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mercoledì 13 gennaio 2016
giovedì 17 dicembre 2015
Storie in movimento ricorda Mario Dondero / Obiettivi bellici. Raccontare la guerra con le immagini
La sera del 13 dicembre se n’è andato Mario Dondero. Lo vogliamo salutare rileggendo un suo intervento pubblicato su «Zapruder», n. 2 (settembre-dicembre 2003), Obiettivi bellici. Raccontare la guerra con le immagini.L'articolo è online sul sito di Sim: http://storieinmovimento.org/2015/12/15/ciao-mario/
mercoledì 13 maggio 2015
Manifestazione nazionale rom e sinti / U barò merapé charar u sinti
Via Staffetta il manifesto della manifestazione nazionale antirazzista promossa da rom e sinti per sabato prossimo a Bologna per contrastare la violenta campagna d’odio antizigano portata avanti in Italia dalla destra leghista e neofascista. Purtroppo da mesi era stata già fissata, per la stessa data, la riunione di redazione di Zapruder (alla quale non potrò mancare) ma chiedo a quant@ leggono Marginalia di far girare il volantino della manifestazione
martedì 7 aprile 2015
Claudette Colvin
Un bel volume per 'scoprire' Claudette Colvin, una militante africana-americana per i diritti civile spesso dimenticata, alla quale avevo accennato brevemente anni fa in Rosa Parks e le altre, buona lettura
domenica 11 gennaio 2015
Je ne suis pas Charlie
Je ne suis pas Charlie / I am not Charlie / Io non sono Charlie ... Qui sopra una delle "vignette satiriche" di Charlie Hebdo, via The Maroon Colony, che ne pubblica anche altre particolarmente significative, tra le quali quella che rappresenta la ministra Christiane Taubira nelle vesti di un gorilla (uno dei più longevi topos razzisti di memoria coloniale, e di cui ha fatto recentemete le spese anche Cécile Kyenge). Sull'uso della retorica della "libertà di espressione" in relazione a quanto avvenuto in Francia rinvio al bel testo di Rawrfeminista. Per una lucida presa di posizione sul dibattito scatenatosi anche in Italia e alcuni dei suoi punti problematici, rinvio all'articolo di Karim Metref, Io non mi dissocio da niente, ripubblicato sul suo blog da Sonia Sabelli.
domenica 21 dicembre 2014
La Libreria delle Moline chiude ...
Il 31 dicembre chiude, con una grande "svendita", la storica Libreria delle Moline, uno dei primissimi (e rari) luoghi in cui mi sono sentita veramente "accolta" quando, oramai molti anni fa, sono arrivata per la prima volta, ancora un po' sperduta, a Bologna. Tantissimi libri (tanti dei quali sono ora tra gli scaffali della mia stanza), e soprattutto la presenza di Gregorio e Marta, hanno reso questo luogo quasi magico. Ho tanti ricordi, mentre scrivo si accavallano uno dopo l'altro nella mente, incontri e discussioni appassionate, presentazioni, libri sfogliati, accarezzati, commentati insieme ... e tanti, tantissimi altri ricordi che adesso, per un innato (anche se magari fuori moda) riserbo, tengo stretti stretti solo per me. Dico soltanto che con la chiusura della Libreria delle Moline se ne va via un altro pezzettino del mio cuore ... Ma tra quelle mura, sotto quei portici, resterà per sempre qualcosa, incaccellabile, onde blu mare
venerdì 19 dicembre 2014
giovedì 13 novembre 2014
sabato 25 ottobre 2014
Bus separati per "rom" e "residenti" / Una lettera di Giuseppe Faso
Bus separati per "rom" e "residenti" sulla linea n. 69, che da Torino porta nella cittadina di Borgaro: questa la proposta avanzata dal sindaco, Claudio Gambino (Pd) e da un assessore di Sel, Luigi Spinelli. La definiscono una "provocazione", forse ignari (come altri che prima di loro hanno avanzato simili proposte) del decreto del 19 luglio 1937 che all'interno della più ampia legislazione di segregazione razziale nelle colonie italiane in AOI, interdiceva "ai sudditi l'uso di autovetture in servizio pubblico guidate da nazionali" (cfr. La menzogna della razza, Grafis, 1994). Sulla vicenda pubblico una lettera che Giuseppe Faso (dell'associazione Straniamenti e autore, tra l’altro, di Lessico del razzismo democratico) ha inviato al sindaco di Borgaro Torinese. Per chi volesse imitarlo ecco la mail: sindaco@comune.borgaro-torinese.to.it .
Egregio sindaco, Le chiedo col massimo rispetto un ripensamento rispetto alla Sua idea, se riportata senza forzature dalla stampa. Si possono senza dubbio capire e rispettare le Sue preoccupazioni e il Suo senso di responsabilità nei confronti di un problema la cui gravità non posso certo giudicare io da centinaia di chilometri di distanza. La soluzione prospettata da Lei, quale appare dalla stampa, preoccupa: non è possibile immaginare di distinguere l’utenza dei bus secondo una provenienza sociale, etnica, razziale e rivendicare una distanza dal razzismo. Abbia pazienza, ma il razzismo consiste proprio nel categorizzare le persone, e attribuire loro responsabilità o quozienti di inaccettabilità, in base semplicemente a una presunta origine. Lei probabilmente è piemontese, e io sicuramente meridionale: “piemuntisi” erano per i miei bisnonni truppe di occupazioni, che sulla base di presunta pericolosità di intere popolazioni hanno compiuto crimini di massa. E persone nate e vissute da ragazzi dove io sono nato e vissuto da ragazzo in Comuni non lontani dal suo hanno operato negli ultimi decenni secondo logiche mafiose – partendo dal movimento terra e inquinando a volte municipi interi -; impediranno a Lei e a me di rispettarci come individui, e come individui responsabili del loro operato, e non della loro più o meno presunta appartenenza, giudicarci? Spero di no. Lei ha una grande responsabilità amministrativa: non si faccia ricordare come chi ha attuato quanto i Suoi colleghi leghisti hanno più volte minacciato. Non penserei che Lei è un razzista, non attribuisco a nessuno etichette totalizzanti. Ma i gesti, le decisioni, i comportamenti, quelli sì, possono essere razzisti, e non dipendono dalle Sue intenzioni, ma dalle categorizzazione che metterà o no in atto. Se Lei adopererà una categoria razzizzata, avrà deciso da solo del razzismo della Sua decisione. Certo, molti Le daranno ragione. Non mi faccia operare paralleli storici poco lusinghieri per chi a suo tempo ha dato o avuto consenso su questi temi. Cordialmente, Giuseppe Faso
(Photo credit: effetti sulla popolazione civile dei gas usati dagli italiani durante l'aggressione all'Etiopia 1936-1941, foto dal sito dell'Ecadf)
mercoledì 9 aprile 2014
Transmission Nicole-Claude Mathieu
Nella pagina (che avevamo già segnalato) del sito della Féderation de recherche sur le genre (Ring), dedicata a Nicole-Claude Mathieu, è stato inserito l'articolo pubblicato la scorsa settimana da Il Manifesto, ripreso anche dal sito di Intersexioni. Sperando in una sempre più ampia "trasmissione" del lavoro/pensiero di Nicole-Claude Mathieu (e del femminismo materialista) ...
domenica 30 marzo 2014
Ricordando Nicole-Claude Mathieu
A qualche giorno dalla morte, avvenuta il 9 marzo scorso a Parigi, avevo pubblicato qui un breve ricordo di Nicole-Claude Mathieu scritto con Sara Garbagnoli e Valeria Riberio Corossacz, L'anatomia è politica. Ieri il Manifesto, con il titolo redazionale di La natura inventata del genere sessuale, ha pubblicato un nostro più lungo contributo, di cui di seguito potete leggere la versione originale (mentre quella, leggermente più breve, pubblicata dal quotidiano è anche qui). Prima di lasciarvi alla lettura dell'articolo, mi preme però segnalare alcuni dei ricordi che sono stati dedicati a Mathieu, su siti italiani e non, nelle ultime settimane: anzitutto gli interventi di Rosanna Fiocchetto e Jacqueline Julien, pubblicati entrambi sul Guazzington Post di Paola Guazzo, il sito della Libera Università delle donne (che ha ripreso il saggio dedicato a Nicole-Claude Mathieu pubblicato in Non si nasce donna) come anche i post di Sonia Sabelli (che rinvia, tra l'altro, alla trasmissione andata in onda su Mfla) e di Azione gay e lesbica. In Francia infine, il sito del Ring ha aperto una pagina dedicata a Mathieu, che è in continuo aggiornamento. Vi lascio ora al testo, buona lettura // Per un'anatomia politica dei sessi: un ricordo di Nicole-Claude Mathieu (di Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz). Nicole-Claude Mathieu si è spenta a Parigi il 9 marzo scorso, lasciando un vuoto non misurabile in quelli che, a partire dai primi anni '70 del secolo scorso, sono stati i suoi ambiti privilegiati di produzione teorica, di impegno politico e di insegnamento: l’antropologia e la teoria femminista. Grazie ad un rigore, a un’audacia e una lucidità intellettuali e politiche di rara levatura, Mathieu ha contribuito a rielaborare criticamente l’epistemologia e a ridefinire le frontiere di tali saperi. Femminista lesbica materialista, nel 1977 è stata tra le co-fondatrici della rivista Questions Féministes, che, diretta da Simone De Beauvoir e animata, tra le altre, da Monique Wittig, Colette Guillaumin e Christine Delphy, ha prodotto nello spazio intellettuale francese un'analisi radicalmente antinaturalista dell’eterosessualità intesa come regime politico naturalizzato fondato sulla gerarchia tra i sessi e le sessualità. Ha fatto parte del Laboratoire d’anthropologie sociale creato da Claude Lévi-Strauss e ha insegnato per due decenni Antropologia e Sociologia dei sessi all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Le sue ricerche riguardano la «categorizzazione sociale dei sessi», una definizione che rende chiaro che i sessi sono socialmente effettivi nel momento in cui sono investiti da una classificazione sociale, oggetto di analisi dell’antropologia e del femminismo. Il titolo della sua principale raccolta di saggi L’anatomie politique. Catégorisations et idéologies du sexe (L’anatomia politica. Categorizzazioni e ideologie di sesso), pubblicata nel 1991 da Côté-femmes e rieditata pochi mesi fa dalle éditions iXe, concentra e esprime il suo programma di ricerca che mirava a combinare lo studio delle molteplici forme attraverso cui l’oppressione della classe delle donne si dispiega in diversi
contesti sociali. Come ha scritto Monique Wittig all'inizio degli anni '80, un approccio femminista materialista dell’oppressione delle donne distrugge l’idea che esse siano un «gruppo naturale»: Mathieu ha definito e studiato le donne come «una comunità di oppressione» attraversata da altre forme di gerarchizzazione (la classe, l'etnia, la sessualità...) e socialmente percepita come fosse «un gruppo naturale specifico» dalle cui supposte «specificità naturali» deriverebbero specifiche qualità, virtù, cultura. Lungi dal voler mostrare che non esistono differenze biologiche, fenotipiche tra le persone, le ricerche di Mathieu hanno indagato le modalità attraverso le quali differenze biologiche in sé non significative lo diventano socialmente. Attraverso fini analisi etnologiche Mathieu ha fatto emergere
come le differenze biologiche tra i sessi vengono ad avere significato e pertinenza sociale: uomini e donne sono costruzioni socio-economiche naturalizzate, classi antagoniste la cui funzione è quella di perpetuare l'oppressione materiale e simbolica delle donne. È difficile ricordare in poco spazio la ricchezza e la profondità delle sue analisi, delle interrogazioni sollevate, delle categorie critiche forgiate. Tra i contributi che hanno contraddistinto il suo lavoro, desideriamo almeno menzionare la costruzione di una definizione sociologica delle classi di sesso, la critica all’androcentrismo delle scienze sociali e dei processi di universalizzazione del punto di vista dominante che caratterizza
l’epistemologia che le sottende, lo studio degli effetti della dominazione maschile sulla «coscienza dominata» delle donne, l’analisi diacronica e sincronica dei diversi significati e usi sociali di «sesso» e di «genere», l’impatto del relativismo culturale sulla discussione dell’oppressione delle donne in paesi non occidentali. In «Quand céder n’est pas consentir», uno dei suoi articoli più penetranti, Mathieu contesta le analisi etnologiche e le ideologie correnti secondo cui le donne acconsentirebbero alla loro dominazione ed esamina gli effetti della dominazione maschile sulla coscienza e sull’inconscio delle donne, mostrando come l’oppressione produca una coscienza ed una
conoscenza della realtà frammentarie e contraddittorie. Un’esperienza insieme corporale e percettiva della dominazione che i dominanti ignorano come tale e che produce per le donne «un cedere
che non è un acconsentire». L'oppressione delle donne si dispiega, per Mathieu, così come per le altre femministe materialiste, attraverso un sistema di processi materiali sostenuti da un sistema
ideologico-discorsivo che produce come credibile la credenza dell'ordine sessuale come ordine trascendente, celando l'origine economico-sociale della «complementarietà» delle classi di sesso. Per la liberazione delle donne (e delle minoranze sessuali), occorre, per tali teoriche, distruggere politicamente, filosoficamente e simbolicamente le categorie di «uomo» e di «donna». Lo studio del
modus operandi dell’oppressione e dei suoi effetti sul corpo e sulle categorie di percezione del mondo dei minoritari ha portato Mathieu a formulare già dai primi anni '90, una critica alle
correnti queer del femminismo statunitense, in particolare la Judith Butler di Gender Trouble, allora ancora pressoché sconosciuta in Francia. A giudizio di Mathieu queste elaborazioni
teoriche non produrrebbero un’analisi delle condizioni materiali oggettive dei rapporti di oppressione delle donne, né indagherebbero le condizioni sociali di possibilità della «capacità di agire» dei soggetti sessualmente minoritari. Come ha sottolineato Jules Falquet in un puntuale contributo pubblicato sulla rivista Cahiers du Genre, le/gli specialiste/i non ignorano certo le ricerche di Mathieu – apparse su prestigiose riviste francesi e internazionali e tradotte in almeno sette lingue – ma, nonostante questo e l'indubbia rilevanza scientifica del suo lavoro, esse non sono considerate quanto meriterebbero all'interno della disciplina antropologica. Questo stato di cose ha indubbiamente a che fare con quei meccanismi della derisione sessista, da lei brillantemente esaminati nei suoi articoli, uno dei dispositivi più ricorrenti per emarginare la produzione teorica con una marcata impronta femminista, tacciandola di non essere «oggettiva» e quindi «scientifica». D'altro canto il lavoro di Mathieu è poco noto edibattuto anche all'interno degli stessi studi femministi, sia in
Francia che nell'area anglofona, e ciò ci costringe ad interrogare, come osserva acutamente ancora Falquet, le logiche scientifiche delle diverse discipline, ma anche i meccanismi di diffusione, trasmissione e discussione dei saperi nell'ambito degli studi femministi. In Italia la situazione è ancora più sconfortante: il lavoro di Mathieu, come del resto la produzione teorica del femminismo materialista francese nel suo insieme, è a tutt'oggi pochissimo dibattuto e tradotto. Ricordiamo la pubblicazione su DWF, nel lontano 1989, del suo saggio «Critiche epistemologiche sulla problematica dei sessi nel discorso etno-antropologico» e qualche rara citazione. Tra i fattori che hanno determinato questo stato di cose, e che restano in gran parte da indagare storicamente, vi è da una parte la ricezione del femminismo francese fortemente influenzata da quella stupefacente
invenzione statunitense che è il French Feminism e dall'altra il poco spazio che l'approccio materialista poteva trovare nel contesto italiano, influenzato da altri paradigmi interpretativi del
rapporto tra i sessi, in particolare, anche se non unicamente, da quello egemonico della differenza sessuale. In questo senso la recente pubblicazione di Non si nasce donna. Percorsi,
testi e contesti del femminismo materialista in Francia (a cura di S. Garbagnoli e V. Perilli, Alegre/Quaderni Viola, 2013), recensita proprio su queste pagine da Alessandra Pigliaru, intende essere uno strumento di introduzione a un tipo di approccio quanto
mai necessario. Dedicato alle rappresentanti maggiori del femminismo materialista francofono – Monique Wittig, Paola Tabet, Colette Guillaumin, Christine Delphy e Nicole-Claude Mathieu – il volume traduce di quest'ultima la stringata ma densa «voce» pubblicata sul Dictionnaire critique du féminisme (Puf, 2000) preceduta da un saggio di Valeria Ribeiro Corossacz, «Per un'anatomia politica dei sessi: l'antropologia materialista di Nicole-Claude Mathieu», con l'auspicio che il lavoro di Mathieu possa continuare a vivere nello spazio intellettuale e femminista, anche italiano
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lunedì 10 marzo 2014
L'anatomia è politica. In ricordo di Nicole-Claude Mathieu
Ieri, 9 marzo 2014, se n'è andata Nicole-Claude Mathieu. Vogliamo ricordarla insieme, per la sua preziosa lucidità e la sua instancabile determinazione nel conoscere e nominare con precisione i rapporti di potere tra i sessi. Continuerà sempre ad alimentare la nostra rivoluzione: l'anatomia è politica
Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz
Condividiamo il saggio che Valeria Ribeiro Corossacz ha dedicato al pensiero di Nicole-Claude Mathieu con l' auspicio di contribuire a farlo vivere come merita anche nello spazio intellettuale italiano:
Per un'anatomia politica dei sessi: l'antropologia materialista di Nicole-Claude Mathieu (in Sara Garbagnoli e Vincenza Perilli, Non si nasce donna. Percorsi, testi e contesti del femminismo materialista in Francia, Alegre/Quaderni Viola, 2013), qui una bibliografia
Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz
Condividiamo il saggio che Valeria Ribeiro Corossacz ha dedicato al pensiero di Nicole-Claude Mathieu con l' auspicio di contribuire a farlo vivere come merita anche nello spazio intellettuale italiano:
Per un'anatomia politica dei sessi: l'antropologia materialista di Nicole-Claude Mathieu (in Sara Garbagnoli e Vincenza Perilli, Non si nasce donna. Percorsi, testi e contesti del femminismo materialista in Francia, Alegre/Quaderni Viola, 2013), qui una bibliografia
martedì 7 gennaio 2014
Le logiche degli sgomberi e dell'assistenzialismo
Mentre solo qualche settimana fa si è tenuta a Bologna la ventitreesima commemorazione dell'assalto da parte della banda della Uno bianca al campo nomadi di via Gobetti in cui persero la vita Rodolfo Bellinati e Patrizia Della Santina, pubblico un articolo di Dimitris Argiropoulos, che ringrazio per la condivisione, comparso qualche giorno fa su il Manifesto, Bologna, la storia di Emmanuelle e della prima accoglienza inesistente. Un articolo che punta il dito su una realtà (e un'amministrazione) specifica, quella di Bologna che "agisce verso gli accampati migranti, profughi e rom con le logiche degli sgomberi e dell’assistenzialismo", e lo fa sviluppando una serie di riflessioni quanto mai urgenti e che hanno una portata molto più ampia dei confini bolognesi. Prima di lasciarvi alla lettura dell'articolo segnalo che la foto che illustra questo post (un matrimonio di rom musulmani khorakane) è uno scatto di Mario Rebeschini e fa parte di una serie realizzata negli anni novanta nei "campi nomadi" di Bologna grazie all'incontro del fotografo gagè con l'artigiano sinti Floriano Debar. Buona lettura // Bologna, 2 gennaio 2014, Emmanuelle è morto. È morto in una cella frigorifero dismessa, dove la sua famiglia e soprattutto sua madre con lui in grembo, ha trovato riparo. 2013 anni fa, Emmanuelle a Betlemme, in direzione ostinata e contraria, ha potuto nascere. Sì, certo, in una stalla, ma è nato. Betlemme con poche risorse, con quello che si aveva, ha potuto essere un contesto ospitale e vivo. La Betlemme è diventata Bios, Vita, e ancora Biopolitica, superamento delle cristallizzazioni e dei destini immodificabili. Betlemme non ha permesso la delazione e soprattutto non ha permesso la beffa. Ha superato le difficoltà con l’indispensabile semplicità del bene. Bologna non ha una rete di strutture che risponde alle esigenze di una prima accoglienza in grado di dare risposte, umane e possibili a persone orbitano le sue periferie per emergenze e necessità e che chiedono protezione e rifugio per sopravvivere. Una città che si dichiara moderna e giusta, crocevia di strade e autostrade, che si fregia di una stazione ferroviaria di alta velocità e di un ingrandito aeroporto internazionale, che la collegano con il resto del paese e del mondo, ma che non sa protegge le donne e gli uomini che vi confluiscono, cittadini del mondo. L’attuale amministrazione non solo non ha nelle sue priorità, un obbiettivo di questa portata, ma agisce verso gli accampati migranti, profughi e rom con le logiche degli sgomberi e dell’assistenzialismo. Bologna non ha un progetto. Cerca di fare ordine incrementando il male. Gli sgomberi, violenti e repressivi, e la silente nonché intenzionale indifferenza incardinano il male, contaminando i rapporti politici e sociali, fra chi chiede e richiede rifugio e chi è in grado di rispondere. Da una parte si sforza di mostrare l’oggettiva impossibilità di intervenire e dall’altra cerca di ridurre quel poco ma possibile agire solidale, annientandolo nella beffa. L’intervento pubblico diventa così “passeggiate rom-antiche”, narcisismo etnocentrico e auto commiserazione “quanti ne dobbiamo accogliere”. Diventa assunzione di esperti strapagati per risolvere o quanto meno indirizzare la soluzione di certi problemi, a cui vengono però pagati anche i corsi di formazione per comprendere ciò che essi dovrebbero spiegare, salvo poi scoprire, che gli stessi hanno bisogno di formazione si procede pagandoli pure i costi dei master… Diventa scuola di città, dove il povero è povero per cause proprie e dove si impara a vincere per bande. Il modello di Bologna diventa – e in tutti gli effetti lo è – il modello Casal di Principe, dove vince la scaltrezza di trasformare la carità in spettacolo nascondendo abilmente le violenze agite e naturalizzate. Lo sforzo politico, di analisi e di intervento, verso la sua periferia imbaraccata non vanno oltre l’estetica perversa della pulizia etnica o
della casalinga isterica che cerca i detersivi adatti per smacchiare i panni. Le difficoltà di inserimento e di integrazione delle migrazioni e della profunganza diventano ingiurie, lontananza, retorica securitarista e incapacità di usare le mediazioni, i patti, i dialoghi.Diventano voti puliti e soprattutto diventano apprendimenti per imparare l’offesa. Bologna non ha ancora cercato di uscire da un sistema di “aree sosta” per nomadi, sistema segregativo di apartheid, che riduce in povertà economica e relazionale le famiglie dei rom-sinti che vi vivono da più di quaranta anni. Famiglie stabilizzate che “giocano il nomadismo” dei
gaggi. “Nomadi” poiché vivono nel campo “nomadi”. “Nomadi”, sfiniti, violenti, miserabili, ricoverati in strutture fatiscenti o modernamente inconsuete, deformi, banali e brutti. Dove con “coraggio” e senza vergogna l’amministrazione arriva ad attivare l’operatività sociale degli educatori (sic) per chiedere ai “nomadi” loro se vogliono essere integrati. Tutti e tre i campi “nomadi” della città stanno implodendo in una vita impossibile di sventure miseramente disumane. Risulta più
paradigmatico il campo “nomadi di via erbosa” provvisorio dall’anno 1990 istituito nel 1990 dopo gli attacchi mortali della Banda della “uno bianca”, ancora oggi provvisorio. Bologna beffa il diritto e i diritti. La Legge Regionale 47/1988 che disciplina la presenza e flussi nomadi in Emilia Romagna, non può ne spiegare ne indirizzare le amministrazioni nella gestione complessa di una presenza polimorfa come quella dei rom. Non si può far finta di continuare di usare una legge che non ha corrispondenze con la realtà. Ed è grottesco insistere a non volere verificare le conseguenze di
questa legge dopo 25 anni di “corretta applicazione”. Soprattutto diventa beffa e razzismo voler spiegare il deterioramento delle struttura dei campi con la natura selvaggia dei “nomadi” che, forse, rompono quello che gli è estraneo e che perversamente altri hanno deciso e voluto per loro. La presenza dei rom nella città non è provvisoria, cioè nomadica ma è strutturale. Costantemente dai primi anni novanta si sono stabiliti più di 6.000 mila rom provenienti dai Balcani (Yugoslavia, Romania e Bulgaria) Si trovano qui per cercare lavoro e per cercare asilo. Cercano e trovano casa, servizi, scuola e cercano di poter vivere riscattando la propria povertà. Cercano nelle
loro migrazione e/o profuganza stabilità e mobilità sociale. E ci riescono. Non sono naufraghi, hanno un progetto e riescono pure a realizzarlo. I rom non sono “nomadi” come non sono “famiglie senza fissa dimora” come non sono “famiglie senza territorio”. Continuare a esibirsi inventando termini politicamente (s) corretti fa parte della beffa che insiste nella noia, nella pesante noia dei presunti intellettuali affaticati a
nascondere i razzismi delle “avanguardie” e la violenza dell’esclusione in quella loro corsa a fotografarsi e a sperare qualsiasi cosa per rimanere nella storia. Paradossalmente incontrano il consenso di quelli che cercano di andare in paradiso e le loro amicizie, fantasmagoriche, vorrebbero diventare La Corte di Bologna. La presenza rom a Bologna come in Europa non è necessariamente subordinata ai servizi sociali o ai nazionalismi: nel contesto locale e internazionale, essa è una presenza generatrice di inter e transculturalità, di interessanti e singolari forme sociali e politiche di convivenza. Sarebbe utile tornare a conversare sui e nei campi “nomadi”, sui percorsi di emergenza, di integrazione e di azione pubblica, istituzionale e sociale. Sarebbe sensato ritornare a conversare con i rom per mettere insieme sguardi ed espressività, influenzati da modi e mondi diversi. Ritornare a conversare è dare senso ai silenzi. Conversare è intrecciare umanità, è intesa. Conversare rende la solitudine più passionale e le restituisce unicità in quella moltitudine che resiste all’omologazione e che desidera essere letta, accolta. Conversare è fare comunità. Bologna negli anni, come ora, ha distrutto tutte le sue strutture di prima accoglienza. Ha messo appunto un sistema di sgomberi che non ha funzionato, ha solidificato un sistema di apartheid per “nomadi” rivolto ai rom sinti e non riesce a spiegare e a spiegarsi. Questo è il vero e proprio male: Bologna ha perso la parola, balbetta e si rifugia nel suo narcisismo, nelle sue beffe, pensa all' assoluzione piuttosto che alle responsabilità. Bologna ha perso la sua dignità (Dimitris Argiropoulos, il Manifesto, 4 gennaio 2014)
domenica 1 dicembre 2013
Rosa Parks e le altre
Ripropongo un articolo scritto il primo dicembre di cinque anni fa, Un'altra Rosa Parks, perché mi sembra possa offrire ancora validi spunti di riflessioni. Del resto ora non avrei il tempo di scrivere qualcosa ex-novo ma mi sembra doveroso ricordare in questa data simbolo Rosa Parks, Claudette Colvin, Mary Louise Smith e le altre militanti afro-americane per i diritti civili attive negli anni cinquanta nel Montgomery Bus Boycott // In
molt*, quando qualche mese fa una ragazzina italiana di origini
marocchine è stata picchiata selvaggiamente da un gruppo di coetanei/e per non aver ceduto il post in autobus, abbiamo pensato (scrivevo "forse non inutilmente")
a Rosa Parks, un'icona della lotta per i diritti civili. Eppure ancor
oggi il gesto di "disobbedienza" di questa donna ci è consegnato dalla
storia come un atto "eroico", ma individuale e quasi spontaneo messo in
atto da una modesta sartina afro-americana che, un bel giorno (era il
primo dicembre del 1955), rientrando stanca dal lavoro, rifiuta di
alzarsi da un posto riservato ai/alle "bianchi/e" su un autobus della
razzista e segregazionista cittadina di Montgomery, in Alabama,
scatenando con il suo arresto il famoso Montgomery Bus Boycott. Ma
il "rifiuto" di Rosa Parks non nasce dal "nulla". Le lotte
antisegregazioniste avevano già una lunga storia: già l'anno prima, ad
esempio, la Corte Suprema aveva dovuto dichiarare non costituzionale la
segregazione scolastica (che di recente ha ispirato la proposta della
Lega Nord di "classi separate" in Italia). La stessa Rosa Parks era del resto attiva, dal 1943, nel movimento per i diritti civili: segretaria della sezione di Montgomery della National Association for the Advancement of Colored People (NAACP, fondata nel 1909) era assidua frequentatrice della Highlander Folk School,
un centro educativo per i diritti dei lavoratori e per l'uguaglianza
razziale. Del resto, quel giorno del 1955, furono arrestate con lei
altre due attiviste afroamericane, Claudette Colvin e Mary Louise Smith,
che già in precedenza erano state tratte in arresto e multate per
essersi rifiutate di cedere i posti "per bianchi". La sera stessa
dell'arresto, inoltre, fu un'altra donna (bella figura di
intellettuale/militante come oggi non esistono quasi più), Jo Ann
Robinson - docente universitaria e attivista della Women's Political Council,
un'organizzazione di donne afro-americane -, a scrivere, fotocopiare e
distribuire con altre militanti della WPC un volantino che invitava a un
giorno di boicottaggio dei mezzi pubblici . Iniziato qualche
giorno dopo l'arresto di Parks, Colvin e Smith, il boicottaggio si
estese coinvolgendo anche altre organizzazioni come il Civil Rights Movement (guidato da un allora ancora pressoché sconosciuto Martin Luther King):
in migliaia nei mesi successivi (precisamente per 381 giorni) non
salirono sugli autobus, e poiché quasi i 3/4 degli utenti degli autobus
di Montgomery erano "negroes", il boicottaggio causò anche un danno economico notevole. In seguito al protrarsi e al diffondersi della protesta, nel 1956 il caso approdò alla Corte Suprema degli Stati uniti che decretò incostituzionale la segregazione sui mezzi pubblici. Seppure
lontana nel tempo questa storia (raccontata in questa maniera) mi
sembra ancora utile e ricca di spunti per quant* intendono opporsi
(attivamente) a razzismo, sessismo e fascismo , in un contesto come quello odierno caratterizzato (qui e altrove) dal moltiplicarsi di aggressioni fasciste contro militanti, migranti e soggetti "fuori della norma", esacerbato e violento sessismo,
strapotere degli apparati polizieschi e repressivi (per i quali anche
aver protestato contro il summit di Vicky sull'immigrazione diventa
prova a carico per l'accusa di "terrorismo"). E allora se le cose non nascono dal nulla, se il gesto individuale fuori
da un contesto di lotta non basta e soprattutto se un blog è, e resta,
un blog (ma se sono - anche - qui a scrivere penso possa servire a
qualcosa finché potrò ancora farlo) ... ATTIVIAMOCI
lunedì 30 settembre 2013
Ain't Got No, I Got Life
A chi condivide con me vite faticose ma piene di forza: via youtube, Ain't Got No, I Got Life di Nina Simone da Nuff Said! registrato quasi interamente durante un concerto al Westbury Music Fair di NY il 7 aprile 1968, tre giorni dopo l'assassinio del suo grande amico e leader dell’African-American Civil Rights Movement, Martin Luther King // Qui il testo
domenica 11 agosto 2013
martedì 23 luglio 2013
Troppo cool per farlo
Grazie a Sara (Farris) che mi invia questa bella e intensa immagine di Jeanne Moreau con sigaretta in bocca e mi chiede se sto cercando di smettere o di convincermi che è troppo cool per farlo ... In effetti penso che questa sia una maniera per "elaborare il lutto" e/o resistere alla tentazione ... Nel post dedicato a Liz Taylor, tutte le sigarette (non) fumate in questi ultimi mesi ...
venerdì 7 giugno 2013
Italiani brava gente / Adrian Cosmin
Chi si ricorda ancora di Adrian Cosmin, migrante rumeno, che il 7 giugno di qualche anno fa i suoi datori di lavoro (una coppia di "italiani brava gente") narcotizzarono, cosparsero di benzina e poi lasciarono morire carbonizzato, per incassarne la polizza sulla vita?
mercoledì 5 giugno 2013
Veli e trasgressioni
Dopo Vicky Lane, Nina Simone e Marilyn Monroe la scelta di questa immagine (via PlanetBarberella), ha qualcosa di inquietante ...
lunedì 3 giugno 2013
La Calabria e la provincia afghana
Ovviamente anche la storia della quindicenne pugnalata e poi bruciata viva dal "fidanzato" la scorsa settimana ha seguito i tempi classici del "fare informazione" e alla sovraesposizione mediatica dei primi giorni - in quel coacervo ributtante di vuoyerismo, sessismo e razzismo di cui ha parlato anche Sonia Sabelli - è seguito il silenzio della stampa mainstream e non. Semplicemente questa morte non fa più "notizia" e finirà presto nel dimenticatoio insieme a tutti quegli articoli che hanno contribuito alla costruzione e (ri) produzione di un discorso pubblico/mediatico inficiato da stereotipi e pregiudizi violentemente razzisti/sessisti quali la presunta "specificità calabrese" dell'omicidio. Tra questi articoli mi sembra che valga la pena ricordare, a futura memoria, quello pubblicato su Donne di fatto, la pagina "rosa" de Il Fatto Quotidiano, dal titolo Calabria, la donna non vale nulla. L'autore - che utilizza una formula retorica consolidata, ovvero quella di dichiarare il suo "essere calabrese" come prova dell'autenticità/verità di quanto afferma - si lancia in una sorta di indagine sociologica/antropologica sulla "condizione delle donne calabresi". Dopo un fiume di commenti che contestano quanto scrive, il giornalista pubblica qualche giorno dopo un altro articolo per spiegare e giustificare, punto per punto, quanto scritto in precedenza, ma le sue spiegazioni e giustificazioni non fanno che confermare la fitta ragnatela di immaginari razzisti e sessisti in cui l'autore si dibatte
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