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mercoledì 27 novembre 2013

Violenza sessista: né rigurgito dell’arcaico, né anomalia della modernità

Un articolo di Annamaria Rivera appena pubblicato sul sito di MicroMega, Violenza sessista: né rigurgito dell’arcaico, né anomalia della modernità. Buona lettura e riflessioni // Ora che il femicidio e il femminicidio hanno guadagnato l’attenzione dei mediae delle istituzioni, il rischio è che, costituendo un tema in voga, la violenza di genere sia usata per vendere, fare notizia, sollecitare il voyeurismo del pubblico maschile. Un secondo rischio, già ben visibile, è che la denuncia e l’analisi siano assorbite, quindi depotenziate e banalizzate, da un discorso pubblico – mediatico, istituzionale, ma anche ad opera di “esperti/e” –, costellato di cliché, stereotipi, luoghi comuni, più o meno grossolani. Proviamo a smontarne alcuni, adesso che, spentisi i riflettori sulla Giornata internazionale contro la violenza di genere, anche la logorrea si è un po’ smorzata. Anzitutto: la violenza di genere non è un rigurgito dell’arcaico o un’anomalia della modernità. Sebbene erediti credenze, pregiudizi, strutture, mitologie proprie di sistemi patriarcali, è un fenomeno intrinseco al nostro tempo e al nostro ordine sociale ed economico. E comunque è del tutto trasversale, presente com’è in paesi detti avanzati e in altri detti arretrati, fra classi sociali le più disparate, in ambienti colti e incolti. Del tutto infondato è il dogma secondo il quale la modernità occidentale sarebbe caratterizzata da un progresso assoluto e indiscutibile nelle relazioni tra i generi, mentre a essere immersi/e nelle tenebre del patriarcato sarebbero gli altri/le altre. Per riferire dati ben noti, nell’ultimo rapporto (2013) sul Gender Gap del World Economic Forum, su 136 paesi di tutti i continenti, le Filippine figurano al 5° posto su scala mondiale per parità tra i generi (dopo Islanda, Finlandia, Norvegia e Svezia), mentre l’Italia è solo al 71°, dopo la Cina e la Romania e in controtendenza rispetto alla maggior parte dei paesi europei. Eppure non sempre c’è un rapporto inversamente proporzionale tra la conquista della parità di genere e la violenza sessista. Esemplare è il caso della Svezia (ma anche, in diversa misura, della Danimarca, Finlandia, Norvegia). Questo paese, da sempre in prima linea nel garantire la parità fra i generi, tanto da occupare, come si è detto, il 4° posto su 136 paesi, registra un numero crescente di stupri: negli ultimi vent’anni si sono quadruplicati, al punto da interessare una donna svedese su quattro. Ciò dipende non solo dal fatto che il numero di denunce sia aumentato rapidamente quale effetto di una crescente consapevolezza femminile, ma anche da un reale incremento dei casi. Ancora a proposito dell’Europa e volendo fare un riferimento ormai storico, si può ricordare che un paese come la Jugoslavia, il quale all’epoca si distingueva per un livello alto di emancipazione femminile, di sicuro più elevato che nell’Italia di allora, ha conosciuto nel corso della guerra civile l’orrore degli stupri etnici. Il pene usato come arma per colpire i nemici attraverso i corpi femminili mostra, fra l’altro, la continuità tra l’odio e la violenza “etnici” e la violazione delle donne, finalizzata al loro annientamento: lo stupro nasconde sempre un desiderio o una volontà di colpire l’identità e l’integrità della persona-donna. Ci sono ragioni varie e complesse che possono spiegare come mai in società “avanzate”, avanzi pure il numero di stupri e femicidi. Per citarne una: non tutti gli uomini sono in grado o disposti ad accettare i cambiamenti che investono i ruoli e la condizione femminile, che anzi spesso sono vissuti come minaccia alla propria virilità o al proprio “diritto” al possesso se non al dominio. La narrazione della virilità è divenuta oggi meno credibile che in passato. E molti uomini appaiono spaventati dalle rappresentazioni e dalle immagini dell’intraprendenza, anche sessuale, delle donne (più che dalla realtà di una loro autonomia effettiva, almeno in Italia, dove è alquanto debole). Questa inadeguatezza della società (maschile) si riflette anche nelle prassi delle istituzioni rispetto alla violenza di genere, spesso tardive e/o inadeguate. Per esempio, in molti casi che hanno come esito il femicidio, le vittime avevano denunciato più volte i loro persecutori. Tutto questo per dire che il sadismo, la volontà di reificare e/o annientare le donne e gli altri sono all’opera dentro le nostre stesse società, in forme più o meno latenti, finché certe condizioni non ne rendono possibili le manifestazioni palesi. Il sistema di dominazione e appropriazione delle donne (per usare il concetto-chiave della sociologa femminista Colette Guillaumin) tende a colpire – con lo stupro o il femicidio – non solo le estranee o quelle che, come in Jugoslavia, sono state alterizzate e nemicizzate, ma anche le donne con le quali s’intrattengono relazioni d’intimità o prossimità. Basta dire che, su scala globale, il 40% delle donne uccise lo sono state da un uomo a loro vicino. E, per riferirci ancora all’Europa, secondo le Nazioni Unite la metà delle donne assassinate tra il 2008 e il 2010 lo sono state da persone cui erano legate da qualche relazione stretta (per gli uomini lo stesso dato scende al 15%). Per tutto ciò che abbiamo detto finora, conviene diffidare degli schemi evoluzionisti e dei facili ottimismi progressisti: il pregiudizio, la dominazione e/o la discriminazione in base al genere – come quelli in base alla “razza”, alla classe, all’orientamento sessuale – non sono necessariamente residuo arcaico del passato, segno di arretratezza o di modernità incompiuta, destinato a dissolversi presto. Sono piuttosto tratti che appartengono intrinsecamente e strutturalmente anche alla tarda modernità; o forse dovremmo precisare alla modernità decadente. Per dirla nei termini delle curatrici de “Il lato oscuro degli uomini”, un libro prezioso, appena pubblicato nella collana “sessismoerazzismo” dell’Ediesse, la violenza maschile contro le donne è sia “prodotto dell’ordine patriarcale”, sia “frutto delle moderne trasformazioni delle relazioni fra donne e uomini” (p. 33). Secondo un altro luogo comune corrente, per contrastare e superare la violenza di genere sarebbe sufficiente un cambiamento culturale, tale da archiviare finalmente i residui della cultura patriarcale e di tradizioni retrive. Una pia illusione: la Svezia può dirsi forse un paese dominato da cultura patriarcale? Insomma, se è vero che la violenza di genere è un fenomeno strutturale, come si ammette, essa è incardinata in dimensioni molteplici. Per dirla in modo succinto, il dominio maschile ha una matrice culturale e simbolica, certamente, ma anche assai materiale. Se ci limitiamo al caso italiano, il neoliberismo, la crisi del Welfare State, l’esaltazione del modello del libero mercato, le privatizzazioni, poi la crisi economica e le politiche di austerità hanno significato per le donne arretramento in molti campi. E arretramento significa perdita di autonomia, dunque incertezza di sé, maggiore subalternità e vulnerabilità. Certo, in Italia, un contributo rilevante alla reificazione-mercificazione dei corpi femminili lo ha dato la televisione, in particolare quella berlusconiana. Per lo più volgare, sessista, razzista, è stata ed è elemento cruciale dell’offensiva contro le donne e le loro pretese di uguaglianza, autonomia, liberazione. Essa ha finito per condizionare non solo il linguaggio dei politici, sempre più apertamente sessista, ma la stessa struttura del potere politico e delle istituzioni. Per non dire dell’uso dei corpi femminili come tangenti: merci di scambio di un sistema di corruzione ampio e profondo a tal punto da essere divenuto sistema di governo. Ed è innegabile che oggi in Italia vi sia una notevole complicità della società, delle istituzioni, dell’opinione pubblica, perfino di una parte della popolazione femminile rispetto a un tale immaginario e a un simile utilizzo dei corpi femminili. E allora non c’è niente da fare? Tutt’altro. Ma la questione va declinata anzitutto in termini politici. A salvarci non sarà il recente provvedimento – tipica misura da larghe intese – che affronta il tema della violenza maschile in termini tutti emergenziali (e accanto a misure repressive contro il “terrorismo” dei NoTav, i furti di rame e cose simili). E neppure possiamo illuderci che l’attenzione riservata a questo tema dalle istituzioni e dai media mainstream rappresenti un avanzamento certo e irreversibile. Né compete principalmente alle donne la cura (ancora una volta!) del “lato oscuro degli uomini”. A noi tutte spetta, invece, contribuire a ricostruire una soggettività collettiva libera, combattiva, consapevole della propria autonomia e determinazione. E tale da sabotare l’esercizio del dominio maschile, su qualunque scala e in qualunque ambito si manifesti

venerdì 25 ottobre 2013

La bambina bionda e i rom

Ricevo dall'Osservatorio antidiscriminazioni una riflessione, dal titolo "Giù le mani da Maria!" sulla campagna mediatica e sulla psicosi anti-rom "rapitori di bambini" che si è scatenata (non solo in Italia) a partire dal caso della bambina (insistentemente definita dai media "bionda con gli occhi azzurri", "bianca", "dai tratti nordici") trovata in un campo rom in Grecia in compagnia di un uomo e di una donna poi risultati, tramite prova del dna, non suoi genitori "biologici". Nonostante le spiegazioni della coppia (la bambina era stata loro affidata piccolissima dalla "vera" madre che non poteva mantenerla e loro l'avevano cresciuta come "una figlia"), spiegazioni confermate sin dal primo momento da altri/e abitanti del campo (e nelle ultime ore dal ritrovamento della madre "biologica"), l'episodio ha riportato a galla, in tutta la sua virulenza, il razzismo verso quell'"altro da noi" di cui abbiamo parlato tante volte (vedi ad esempio qui, qui, qui e qui). Mi auguro che il testo dell'Osservatorio antidiscriminazioni (e la sua pubblicazione in Marginalia e altrove) possa contribuire ad innescare un effetto moltiplicatore dell'attenzione e della vigilanza  necessaria su questa e altre vicende // "Da giorni in Italia è in atto l’ennesima, preoccupante, campagna di odio antizigano, fomentato ad arte da trasmissioni sedicenti “di servizio pubblico”, rotocalchi di intrattenimento, telegiornali, quotidiani… Sappiamo che quando parliamo di rom, in questo paese che impedisce ai superstiti dei naufragi di Lampedusa di partecipare ai funerali, lo stato d’animo non è neutro. Questa non è una sensazione, ma una consapevolezza accertabile attraverso la frequentazione delle associazioni di solidarietà con le comunità romanés, la conoscenza e l’informazione attraverso le pubblicazioni, i testi di ricerca, le statistiche delle condizioni drammatiche nelle quali le famiglie rom sono costrette a sopravvivere a causa delle politiche istituzionali locali e nazionali, con la complicità di un razzismo popolare forse senza precedenti. Chi pretende di informare, chi si assume l’onore di fare informazione in Italia ha il doppio onere di essere informato e di trasmettere correttamente le notizie, senza allusioni o esplicite affermazioni di razzismo. E’ stato sostenuto, in una trasmissione televisiva della tv di Stato, che la bambina sarebbe stata rapita da un network di trafficking di minori con sede in Bulgaria, e che sarebbe stata successivamente comprata dalla famiglia rom per “purificare la razza” della comunità romanés. Spesso vediamo, nell’ “altro” da “noi”, lo specchio di ciò che siamo… Niente di quanto è stato sostenuto, con la presunzione e la certezza della Verità granitica, ha ancora alcun fondamento. Un’ipotesi come un’altra, ma che sembra “pesare” più di altre, scartate a priori. L’immagine di Maria e l’utilizzo del suo corpo mediatizzato e strumentalizzato secondo costruzioni comunicative che alludono, spingono a prendere parte, a parteggiare per i bravi (la polizia che l’ha “salvata” dagli “aguzzini”) contro i cattivi (la famiglia rom), denota il contrario della sensibilità dovuta in presenza della salvaguardia di un minore: le foto contrapposte della piccola con i capelli arruffati e le treccine più scure del biondo dei capelli e le manine sporche, contrapposta a quella della bambina “ripulita” dei segni del suo passato “vergognoso”, con il vestitino nuovo e i capelli completamente biondi, al sicuro nell’associazione di affidamento, quasi a voler “smacchiare” una colpa. E’ forse una colpa essere poveri? No, non lo è. E’ una condizione sociale, non una condizione dello “spirito”, né ontologica, né tanto meno “innata”, proprio come la razzista equazione che sta nuovamente passando con ciò che è conosciuto per “linea del colore”: una piccola bionda non può essere figlia di genitori rom. E’ talmente “normale” l’orrore della “razza” che in questi giorni stanno moltiplicandosi, in Europa, massicci controlli nei confronti di famiglie rom con minori “bianchi”. Qualcuno ha forse pensato, riflettuto sul fatto che questi controlli non sono affatto “normali”, né basati su alcunché di scientifico? Al contrario, a seguito dell’oggettivazione del corpo di Maria – il corpo del reato – cresce l’accanimento poliziesco e razziale verso una minoranza vittima di molti olocausti, piccoli e grandi, nella storia passata e recente di una rilevante parte del mondo. Questo è l’orrore, questo ritorno del passato con gli abiti ipocriti di chi dice di voler tutelare i diritti dei più deboli, sbattendo i mostri in prima pagina: le foto di fronte e di profilo dei due rom del campo greco sulle televisioni pubbliche italiane. Foto terribilmente simili a quelle dei perseguitati del Casellario Politico fascista e dei reclusi nei campi di sterminio nazisti: in entrambi questi elenchi dell’abominio troverete volti di donne e uomini rom. Colpevoli di vivere secondo regole non scritte, colpevoli di essere poveri e di vivere in “discariche” a cielo aperto: non-luoghi nei quali le istituzioni nazionali li costringono a vivere, senza assistenza e lontani dal centro delle città, in periferie abbandonate e prive di mezzi di trasporto. I rom hanno molti doveri per lo Stato italiano, ma nessun diritto. Sono in maggioranza italiani, ma sono trattati peggio che se fossero stranieri. Sappiamo che la costruzione dell’immaginario passa attraverso i corpi, e attraverso le modalità con le quali alcuni corpi contano più di altri, e vengono “raccontati” con differenti “marcature”. Così la cameretta di Maria, in ordine, pulita e ben arredata, è elemento di sospetto in una famiglia poverissima. In un mondo colmo di pregiudizi, questo è ciò che il nostro “sguardo” vuol vedere. Così la giovane e coraggiosa Leonarda, pronta a percorrere la propria strada di autodeterminazione in Francia anche contro le violenze subite in famiglia, viene obbligata a scegliere tra ciò che è ritenuta essere la “sua razza” (la sua famiglia romanés, espulsa in Kosovo) e il cosiddetto diritto/dovere di studio, magari per diventare “una brava francese”. E magari per vergognarsi, in futuro, di avere genitori “rom”. Si parla tanto di aiutare le donne a denunciare chi le stupra e molesta: lo Stato francese si è reso complice della violenza contro Leonarda, spingendola a ritrattare le precedenti accuse verso il padre, a causa dell’attacco del governo francese contro la sua famiglia. Ma l’utilizzo del sessismo per politiche razziste e del razzismo per attacchi sessisti, noi, lo sappiamo riconoscere. Noi sappiamo da che parte stare. La piccola Maria non è figlia “biologica” di chi l’ha comunque accolta e nutrita, pur in povertà. I motivi per i quali la bambina è cresciuta in quella famiglia rom possono essere tantissimi. La tv di Stato e quella privata hanno già decretato il verdetto. Noi stiamo con Maria, con Leonarda e con il popolo rom (Osservatorio antidiscriminazioni, Giù le mani da Maria!, ottobre 2013).

mercoledì 17 luglio 2013

Le lacrime della leghista

Qualche settimana fa la consigliera leghista Dolores Valandro aveva scritto sulla sua bacheca Facebook, riferendosi alla ministra dell'integrazione Cécile Kyenge,"ma mai nessuno che se la stupri". Espulsa dalla Lega e denunciata per "istigazione ad atti sessuali compiuti per motivi razziali", Valandro è stata oggi condannata per direttissima a 13 mesi, all'obbligo di risarcimento per 13mila euro e all'interdizione dai pubblici uffici per tre anni. Su Globalist.it leggo che "è apparsa in lacrime e pentita davanti al giudice" e che avrebbe affermato:«Non era mia intenzione come madre e come donna insultare un'altra donna, mi è però passato davanti agli occhi un episodio capitato a mia figlia - ha detto -. È stato un attimo di impulsività perché non ho mai visto atti così violenti nei confronti delle donne perpetrati dagli italiani». Lacrime e retorica maternalista a parte, sappiamo che questa condanna - così come a suo tempo l'espulsione di Valandro dal suo partito - non servirà a cancellare quella cultura sessista e razzista che la Lega ha contribuito in questi anni a produrre/riprodurre e non sarà neanche sufficiente ad interrompere la spirale di odio potenzialmente innescata da frasi come la sua o del Calderoli di turno

giovedì 27 giugno 2013

Intersexioni

Con in esergo una bella frase di Milton Diamond (Nature loves variety. Unfortunately, society hates it) è online da qualche giorno, anche se ancora "in costruzione", Intersexioni, sito di un collettivo che, come si legge nel "chi siamo", è composto da "persone di diversa provenienza ed esperienza, accomunate dall’interesse per temi tra loro variamente interconnessi quali le disuguaglianze di genere e l’intersezione tra genere, etnia, ceto/classe,il sessismo, la violenza di genere, il bullismo e l’omo-trasfobia, i diritti delle persone intersex (o con differenze nello sviluppo sessuale), i diritti delle minoranze sessuali, delle persone omosessuali e transgender, le nuove famiglie, l’omo e trans genitorialità, tutto questo e anche altro nell’ottica del rispetto di ogni essere vivente e della costruzione di una società migliore, più equa, giusta e accogliente". Tra i tanti e interessanti materiali già pubblicati anche la voce Modificazioni, scritta da Beatrice Busi per Femministe a parole. Grazie a Intersexioni e buona esplorazione a tutte/i!

sabato 15 giugno 2013

Cécile Kyenge e lo stupro

Il sindaco di Verona, Flavio Tosi, ha annunciato durante una trasmissione Rai che la leghista Dolores Valandro - che qualche giorno fa aveva scritto nel suo profilo fb, riferendosi a Cécile Kyenge: "ma mai nessuno che se la stupri… -, sarà espulsa poiché "Nei grandi numeri la persona che si comporta in maniera scorretta c’è, ma non rappresenta un gruppo o una linea di pensiero". Peccato per Tosi che, al di là delle sue dichiarazione e speranze, abbiamo perfettamente memoria della "linea di pensiero" celodurista del suo partito e del tipo di cultura sessista e razzista che questa ha contribuito a consolidare in Italia in questi anni. Sappiamo anche che per tutta una variegata galassia di destra (verso cui alcune delle sue espressioni lo stesso Tosi ha mostrato spesso "simpatia" politica) non è insolito evocare lo stupro per scopi educativi / punitivi. L'espulsione di Dolores Calandro non serve  a cancellare questa cultura e neanche è sufficiente ad interrompere la spirale di odio potenzialmente innescata dalla sua frase. Solidarietà a  Cécile Kyenge  // (Alcuni) articoli correlati : Chi ha paura della donna nera?, L'integrazione è un campo di battaglia, Igiaba Scego e le domande imbarazzanti

martedì 11 giugno 2013

La passione di Isabella Rauti

Mara Carfagna, portavoce del Pdl alla Camera, ha dichiarato in una nota che Isabella Rauti - appena nominata consigliere per le politiche di contrasto della violenza di genere e del femminicidio dal ministro dell'Interno, Angelino Alfano -, è tra le persone più indicate e più competenti per ricoprire questo ruolo poiché "si è sempre distinta per passione e per un impegno constante nella difesa delle donne e dei più svantaggiati". Bien sur la "passione" a cui fa riferimento Carfagna è quella con cui Isabella Rauti ha sostenuto la proposta di legge Tarzia per la riforma dei consultori, le marce per la vita e gli ideali di famiglia ... // (Alcuni) articoli correlati: Nel nome del padre (e della famiglia), Fascisti in lutto, Signore di destra

lunedì 3 giugno 2013

La Calabria e la provincia afghana

Ovviamente anche la storia della quindicenne pugnalata e poi bruciata viva dal "fidanzato" la scorsa settimana ha seguito i tempi classici del "fare informazione" e alla sovraesposizione mediatica dei primi giorni - in quel coacervo ributtante di vuoyerismo, sessismo e razzismo di cui ha parlato anche Sonia Sabelli - è seguito il silenzio della stampa mainstream e non. Semplicemente questa morte non fa più "notizia" e finirà presto nel dimenticatoio insieme a tutti quegli articoli che hanno contribuito alla costruzione e (ri) produzione di un discorso pubblico/mediatico inficiato da stereotipi e pregiudizi violentemente razzisti/sessisti quali la presunta "specificità calabrese" dell'omicidio. Tra questi articoli mi sembra che valga la pena ricordare, a futura memoria, quello pubblicato su Donne di fatto, la pagina "rosa" de Il Fatto Quotidiano, dal titolo Calabria, la donna non vale nulla. L'autore - che utilizza una formula retorica consolidata, ovvero quella di dichiarare il suo "essere calabrese" come prova dell'autenticità/verità di quanto afferma - si lancia in una sorta di indagine sociologica/antropologica sulla "condizione delle donne calabresi". Dopo un fiume di commenti che contestano quanto scrive, il giornalista pubblica qualche giorno dopo un altro articolo per spiegare  e giustificare, punto per punto, quanto scritto in precedenza, ma le sue spiegazioni e giustificazioni non fanno che confermare la fitta ragnatela di immaginari razzisti e sessisti in cui l'autore si dibatte

mercoledì 29 maggio 2013

La bellezza di Franca Rame e gli omissis del Tg2

Leggo in Globalist.it che in occasione della morte di Franca Rame, avvenuta oggi a Milano, un servizio della giornalista Carola Carulli mandato in onda nel Tg2 delle 13, la ricorda così: "Una donna bellissima Franca, amata e odiata. Chi la definiva un'attrice di talento che sapeva mettere in gioco la propria carriera teatrale per un ideale di militanza politica totalizzante, chi invece la vedeva coma la pasionaria rossa che approfittava della propria bellezza fisica per imporre attenzione. Finché il 9 marzo del 1973 fu sequestrata e stuprata. Ci vollero 25 anni per scoprire i nomi degli aggressori, ma tutto era caduto in prescrizione". In questa rievocazione lo stupro sembra quasi una conseguenza della sua bellezza - per di più "ostentata" e "utilizzata" - e si omette di dire che i mandanti del  sequestro e dello stupro furono alcuni ufficiali dei carabinieri della Divisione Pastrengo di Milano e che a compierlo furono cinque esponenti di estrema destra. Franca Rame andava punita per la sua attività politica nelle carceri con Soccorso Rosso, per essere la compagna di Dario Fo, ma soprattutto per essersi esposta pubblicamente sull'omicidio di Giuseppe Pinelli prima recitando in Morte accidentale di un anarchico e poi firmando insieme ad altri/e, nel 1971, la lettera aperta pubblicata sul settimanale L'Espresso in cui si chiedeva la destituzione di alcuni funzionari, ritenuti artefici di gravi omissioni e negligenze nell'accertamento delle responsabilità circa la morte di Pinelli, precipitato da una finestra della questura di Milano il 15 dicembre 1969, tre giorni dopo la strage di Piazza Fontana.

Assassino è chi uccide. Ovunque

Ricevo dal Centro di Women’s Studies Milly Villa dell'Università della Calabria - e condivido - una riflessione sulla costruzione e (ri)produzione di un certo tipo di discorso pubblico sull'omicidio, avvenuto qualche giorno fa in provincia di Cosenza, di una ragazzina di quindici anni. Ecco il testo: "L’omicidio di Fabiana Luzzi ci interroga e ci fa riflettere. Crediamo che in questi casi sia necessario rispettare il dolore di una famiglia e di una comunità. Come Centro di Women’s Studies Milly Villa non possiamo tuttavia tacere rispetto alla costruzione e alla (ri) produzione del discorso pubblico a cui stiamo assistendo in queste ore. Non possiamo dare spazio alla costruzione del discorso mediatico che possa anche solo minimamente legittimare una posizione o rafforzare stereotipi e pregiudizi. C’è sempre un pericolo nascosto quando si esprime un giudizio o un’opinione che diventa pubblica: il pericolo del non approfondimento, della rinuncia a conoscere. Il pericolo è quello dell’inerzia o della frettolosità che fa irrigidire la definizione della realtà, investita emozionalmente da chi la esprime, in puro pregiudizio. L’omicidio di una donna è tale ovunque accada: non è il luogo a stabilire naturali predisposizioni. Non è biologia, né cultura naturalizzata. E’ violenza, e la violenza non conosce appartenenze territoriali o regionali. Assassini lo si diventa quando si uccide.E’ per questo che come Centro sottolineiamo il pericolo nascosto all’interno di ogni stereotipo che diventa pregiudizio: il pericolo di un razzismo che nasconde la realtà e che non permette di leggerla nelle sue tante dimensioni. Riteniamo indispensabile ripensare alle categorie attraverso le quali leggiamo la violenza di genere, attraverso cui proviamo a comprendere i cambiamenti nelle relazioni, nelle dinamiche di potere, di riconoscimento, di costruzione di una idea di relazione affettiva come possesso e dominio. Essere situate in una terra come la Calabria significa anche decostruire un immaginario legato alle donne del sud, agli uomini del sud, alle dinamiche tra i generi. A Sud, ma non solo. Significa decostruire concetti come quelli di emancipazione, per approfondire le diverse forse di dominio da cui liberarsi, ed uscire dalla logica che ci rende libere o oppresse nelle rispettive scelte di partire o restare. Significa decostruire quella visione ricorrente (a cui sembra che due ‘importanti’ giornali nazionali siano ormai affezionati) che tende a svalutare e razzizzare i sud - e la Calabria in particolare - confinandoli in una costruzione discorsiva che li vuole immobili, depauperati, senza storia, stretti dalla morsa del patriarcato. Significa, per lo stesso motivo, anche sfuggire ai discorsi che si arroccano intorno a una ‘presunta’ identità ferita, a una ‘calabresità’ offesa e da difendere: anche in questo caso il rischio è quello di ‘naturalizzare’ la Calabria,annullare le criticità, i chiaroscuri, la forza di un paradigma eterosessista declinato al maschile. Come Centro di Women’s Studies dell’Università della Calabria speriamo che da questa orrenda vicenda si possa avviare una riflessione seria a partire dal linguaggio utilizzato dai media: parlare non di amore, di gelosia, di passione, ma di violenza, rabbia, calcolo e orrore. Speriamo che da qui si possa rimettere al centro la vita delle donne, la dignità delle persone, a partire dall’individuazione di nuove prospettive di analisi, dalla proposta di percorsi formativi ed educativi, dal sostegno ai centri antiviolenza, rafforzando ciò che esiste e resiste, spesso a fatica. Rinnoviamo la nostra vicinanza alla famiglia di Fabiana, e a tutte le vittime di femminicidio"

lunedì 27 maggio 2013

Cesare Lombroso e la specificità calabrese

Una ragazzina di quindici anni, Fabiana Luzzi, viene uccisa in maniera atroce dal suo "fidanzato", poco più grande di lei, in un paesino in provincia di Cosenza. La lettera di una "trentenne calabra, direttore delle relazioni esterne di una multinazionale" inviata e poi pubblicata da Il Corriere della Sera con il titolo Sono nata nella terra dove è stata uccisa Fabiana, io sono fuggita lei non c'è riuscita, ha scatenato una serie di reazioni tra chi, come si legge su Scirocco News, non riesce a scorgere l'attinenza tra l'omicidio di una ragazzina e il fatto che fosse nata in una certe regione e si oppone all'immagine di una Calabria terra barbara e retrograda, dove gli uomini sono tutti dei padre padrone con la clava e le donne tutte vittime e sottomesse. Un omicidio riconducibile insomma ad una sorta di "specificità calabrese", così come per l'omicidio di Sarah Scazzi si era parlato di cultura meridionale. Doriana Righini nel suo La rivincita di Lombroso, scrive che, come affermava Rosa Luxemburg, il primo gesto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro vero nome e che quindi, riprendendo le parole di Renate Siebert, non si può che definire razzista quanto espresso nella lettera pubblicata dal Corriere della Sera, poiché " una storia come questa potrebbe essere accaduta in qualsiasi altro posto d’Italia. Trovo assolutamente razzista e aberrante che si possa parlare, in questa vicenda, di specificità calabrese [...] Per come conosco la Calabria devo dedurre che chi sostiene queste tesi è sostanzialmente razzista ”. // Alcuni articoli correlati in Marginalia: Il ritorno del meridionale mafioso e omertoso, Il colore delle donne meridionali, I meridionali sono meno intelligenti. E le meridionali ancora meno

lunedì 20 maggio 2013

La marcia per la vita e le madri snaturate

Anche se con un certo lag (l'articolo è stato pubblicato la scorsa settimana sul blog della 27esima ora), segnaliamo questo intervento di Lea Melandri che ci sembra offra spunti interessanti di riflessione sul legame tra la violenza subita quotidianamente dalle donne in Italia (nella stragrande maggioranza da parte - diversamente da come certa retorica razzista/sessista vorrebbe farci credere - di padri, mariti, compagni, amanti ...) e quella che l'autrice definisce " la grande ossessione della cultura maschile più conservatrice" che trova nelle "marce per la vita" uno dei suoi momenti più significativi

martedì 7 maggio 2013

Donne, corpi, pubblicità a Roma3

Questo pomeriggio, presso la facoltà di Scienze della Formazione di Roma3, presentazione del volume di Laura Corradi (e con contributi di Marta Baldocchi, Emanuela Chiodo, Vincenza Perilli, Angela Tiano) Specchio delle sue brame. Analisi socio-politica delle pubblicità: genere, classe, razza, età ed eterosessismo (Ediesse, 2012). Per maggiori info sull'iniziativa rinviamo al sito di UniRoma. Articoli correlati in Marginalia: Specchio delle sue brame, Il sistema sessismo/razzismo in pubblicità, Donne, corpi, pubblicità

domenica 5 maggio 2013

Cècile Kyenge / Chi ha paura della donna nera?

Chi ha paura della donna nera ? -, un articolo discusso e scritto con le compagne di Migranda a proposito di Cécile Kyenge, la nuova ministra dell'integrazione e le reazioni che ne hanno accompagnato la nomina. Ogni commento è il benvenuto, buona lettura // "Se i piccini sono stati abituati ad avere paura dell’uomo nero, oggi i grandi hanno paura di una donna nera, Cécile Kyenge, appena nominata ministra dell’integrazione. Cécile Kyenge non fa paura perché è una donna. I governi hanno sempre saputo come tenere al loro posto le donne ambiziose, e alcune al loro posto ci sono anche rimaste con piacere. Del resto, nessuno di quelli che hanno accolto l’incarico di Kyenge con insulti razzisti e maschilisti ha avuto nulla da ridire sulla nomina al Ministero della salute di Beatrice Lorenzin, che d’altra parte ha avviato la sua attività istituzionale annunciando una campagna «a favore della vita» di cui certo le donne non potevano fare a meno. Cécile Kyenge, dunque, non fa paura perché è una donna. Cécile Kyenge, però, non fa paura neppure solo per il fatto di essere nera. È vero che, per il più profondo ventre razzista italiano, ogni messa in discussione delle cosiddetta linea del colore è un’eresia da combattere. Negli ultimi anni, però, anche nelle fila di quella Lega Nord che oggi insulta la nuova ministra sono state elette donne nere come Sandy Cane, convinta sostenitrice di maggiori controlli per evitare l’ingresso di «clandestini». Cécile Kyenge, quindi, non fa paura nemmeno perché è nera. A fare paura sembrerebbe piuttosto il fatto che si tratta di una «donna-nera», come lei stessa si è orgogliosamente definita, senza possibilità di tenere questi due termini separati o distinti, e senza poterli separare neanche dal fatto che questa donna-nera sta almeno in parte mettendo in discussione la legge Bossi-Fini. Il razzismo becero del governatore del Veneto, che pochi giorni fa ha intimato alla «ministra nera» di andare a visitare la donna austriaca stuprata da due «extra-comunitari», sembra cogliere questo punto con incredibile precisione. In nome di quella presunta «cultura veneta per cui il rispetto dell’identità della donna è un pilastro fondamentale», Zaia ha cercato di togliere a Cécile Kyenge il fatto di essere donna, identificando la violenza sessuale con la «razza» e dimenticando volutamente, come peraltro Cécile Kyenge gli ha ricordato, che la violenza sulle donne non ha razza né classe, ma solo un sesso. A dimostrazione della difficoltà di guardare alla «ministra nera» come donna e come nera, Zaia ha cancellato il primo aspetto e ha usato l’equazione razza-violenza per identificarla con i neri come lei, facendone su questa base una sorta di rappresentante istituzionale di migranti che, secondo quelli come lui, per natura stuprano, rubano, ammazzano. Come sempre accade, la violenza sulle donne viene trattata dai nostri solerti ministri per fini che con le donne nulla hanno a che fare, e come sempre accade si trascura il fatto che essa in Italia continua a essere perpetrata per la maggior parte per mano di padri, fratelli, mariti, amici di famiglia e compagni. Ma la famiglia non si tocca! Quella si che è un vero pilastro della cultura veneta, e persino italiana. Con lo scopo di denigrarla, Cécile Kyenge è così chiamata a dare conto dei crimini di «quelli come lei», diventando la rappresentante di quanti alla rappresentanza non hanno alcun diritto. Si sa che sono qui, qui lavorano, qui versano contributi che non rivedranno mai, qui vivono sotto il ricatto di un permesso di soggiorno che pagano profumatamente finché lavorano, per essere poi detenuti nei Cie ed espulsi, senza contributi, quando il lavoro lo perdono. E di questi migranti molti sono donne, che stanno al servizio dei «nostri» anziani finché sono anziane anche loro, ma non hanno neppure la cittadinanza da offrire per i loro figli. Ad alcune è concesso di non lavorare, ma solo al prezzo di restare in Italia come «ricongiunte», le mogli dei mariti, senza permesso di soggiorno autonomo. Loro forse non sono donne come le venete, o come le austriache. O forse, come accade per le venete e le mitteleuropee per cui Borghezio ha un’«innegabile preferenza», anche loro possono essere calpestate in nome della famiglia, di quel ricongiungimento familiare che consente loro di restare a prezzo di una parte della loro autonomia. Il fatto è che, come donna-nera, Cécile Kyenge non è tanto la rappresentante di qualcuno, ma è colei che mostra che «quelle come lei» sono del tutto fuori posto nel luogo in cui lei si trova, proprio perché non possono essere rappresentate. Le donne «come lei» dovrebbero stare ben chiuse e nascoste nelle case dei cittadini e delle cittadine di questo paese, dovrebbero accettare di avere un destino segnato – se non come casalinghe, come pretenderebbe il degno compagno di Zaia, Borghezio – almeno come badanti, operatrici delle pulizie, prostitute, mogli, operaie. Se Cécile Kyenge raccoglie così tanti insulti è perché si trova in un posto dove «quelle come lei» non dovrebbero stare. Eppure, Cécile Kyenge si trova in quel posto, e non ci sta come una bambolina che, passivamente, con la sua sola presenza e il suo corpo nero dovrebbe risolvere il problema di un partito alla ricerca di una legittimità antirazzista perduta. Ci sta con la sua pretesa – fin troppo cauta – di inceppare l’ingranaggio del razzismo istituzionale di cui sta facendo esperienza sulla propria pelle, e che per tutti quelli «come lei» prende il nome di legge Bossi-Fini. Noi non sappiamo cosa Cécile Kyenge riuscirà a ottenere nel suo ruolo, anche se siamo certe che non avrà vita facile. Crediamo che la sua presenza fuori luogo, come dimostra la paura che suscita, segnali un cambiamento di non poco conto. Sappiamo anche, però, che non tutte «quelle come lei» hanno la stessa possibilità di essere fuori posto come lei. Che in questo paese la battaglia delle donne-nere, delle donne-migranti, per uscire dalle case, sottrarsi agli obblighi riproduttivi, al comando del salario o alla dipendenza dai loro mariti è ancora tutta da giocare e in tutti i casi, che non sono pochi, parte da loro con coraggio e determinazione. E sappiamo che questa battaglia difficilmente si giocherà tra i volti bianchi di un ministero, ma piuttosto nelle case, nelle piazze dove da tempo i migranti e le migranti stanno lottando contro la legge Bossi-Fini, in tutti quei luoghi dove essere donne, donne-nere e donne-migranti fa, può fare, deve fare la differenza"

lunedì 25 febbraio 2013

Pink Gang

Proiezione di Pink Gang - il documentario di Enrico Bisi che racconta la storia della Gulabi Gang, gruppo di donne indiane che combatte contro la violenza sule donne - oggi pomeriggio alle ore 17 (Palazzo Nuovo - Torino). Interverranno il regista e la storica Liliana Ellena. Per ulteriori info Sguardi sui Generis

mercoledì 20 febbraio 2013

Speak out ! / Non in nostro nome

Segnaliamo la conferenza internazionale "Non in nostro nome. Prevenire la violenza di genere attraverso il self-empowerment di donne migranti, rifugiate e di gruppi minoritari , per la costruzione di reti territoriali e comunitarie", che si terrà il 21 Febbraio all' Università di Venezia - Ca’ Foscari e il 22 Febbraio all' Università di Padova, presso il Dipartimento Fisppa. La conferenza costituisce l’evento conclusivo del progetto Speak out! Empowering migrant, refugee and ethnic minority women against gender violence in Europe, cofinanziato dal Programma Daphne III della Commissione Europea e coordinato da Franca Bimbi, docente presso l'Università di Padova. Come si legge nella presentazione della conferenza " il progetto Speak out! ha preso le mosse da una preoccupazione: nel dibattito pubblico Europeo, ed anche in Italia, le donne MRM (migranti, rifugiate, di minoranze) sono spesso tacitate, mentre sono rappresentati prevalentemente punti di vista maschili e delle donne “native”. Ancora di più negli scenari dell’attuale crisi, appare necessario sviluppare in Europa politiche di inclusione, gender and migrants friendly, capaci di superare i rischi di razzializzazione ed etnicizzazione dei discorsi sulla migrazione. Speak out! ha perseguito l’obiettivo di dar voce alla molteplicità dei discorsi delle donne MRM ed ai loro e “nostri” posizionamenti translocali, sulle esperienze di migrazione e di violenza familiare, istituzionale, razziale". Per maggiori info e il programma dettagliato della conferenza rinviamo al sito del Departimento di Sociologia dell'Università di Padova

giovedì 14 febbraio 2013

San Valentino Queer

Ricomincia oggi, con Renato Busarello e Elisa Arfini, il seminario di autoformazione Dal femminismo agli "altri femminismi", a cura del Laboratorio Autoformazione e del Bartleby Spazio Autogestito. Tema di questo settimo incontro la Critica Queer, una valida alternativa per chi purtroppo oggi non può essere al Congresso della Sis a Padova e rifugge dal balletto in piazza di Snoq&Co

giovedì 17 gennaio 2013

Appello del Centro Frantz Fanon

Il Centro Franz Fanon,  a nome del suo responsabile, Roberto Beneduce - tra l'altro curatore del volume Decolonizzare la follia -, lancia un appello per scongiurare il rischio di chiusura del centro - che da anni accoglie immigrati/e, rifugiati/e, vittime di violenza e tortura, nomadi e richiedenti asilo che, in ragione di motivi di disagio psicologico, esprimono una domanda di ascolto, di counselling o di psicoterapia -, in seguito alla cessazione della convenzione per l'uso dei locali dell'Asl To 1

venerdì 11 gennaio 2013

Sguardi intersezionali sul femminicidio e la violenza subita dalle donne

Da Riflessioni sull'intersezioni di sessismo e razzismo, il blog di Sonia Sabelli, un articolo di Isoke Aikpitanyi - dell'Associazione vittime ed ex-vittime della tratta -, dal titolo La percezione del femminicidio e della violenza fra le vittime della tratta. Pubblicato originariamente su Africa News, l'articolo costringe a riflettere su come cambia la percezione della violenza subita dalle donne se si è italiane o non lo si è, denunciando anche l'atteggiamento delle donne italiane che "Invece di ascoltarci [...] preferiscono fare il possibile per rappresentarci loro, prendendosi tutto lo spazio, cercando di capire, interpretare e rappresentare noi che vorremmo farlo direttamente"

mercoledì 9 gennaio 2013

Stupri in India (e retoriche neocolonialiste in Italia)

Dopo anni trascorsi a denunciare le retoriche razziste e sessiste diffuse dai media italiani - insieme sintomo (e parte attiva nella produzione) di un pervasivo immaginario neocoloniale -, capita di essere assalite da un vero e proprio senso di nausea alla lettura di talune ricostruzioni ed elucubrazioni giornalistiche su gravi fatti di cronaca, come lo stupro di gruppo avvenuto qualche settimana fa a Delhi. Una boccata di ossigeno leggerne la puntuale de-costruzione e critica su I consigli di zia Jo, che autorizzo ufficialmente ad inviare a Marginalia tutti i commenti (OT o non OT) che desidera ...