoscevo, mentre scrivevo, il nome, come non conoscevo il nome del suo assassino, un italiano, marito e padre. Ma appunto queste sono storie che si leggono solo nei trafiletti. Solo più tardi ho "scoperto" che la ragazza sepolta viva si chiamava Jennifer Zacconi e che del suo omicidio si era parlato molto nella stampa locale, ma anche in questo caso strumentalmente: l'enfasi era stata posta sul fatto che era incinta e che nonostante il suo amante non fosse d'accordo aveva insistito per "tenersi il bambino". La sua morte divenne il prestesto per osannare la maternità, discutere sulla capacità giuridica del feto/embrione e se l'assassino dovesse essere condannato per uno o duplice omicidio. Sembra che dietro ci fosse lo zampino del Movimento per la vita, ma la storia di Jennifer non ricevette l'attenzione morbosa riservata all'omicidio di Hina. Due storie diverse, (come ancora diversa è la storia della donna migrante uccisa qualche giorno fa dal marito italiano), ma accomunate dalla volontà da parte di organi di informazione e apparati di dominio/controllo di usare strumentalmente la violenza sulle donne. Dire che Hina e le altre sono state uccise da quel violento rapporto di potere chiamato sessismo che non tollera la libertà delle donne, non è permesso. O meglio, puoi dirlo ma faranno finta di non sentirlo. E' questo, in sintesi, il cosiddetto "silenzio delle femministe" di cui parlava Santanchè ...

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giovedì 21 maggio 2009

L'uomo bianco stupra. Lo stato bianco assolve


Più di un anno fa, precisamente il 29 novembre 2007, scrivevo qui che rompere il silenzio non è (mai) inutile. Dopo quattordici mesi era finita infatti con una condanna la vicenda processuale di quello che i media avevano battezzato "lo stupro di via Libia". Una settimana fa la sentenza è stata ribaltata: assolti. Credo che l'episodio si commenti da solo, è l'altra faccia di quell'economia politica dello stupro che non dobbiamo mai smettere di denunciare, nonostante tutto.

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Per ricostruire la vicenda:

Italian Graffiti
Lo stupratore non è un malato. E' il figlio sano del patriarcato
Women Declare War On Rape
Rompere il silenzio non è (mai) inutile

giovedì 16 aprile 2009

Quando antisessismo fa rima con razzismo ...


Questo manifesto prodotto nel 1944 dal Nucleo Propaganda (organismo creato dal Ministero della Cultura Popolare della Repubblica Sociale Italiana per curare l'organizzazione della propaganda sul fronte della "guerra psicologica"), è stato utilizzato per pubblicizzare, via mail, il seminario Femminicidi, ginocidi e violenza sulle donne, promosso dal Comune di Bologna e dal Centro di documentazione ricerca e iniziativa delle donne con l'adesione di diverse realtà femminili/femministe (Associazione Orlando, Armonie, Casa delle Donne per non subire violenza, UDI, SOS Donna ...). Lo "scopro" solo ora, ma la notizia ha già fatto il giro della rete (rinvio qui per dettagli e considerazioni) e sui quotidiani si leggono le prime reazioni critiche (e le conseguenti giustificazioni: "svista", "provocazione", "messaggio frainteso" ... ). Da parte mia non credo di poter essere tacciata (come spesso mi è successo) di eccessiva durezza se affermo che un episodio di questo genere è per me totalmente ingiustificabile, soprattutto alla luce di quanto prodotto all'interno di una parte del femminismo (dal Black Feminism ai femminismi cosiddetti postcoloniali) per denunciare, criticare e smantellare il mito dello stupratore nero e l'economia politica dello stupro, cioè l'uso in termini razzisti e securitari della violenza sulle donne. Scrivevo, solo qualche giorno fa che, a mio giudizio, alcuni nodi inerenti all'interrelazione tra razzismo e sessimo, non sono stati ancora sufficientemente meditati e fatti propri all'interno del movimento delle donne. Ma ero lontana dall'immaginare un episodio di una tale gravità, paradossalmente a ridosso di un fine settimana antirazzista e antisecuritario. Ma allora siamo proprio condannate alla ripetizione logorante senza fine e senza risultati?
Auspicherei (per il ri-avvio di un dibattito quanto mai necessario) ulteriori prese di distanza critica su quanto accaduto, anche (o forse soprattutto) da parte delle relatrici invitate al convegno (credo ignare dell'immagine usata per publicizzarlo). Di alcune ben conosco e apprezzo il lavoro teorico e militante contro la violenza subita dalle donne e credo abbiano l'intelligenza e la capacità di porre al centro la necessità di riflettere su queste questioni. Da parte mia, come contributo al dibattito, oltre quanto già scritto qui e altrove, mi limito a copiare la scheda che accompagna il manifesto Difendila! del Nucleo Propaganda nel catalogo della mostra La menzogna della razza a cura del Centro Furio Jesi:

Ciò che veniva ovunque suggerito, prospettato, sottinteso, è messo in scena qui, con tutta l'enfasi del caso: chi ha progettato il manifesto riteneva che la raffigurazione dello stupro avrebbe guadagnato in atrocità proprio sottolineando la diversità etnica di chi lo perpetra. Così il soldato nero ha sguardo lubrico, bocca e labbra ingigantite, mani ad artiglio, è tutto proteso nella brama di possesso simboleggiata dalla vampa di fuoco che sembra emanare dal suo corpo, materializzazione dello smodato desiderio erotico che il pregiudizio razzista ha spesso attribuito alle genti di colore. La donna bianca viene rappresentata come il suo opposto speculare: il volto atteggiato a severo sdegno ma composto nella sua dignità ferita, la veste candida della purezza, il corpo disperatamente teso nel virtuoso sforzo della repulsione.
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martedì 17 febbraio 2009

Economia politica dello stupro

Di fronte agli stupri degli ultimi giorni accompagnati dal vergognoso rito delle strumentalizzazioni in chiave "anti-immigrati" e "sicurezza" (e con il solito contorno di decreti legge urgenti e istituzioni di ronde fasciste), mi chiedo se siamo condannate alla ripetizione, una ripetizione oramai logorante e che sembra smentire quel repetita iuvant che tante volte in questi anni mi sono ripetuta (e credo tante altre con me).
Mi chiedo (ma sia chiaro: con molta rabbia e nessuna rassegnazione) quante volte ancora sarà necessario denunciare quella che potremmo definire (parafrasando Christine Delphy) economia politica dello stupro? Quante volte ancora sarà necessario ripetere che gli stupri non sono prerogativa degli "stranieri" e che sono commessi anche (e in maggioranza) da "italiani"? Quante volte sarà necessario ripetere che gli stupri (per i quali si intende generalmente quelli che avvengono ad opera di "sconosciuti" e "per strada") sono solo una piccola parte delle violenze subite quotidianamente dalle donne? Quante volte sarà necessario ripetere che la violenza sulle donne si esercita per la maggior parte tra quelle che vengono definite (a mio parere impropriamente) "pareti domestiche" ad opera di uomini perfettamente conosciuti dalle vittime? Quante volte ancora sarà necessario ripetere che gli stupratori e i massacratori sono in primis padri, amanti, figli, fratelli, ex-fidanzati o "inconsolabili respinti"(italiani e non) ma anche datori di lavoro, insegnati, medici, preti e tutori delle forze dell'ordine (in questi casi quasi esclusivamente italiani)? Quante volte ancora saremo costrette a scrivere che rifiutiamo "la sciagurata equazione stupratore/immigrato", equazione che serve unicamente a fomentare il razzismo e la xenofobia, a giustificare la deriva securitaria pesantemente in atto e pratiche sempre più autoritarie e levise della libertà di tutti e tutte e in particolare proprio di quei soggetti che si vorrebbero "tutelare", cioè noi "donne" (e tra queste in particolare le migranti)? Quante volte ancora saremo costrette ad urlare "non in nostro nome"?
E quante volte ancora sarà necessario ripetere che la violenza sulle donne (native, migranti, lavoratrici, precarie, disoccupate, casalinghe, lesbiche, etero, trans, vecchie e bambine, universitarie e analfabete) è frutto di un rapporto di dominio degli uomini sulle donne che è insieme sociale, economico e politico? E che è questo rapporto di dominio che va criticato, scardinato e distrutto? Quante volte ancora sarà necessario ripeterlo, scriverlo, urlarlo?
E in quante lingue?
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