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sabato 17 gennaio 2009

Gaza. Dei vivi che passano


Sono passate settimane dall'inizio dei bombardamenti su Gaza, settimane durante le quali l'attivismo contro la guerra e per il cessate il fuoco non ha avuto tregua, tra appelli, presidi, petizioni per il boicottaggio dei prodotti made in Israel e per la sospensione degli accordi commerciali con Israele , manifestazioni grandi e piccole in tutto il mondo, da Roma ad Atene, da Parigi a Tel Aviv.

In molt*, in questi giorni convulsi, condividevamo la consapevolezza dolorosa che tutto questo non avrebbe fermato in tempo il sangue che scorre a fiumi, la mattanza: questa finirà solo quando non resterà più nulla – case, moschee, ospedali, scuole, esseri umani –, da sventrare o quando (ma forse è lo stesso) l'esercito israeliano (e tutto quello che gli sta dietro: interessi economici e politici su scala mondiale) riterrà che – per questa volta – , basti.

Eppure non si può restare inerti dinanzi al sangue che scorre, ognun* deve fare quello che può e sa fare. Mobilitarsi, agire, scrivere. Di quest'ultima cosa non sono stata capace, ancora pochi giorni fa dicevo che non potevo scrivere di/su Gaza o potevo scriverne solo come Viktor Sklovskij parla d'amore senza parlare d'amore. Scrivere d'altro, di altre cose ... Non è stato per quel “confuso ritegno” di cui parla Primo Levi e che sigillò le bocche dei soldati dell'Armata Rossa al loro arrivo ad Auschwitz il 27 gennaio del 1945 a rattrappirmi le mani. Non è stato lo shock dei corpi di donne, uomini, e soprattutto bambini e bambine fatti a pezzi e mostrati nei servizi televisivi, sui giornali, nei siti e nei blog di tutto il mondo. Ho visto tante volte il sangue scorrere a fiumi – e anche voi l'avete visto, non potete non averlo visto – , i corpi sventrati per le strade, i cadaveri ammucchiati, rigidi, bambin* con la testa sfondata, la materia cerebrale che cola addosso a quelle che forse furono le madri e lì vicino donne rese pazze dagli stupri e dall'orrore.

Il sangue l'ho visto. Ho visto quello degli africani e delle africane bastonati a morte nelle piantagioni di cotone dell'America schiavista, il sangue dei linciaggi in nome della supremazia bianca del Ku Klux Klan, il sangue che colorò di rosso le vie di Addis Abeba durante la feroce rappresaglia fascista italiana del febbraio 1937.

E ho visto il sangue che bagnava le macerie di Guernica e i sentieri di Montesole nel settembre del 1944, ho visto le stragi nazifasciste. E so del sangue ad Auschwitz, il sangue di milioni di ebre* sacrificat* al mito della pura razza ariana insieme ad altri esseri umani giudicati non degni di vivere: "zingari," gay e lesbiche, Testimoni di Geova ... E l'ho visto a Parigi, era il 1966, i corpi di centinaia di algerini massacrati e buttati giù nella Senna. Più tardi l'ho visto a Srebrenica, solo tre mesi per massacrare più di 800 mila donne, uomini, bambin*. L'ho visto per le strade di Baghdad (ricordate le luci dei bombardamenti nella notte trasmesse dai Tg? Dicevano che sembravano fuochi d'artificio ...), e l'ho visto per le strade di Gerusalemme e Tel Aviv dove i corpi smembrati dei/delle shahid si confondevano con i corpi smembrati delle loro vittime israeliane. Ho visto il sangue scorrere a fiumi sotto i colpi di machete in Ruanda, e poi in Somalia, in Afghanistan, in Cecenia, ... E l'ho visto in Palestina – e anche voi l'avete visto – lì dove scorre da più di cinquant'anni ...

Sì, l'ho visto – lo abbiamo visto – in tanti posti, in tanti altri posti. Perché la cartina geografica dei massacri è grande, immensa, difficile da abbracciare tutta con lo sguardo come si dovrebbe. Talvolta alcuni nomi si ricordano e altri no. Dipende da chi guarda. E da come guarda. Ma il sangue comunque lo vedi, tantissimo sangue, ed è uguale dappertutto, uguale per tutti (questo lo so senza ombra di dubbio, perché il sangue l'ho visto, lo vedo, anche per le strade delle “nostre città”), ed è così tanto che ti stupisci che la terra possa assorbirlo e ti dici che prima o poi sommergerà tutto, ci sommergerà tutt*. Un bagno di sangue transnazionale, globale. A volte, al buio, quando sono più cosciente della necessità di riconoscere la nostra umana comune vulnerabilità (quella di cui parla Butler in Vite precarie) immagino tutto questo sangue sudare dalla terra, salire, riempirmi la bocca, il naso, gli occhi, fino a soffocarmi.

Ma non è questo che ammutolisce, che mi ammutolisce. Piuttosto è il rendersi conto, che tutto questo sangue – quel sangue di cui sono fatti i libri di storia, storia talvolta con la s maiuscola, talvolta minuscola, che merita talvolta la prima pagina dei quotidiani, talvolta soltanto i titoli che scorrono in basso negli schermi televisivi – ha insegnato ben poco.

E non mi riferisco ai governi muti davanti alle atrocità commesse dall'esercito israeliano, agli stati occidentali e arabi (come l'Egitto, stretto alleato degli Stati Uniti) che appoggiano il governo terrorista di Tel Aviv, non mi riferisco alla sinistra “istituzionale”, in specie italiana, e ai suoi colpevoli silenzi, né ovviamente ai fondamentalisti, ai neofascisti, ai razzisti , alle orianefallaci e ai guidocalderoli. Questi li combatto, li ho sempre combattuti e so che né la storia né il sangue li cambierà, perché della mattanza si nutrono divenendo sempre più forti. Mi riferisco invece a quello che, genericamente, viene definito “popolo dell'estrema sinistra”, fatto di tante realtà diverse (femministe, pacifist*, libertar*, attivist* lgbt, antirazzist* ...), quel popolo di cui faccio parte (seppure talvolta con qualche disagio), quel popolo che così macroscopicamente – e generosamente – si è attivato in questi giorni.

E' anche questo sangue che spinge ad attivarsi (ed è per questo che credo, come Susan Sontag, nella funzione e nella necessità“etica” e “pacifista” di mostrare le immagini di uomini, donne, bambin* massacrati), ma sempre terribilmente in ritardo, perché per essere efficaci le petizioni, gli appelli, le manifestazioni, i boicottaggi hanno tempi lunghi, lenti. Non è un caso che funzionino in quei casi dove non si aspetta che il sangue sgorghi a fiotti, quando oramai è troppo tardi per arrestarlo, ma si agisce in anticipo, ai primi “segnali”. E questi ultimi, in realtà, erano evidenti in Palestina da veramente tanto tempo: da più di cinquant'anni sono all'ordine del giorno i villaggi rasi al suolo dall'esercito israeliano, le migliaia di profughi, la confisca dei beni e il blocco della mobilità dei/delle palestines* con check point e muri, altre stragi e, all'interno di Israele, la criminalizzazione di quanti dissentivano dalla politica governativa con decine e decine di obiettori di coscienza, pacifisti e anarchici in carcere . Non voglio dire certo che non c'è stato chi questi segnali li ha visti (e li ha denunciati) da tempo, ma sono state voci più o meno isolate, o che solo raramente hanno trovato lo spazio per esprimersi o l'appoggio e la visibilità di cui avevano bisogno per far sì che la loro pratica politica fosse realmente efficace. Ma si reagisce in massa solo di fronte all'emergenza, a questo sangue che sgorga a fiotti e che troppo spesso coglie quasi impreparat*, costrett* a svolazzare come farfalline impazzite dinanzi a una fonte di luce improvvisa. Si tenta di di recuperare brandelli di iniziative passate: ad esempio la proposta di boicottaggio dei prodotti made in israel risale al 2005: come posso non chiedermi se averlo diffuso e attuato massicciamente da allora avrebbe cambiato le forze in campo, avrebbe, se non evitato, magari attenuato la mattanza di queste settimane? So bene che la storia non si fa con i se, ma come posso non chiedermi l'effetto che avrebbe avuto il dare più appoggio, negli ultimi anni, ai/alle pacifist* e obiettori/obiettrici di coscienza israeliani, ai dissidenti, artisti, intellettuali, organizzazioni femministe (qui un recente appello), così come alla resistenza palestinese che non è solo Hamas, realtà restate finora quasi sconosciute?

Sappiamo, oggi, quanto abbia pesato il silenzio di chi sapeva (Vaticano in testa, ma non solo) sulla sorte di migliaia di ebre* d'Europa sterminati nei campi della morte del Terzo Reich. Quant* potevano essere salvat* da un intervento alle prime “voci”? Ma, all'epoca (senza voler giustificare alcunché), non c'erano i mezzi odierni, mezzi che permettono lo scambio veloce di informazioni, foto, documenti. Non c'erano gli strumenti di pressione che abbiamo oggi, non c'era la possibilità per chi era nell'inferno dei campi e dei ghetti delle zone occupate, di inviare giorno dopo giorno notizie su quanto succedeva, come fa ad esempio oggi, a rischio della propria vita, Vittorio Arrigoni con il suo Guerrilla Radio da Gaza.

E' strano che il ricordo dello sterminio nazista (così massicciamente presente in appelli, documenti, articoli e volantini pro-Gaza di quel popolo dell'estrema sinistra di cui parlavo all'inizio), non serva per riflessioni di questo tipo ma solo per strumentali equazioni, che avevo sperato superate, come “israeliani-nazisti”, (o peggio “ebrei-nazisti”), "nazisionisti", "nazi-sionismo" fino all'immagine di una stella di Davide uguale svastica che ha campeggiato qua e là in diversi cartelli durante manifestazioni e presidi delle ultime settimane.

Possibile che ancora non si sia capaci di rendersi conto di come questo linguaggio sia non solo infondato storicamente (lo sterminio nazista ha una sua specificità, una sua singolarità) ma anche inefficace e fuorviante politicamente? Dovrebbe essere chiaro a tutt* che, se il sangue che scorre è lo stesso dappertutto, non sono gli stessi i fenomeni che lo fanno sgorgare, e di conseguenza i modi, le azioni, le pratiche che dobbiamo mettere in campo per contrastarli: gli stermini, i massacri, i razzismi, i sessismi non sono tutti uguali, fare amalgama ci impedisce l'effettiva comprensione di quanto succede, ci impedisce di agire efficacemente. Rischiamo, inoltre, di confondere i nostri discorsi con quanti ne fanno uso per scopi diversi e talvolta opposti, dai “movimenti per la vita” (per i quali l'aborto è “il nuovo olocausto”) culla di tutti i fondamentalismi, ai vari raggruppamenti neofascisti, violentemente antisemiti ma anche sessisti e razzisti, fino allo stesso governo israeliano che usa ( inversamente e in maniera vergognosa, ma lucida, non credo che ciò si possa spiegare in termini di “popolo traumatizzato”) la tragedia (vera) di milioni di ebrei per mettersi sempre nella posizione di “unica vittima” e giustificare così tutto, dalla sua politica neo-coloniale contro i/le palestinesi, alla soppressione delle voci dissidenti, alle alleanze con governi più o meno fascisti.

Anche la convinzione avanzata da alcun* che l'amalgama israeliani-nazisti, seppur falsa storicamente, potrebbe avere un senso perché lo shock dell'accostamento può “risvegliare le coscienze” e rendere maggiormente attivi contro la guerra, mi sembra una pericolosa (e pia) illusione, ma non solo. Certo l'accostamento può risultare efficace, ma possiamo davvero pensare che il nazismo, lo sterminio nazifascista, il Terzo Reich, banalizzato e distorto da anni di revisionismo di stato, di negazionisti “sdoganati” anche nella cosiddetta estrema sinistra, di croci celtiche messe in bella mostra per pubblicizzare un Gay Pride, abbiano ancora l'effetto taumaturgico di “scioccare”? E se anche fosse (ma non è), crediamo forse che le immagini di uomini, donne, bambini massacrati a Gaza, sventrati, fatti a pezzi, con i lobi oculari strappati fuori dalle orbite dai bombardamenti al fosforo bianco non siano “abbastanza” per le nostre fottute coscienze intorpidite?

Si è tanto parlato infine, anche su quotidiani nazionali italiani, del “disagio” provato da molti e molte (laici, rispettosi e attivisti dei diritti delle donne e del movimento lgbt, antirazzisti) di ritrovarsi in piazza insieme a bandiere bruciate, cartelli “Stella di Davide=svastica”, slogan feroci contro Israele nazista, ma più in particolare per i troppi Allah Akbar , per le “donne arabe” silenziose ( sottomesse?), per le preghiere durante le manifestazioni ...

Capisco il disagio per le metafore che rinviano al nazismo, ho spiegato perché neanch'io le condivido, ma mi fa un certo effetto quando a dichiarare disagio sono anche coloro che per anni hanno contribuito a creare le condizioni (politiche e anche culturali) per simili derive. Penso a quanti, nella sinistra istituzionale, hanno promosso collocando sullo stesso piano i/le partigian* e “i ragazzi di Salò” una politica di “pacificazione nazionale”, ma anche a quanti nell'estrema sinistra, hanno tollerato chi proponeva come “rivoluzionari” gli scritti negazionisti di un Robert Faurisson, quanti hanno lasciato che si incensasse il Celine grande scrittore senza ricordare che è stato un antisemita e un collaborazionista e quanti hanno partecipato o non contestato il grande dialogo destra/sinistra. Questo mi crea disagio, un terribile disagio. E me ne creano ancor di più quant* si strappano le vesti per le “preghiere islamiche” durante le manifestazioni appellandosi alla laicità. Sorvolo sul fatto banale che viviamo in un paese dove il santo crocefisso la fa da padrone nella stragrande maggioranza delle aule scolastiche, degli uffici pubblici, dei tribunali e financo ai capezzali dei/delle moribonde negli ospedali, dove nelle mense scolastiche servono il pesce solo il venerdì, dove la giornata di riposo è ancora la domenica della messa, dove ti possono capitare le cose più incredibili, ad esempio avere un/una figli* che seppure esentat* dall'ora di religione (cattolica) si ritrova in italiano e storia la stessa insegnante di religione (magari nominata direttamente dalla Curia), oppure di andare al parco di domenica mattina (da laic* non vai in chiesa) e ritrovarti nel bel mezzo di una messa all'aperto con canti e salmi diffusi dagli altoparlanti (scopri poi che è una “festa” organizzata da Cl) ...

Sorvolo anche sul fatto che sono anni che la sinistra, anche estrema, si confronta e rapporta con realtà cattoliche, che queste sono presenti alle “nostre” manifestazioni, che dopo i preti partigiani abbiamo avuto anche i preti no-global, che alcuni settori del femminismo è già qualche decennio che si confrontano con donne cattoliche. E tutto questo non mi sembra abbia creato nelle attuali anime belle a disagio per Allah Akbar (Dio è il più grande di tutti) dei grandi disagi. Mi si obietterà che c'è una differenza, qui abbiamo a che fare con i fondamentalisti, gente invasata che manifesta urlando versetti sacri (l'ho letto da qualche parte, non riesco più a ricordare dove, ma non era un' affermazione né di qualche militante della Lega né di Forza Nuova).

Alessandro dal Lago in un articolo pubblicato su Il Manifesto, Gaza e l'ipocrisia dell'Occidente, illustra, schematicamente ma mi sembra correttamente, il complesso processo che ha portato al rafforzamento del fondamentalismo islamico in Medio Oriente e alla nascita di “simpatie” per il radicalismo religioso anche in Occidente tra coloro che, come i/le migranti, sono il bersaglio di un violento razzismo e vittime di intollerabili diseguaglianze sociali, economiche e politiche : “Dov'è la sorpresa dei migranti che chiudono in preghiera le manifestazioni di protesta, in Europa e in Italia, contro l'attacco a Gaza? La religione, soprattutto agli occhi dei giovani, appare come l'ultima risorsa di una resistenza a cui qualsiasi motivazione politico-ideologica tradizionale è venuta a mancare. Resistenza contro Israele, certo, ma anche contro le élites autoritarie e opportuniste dei paesi arabi, l'indifferenza europea e l'ottusità muscolare del governo americano. E così la simpatia per il radicalismo islamico tra i palestinesi (che non hanno nulla da perdere), o da noi, dove i diseredati si identificano facilmente con loro, non può che aumentare. È probabile che da qualche parte, nelle montagne tra Afghanistan e Pakistan, qualcuno si stia fregando le mani”.

Ma vorrei andare oltre, focalizzare l'attenzione su questa pericolosa tendenza a guardare ai/alle migranti come ad un blocco monolitico, omogeneo. Nonostante non tutt* i/le migranti siano musulmani, nonostante ci sono state, in questi anni, innumerevoli manifestazioni di migranti senza preghiere e Allah Akbar (e chi vi ha partecipato, non sempre molt* in verità, lo sa), nonostante anche nelle recenti manifestazioni pro-Gaza c'è chi non ha pregato o se lo ha fatto ha dato a questo gesto un significato simbolico più che religioso, ebbene nonostante tutti questi nonostante per molt* tutt* i/le migrant* partecipant* alle manifestazion* pro-Gaza divengono “fondamentalisti islamici”, tutte le manifestazioni di religiosità pericolose manifestazioni di fondamentalismo che minaccerebbe la “nostra” (e sottolineo nostra) laicità, tutte le migranti divengono “donne arabe”, sottomesse all'imam, al marito, al padre, al fratello, implicitamente vittime e magari complici del “fondamentalismo”, soprattutto se in testa hanno un foulard. Dovremmo sapere quanto pericolose sono certe generalizzazioni (stranamente meno praticate proprio dalle donne che si vivono il fondamentalismo direttamente sulla propria pelle, rinvio al sito di Women living under muslim laws e al saggio di Ruba Salih su femminismo e islamismo pubblicato nel volume Altri femminismi, trovate i link nel blogroll), ma dovremmo saperlo anche (e soprattutto) noi femministe "occidentali", lo abbiamo visto, ad esempio, in Francia, nel corso del dibattito sul cosiddetto “foulard islamico” (che Chiara Bonfiglioli definisce efficacemente “battaglia del velo”). Nella lettura dei fautori della legge per il divieto dei segni religiosi nella scuola pubblica, il velo diviene unicamente segno di oppressione, nonostante le sue valenze multiple tra le quali vi è anche quella fatta propria dalle giovani migranti dette “di seconda o terza generazione”: il velo come rivendicazione di autonomia culturale, in risposta al razzismo (e al sessismo) della società francese.

Non ripetiamo gli stessi errori, cerchiamo, finalmente, di guardare “al di là” di quello che vogliono farci vedere. Diversamente rischiamo, nostro malgrado, di contribuire a rinforzare la sporca battaglia di quant* vogliono leggere i conflitti in atto come “scontro di civiltà” e “guerra di religione”.

Non abbiamo nulla da spartire con partiti come Forza Nuova che , mentre solidarizza con “il popolo di Gaza” (leggi Hamas) sognando la distruzione di Israele (come Hamas), fomenta il razzismo contro i/le migranti agitando la bandiera della lotta al fondamentalismo islamico, aprendo campagne contro la costruzione di moschee e negando l'esistenza di un Islam moderato (come nei manifesti di Forza Nuova Toscana). Non abbiamo niente da spartire neanche con i fondamentalismi (tutti i fondamentalismi: islamico, cattolico, ebraico), ma neanche con le alleanze strette tra fondamentalismo cattolico ed ebraico contro il “comune nemico” (l'Islam).

Non abbiamo soprattutto nulla da spartire con quant* vogliono rimanere ciechi.

Nel giugno 1944, a capo di una delegazione del Comitato internazionale della Croce Rossa, Maurice Rossel ispezionò, con l'autorizzazione delle autorità tedesche, il campo di Theresienstadt, luogo di transito per migliaia di ebre* verso le camere a gas di Auschwitz, Sobibor, Belzec, Treblinka. Era dall'estate del 1942 che il Cicr cercava di ottenere informazioni sulle condizioni di vita e sulla sorte degli internati nel campo di Theresienstadt, ma quando l'autorizzazione arriva e Rossel si reca in visita nel campo egli è soltanto “un vivo che è passato e non ha visto”come scrive Federica Sossi alla sua postfazione a Un vivo che passa di Claude Lanzman. Rossel è cieco perché non riesce a guardare oltre, al di là della messinscena preparata minuziosamente per lui dai nazisti che avevano lavorato alacremente per mesi per “abbellire” il campo. Il resoconto della visita scritto da Rossel sarà utilizzato dal Ministero degli esteri tedesco durante una conferenza stampa nel luglio del 1944 per smentire le voci sulla sorte degli ebrei ...

Vogliamo veramente continuare ad essere dei vivi che passano?


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L'immagine è un'opera di Mona Hatoum, artista palestinese nata a Beirut. Lo scoppio della guerra civile in Libano le impedirà di ritornare nel paese d'origine, costringendola all'esilio.

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domenica 3 febbraio 2008

Una biblioteca della memoria

Qualche giorno prima della Giornata della memoria qualcuno [1] nella rete ha chiesto ad altri/e bloggers di indicare un libro sulla Shoah. A loro volta coloro che sono stati/e interpellati/e hanno posto la medesima domanda ad altri/e bloggers, in una sorta di "catena della (o per) la memoria". Sono stata coinvolta anch'io da Falecius, ma mi sono presa il tempo di "pensarci", senza farmi mettere fretta dalla scadenza imminente. In un commento a caldo indicavo, anziché un libro, un film: è Shoah di Claude Lanzmann.

Finalmente stasera un po' di tempo per Marginalia. Con il post "già scritto nella testa", mi sono collegata per digitarlo e postarlo. Cercando un link ho cominciato a seguire a ritroso la "catena della memoria" : da un blog/sito all'altro, attraverso libri, immagini, nomi. Ho deciso, infine, di buttare via quello che avevo pensato di scrivere. Tento invece di compilare (aggregando insieme alcune delle risposte che altri/e hanno dato alla domanda iniziale, cose pubblicate in rete in occasione di questa ed altre Giornate della memoria e alcuni dei volumi che mi circondano mentre scrivo) una sorta di "biblioteca della memoria". Non è una "bibliografia", ma per ora solo un insieme disordinato di titoli e suggestioni (talora discordanti e/o non condivisibili), che potrà forse (da qui a un anno) essere ordinato, ampliato, discusso. Per intanto, anche se la mia ricerca in rete non è stata esaustiva (non ne ho proprio il tempo), mi è sembrato comunque interessante cominciare a vedere cosa (e come) si legge intorno alla "memoria, le riflessioni che questi testi suscitano, e quelle che (eventualmente) questo post susciterà.


Il primo libro che voglio citare è Se questo è un uomo di Primo Levi. Sembrerà sicuramente "banale" come scelta. E' un libro, infatti, citatissimo e così noto che sembra quasi superfluo ricordarlo, eppure a volte ho il sospetto che sia citato senza essere neanche letto, almeno a leggerne certi usi [2]. E invece, è proprio partendo da una frase di Primo Levi: "E' successo, vuol dire che può succedere ancora", che chi mi ha passato il "testimone" ribadisce l'importanza di ricordare "l'orrore della Sho'ah", poiché "il Male Assoluto è sempre una possibilità dell'umano, e contro questo orrore occorre essere vigili"[3].


Ma il libro che propone infine Falecius è Il settimo milione di Tom Segev, giornalista e storico israeliano. Non un libro sul genocidio nazista ma un libro che "fa la storia della memoria della Sho'ah in Israele, e mostra come questa memoria abbia condizionato in maniera decisiva la storia d'Israele, e la percezione che gli israeliani hanno del proprio stato, ma in modi diversi e complessi, che forse non sospetteremmo".

In molti/e avvertono il pericolo che porre troppa "enfasi" "sulla memoria della Shoah [...] possa diventare un modo per renderla il più possibile inoffensiva", come scrive The Rat Race. Se non vogliamo "tradirla" questa memoria "deve restare *intollerabile*. Dev'essere qualcosa a cui si vorrebbe sfuggire — che si vorrebbe non aver presente — e che ci si costringe a tenere davanti agli occhi. Percio' niente letture confortanti, niente biblioteche virtuose, che ci facciano sentire meglio perche' assolviamo al compito nobile di non dimenticare. Eppure — abbiamo soltanto le parole — per non lasciare che la Shoah venga cancellata. E allora propongo gli autori forse piu' inconciliati con la realta' — quelli che meno di tutti hanno cercato di estrarre un qualche *senso* dalla Shoah". E sono due poeti,
Paul Celan e Dan Pagis.

Nel sito Ribat al mujahid, ritrovo ancora
Shoah di Lanzmann insieme a due libri, Israele e la Shoah di Idith Zertal e Uomini comuni di Christopher R. Browning, una trilogia che dovrebbe contribuire al difficile compito di "agire" la conservazione della memoria: "Il trauma della tragedia deve invocare un'autocritica incessante, essendo qualcosa che incessantemente ci riguarda. Il senso della memoria è la sua attualità, la responsabilità che quotidianamente ci delega, c'addossa, c'affida".


Anche Khadija, nel denunciare la "retorica della memoria" che ci vede tutti/e pronti a "piangere sul latte versato e a promettere 'mai più', ma assolutamente ciechi di fronte a quello che sta succedendo ancora, e ancora e ancora", ci riporta a questa responsabilità verso il presente. Il libro che propone è
Terrore e miseria del Terzo Reich di Bertolt Brecht, invitando insieme a firmare la petizione [4] per Abou Elkassim Britel :"Io preferisco denunciare quello che mi succede sotto il naso e non posso tollerare che ci si sgoli così tanto tutti insieme per 'ricordare', mentre di fronte agli orrori reali ci comportiamo esattamente come i personaggi di Brecht. Meno di mille adesioni per una campagna a sostegno dei diritti umani che ha fatto, ormai, il giro del web. E questo succede oggi e succede oggi perché oggi come allora la gente ha paura di mettersi dalla parte degli ebrei, degli zingari, degli omosessuali e degli oppositori politici del Terzo Reich".

Rosa
propone invece
Intellettuale ad Auschwitz di Jean Amery: "Hans Mayer, austriaco di padre ebreo e madre cristiana, nato e vissuto senza alcun rapporto con la sua origine ebraica, viene deportato ad Auschwitz e diventa ebreo suo malgrado. Un ebreo - come si definisce - senza Dio, senza storia, e senza speranza messianica nazionale. Tradito e abbandonato dalla cultura che lo ha nutrito e gli ha dato una identità, a guerra finita rinuncia al suo nome tedesco, diventa Jean Amery e descrive la sua esperienza di deprivazione identitaria in Intellettuale ad Auschwitz [...] Ma la perdita di se' non è recuperabile, e Jean Amery muore suicida. Scelgo questa esperienza estrema e disperata perché Amery è mio fratello, perchè io stessa mi sento ebrea per condizione più che per scelta e nel contempo, grazie anche a lui, sono persuasa che sia non solo possibile ma necessario coltivare una identità ebraica pur essendo lontani dalla religione e dalla tradizione. E scelgo Amery perchè mi pare spazzi via a suo modo qualsiasi tentativo di "normalizzare" il crimine ideologico nazista, qualsiasi tentativo di dare senso. Quel crimine - ne sono convinta - è peculiare, speciale e diverso dai molti crimini che hanno fatto la storia e continuano a plasmarla".


Per finire propongo qualche testo in ordine sparso:


Nessuno/a mi sembra abbia accennato alla questione del negazionismo/revisionismo. Lo faccio io con Nadine Fresco, Fabrication d'un antisémite, un libro sul padre fondatore del negazionismo, Paul Rassinier. Nessuna traduzione italiana, ma rinvio a questa recensione in Incidenze.


Ancora un film di Claude Lanzmann, Un vivant qui passe. Auschwitz 1943-Theresienstadt 1944. E' possibile leggerne il testo, in italiano, in un volumetto (con una postfazione di Federica Sossi) di Cronopio, 2003. Una riflessione sulla "cecità", sul "non vedere" (ieri, oggi).


Non poteva mancare un libro che affronti la questione in una prospettiva di "genere". Non è l'ennesimo volume su "le donne e l'olocausto", ma un testo che interroga criticamente le analisi femministe del nazismo: Liliane Kandel (a cura di), Féminismes et nazisme. Anche in questo caso nessuna traduzione italiana, ma rinvio alla mia recensione qui.


Nell'imminenza di No Vat, mi sembra il caso di ricordare il ruolo del Vaticano nel genocidio nazista. Lo faccio con L'arcivescovo del genocidio di Marco Aurelio Rivelli. Questo libro ripercorre le vicende dello Stato indipendente di Croazia, voluto dai nazifascisti negli anni 1941-1945. Qui gli ustascia di Ante Pavelic, sostenuti da Hitler e da Mussolini, sterminarono centinaia di migliaia di serbo-ortodossi, ebrei e rom, in nome di una "soluzione finale" etnico-religiosa perseguita anche attraverso l'imposizione di "conversioni" di massa al cattolicesimo. In questo sterminio un ruolo decisivo lo ebbe l'arcivescovo di Zagabria, Alojzije Stepinac con l'avvallo decisivo del Vaticano. Nell'ottobre del 1998, Stepinac (definito dal dittatore Franjo Tudjman "martire del regime comunista) viene beatificato dal papa Giovanni Paolo II.


Sullo sterminio nazista di omosessuali e lesbiche rinvio al dossier pubblicato in Fuoricampo Lesbian Group.

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[1] Per mancanza di tempo non sono riuscita a risalire a chi ha dato via a questa "catena per (o della) memoria".
[2] Ad esempio ai tempi dello "scandalo" delle torture inflitte ai prigionieri di Abu Ghraib da parte (anche) di alcune soldatesse Usa, sono stati pubblicati ben due articoli intitolati "Se questa è una donna" che richiamavano il titolo del libro di Levi ma "rovesciandolo": non solo introducendo una connotazione di genere, ma ribaltando il soggetto, non più la vittima ma il carnefice. I due articoli possono essere letti nel dossier Dibattito sulle donne kapò (Qui dovrei aprire una lunga riflessione sull'uso di metafore che rinviano al nazismo, ma per intanto rinvio ai cenni alla questione nella mia recensione a Féminismes et nazisme ricordata in questo post).
[3] Sovente, nei brani che cito da altri blog/siti vengono usati (spesso indifferentemente) i termini "Olocausto" e "Shoah". In realtà non sono equivalenti o intercambiabili, mancando nel secondo termine il significato di punizione divina presente nel primo. Storicamente l'uso di Shoah ha preso forza a partire dal titolo del film di Lanzmann uscito nel 1985, che si proponeva esplicitamente di contestare il termine "olocausto" e la retorica che gli è associata. Personalmente, comunque, ricorro sovente al termine di genocidio o sterminio nazista ( di ebrei, "zingari" - rom e sinti -, omosessuali e lesbiche e altri esseri umani considerati "inferiori").
[4] Ho già da tempo firmato e segnalato nella rubrica Urgenze la raccolta firme per Kassim. In effetti, il numero relativamente basso delle firme, colpisce. E se provassimo a chiederci perché?