Dopo le recensioni a Non si nasce donna (Alegre, 2013) di Silvia Nugara per Iaph Italia e Alessandra Pigliaru per Il Manifesto, ripubblichiamo ora la recensione di Paola Guazzo (che ringraziamo infinitamente) comparsa qualche giorno fa sul suo Guazzington Post. Buona lettura! // Finalmente esce un libro di sintesi su un fenomeno consistente e relativamente poco conosciuto in Italia: il femminismo materialista francese, che va alle radici del celebre assunto di De Beauvoir ( “non si nasce donna”) per dirci che “la donnità è una costruzione storica e sociale” (p.6), mettendo in questione “le evidenze, questa forma sacralizzata dell'ideologia” (p.8).
Elaboratosi a partire dalla creazione della rivista “Qf” (“Questions Féministes”) nel 1977, il femminismo materialista francese è innanzitutto un potente strumento di indagine e messa in questione di un ordine sociale che “naturalizza” le proprie gerarchie di potere; sesso, razza e sessualità vengono considerate fatti naturali, non fatti sociali, e pertanto fissate in “evidenze” immutabili. Per contro: “Lo studiare i modi con cui i rapporti sociali diventano talmente solidi da sembrare naturali permette di iscriverli nella storia, aprendo, in tal modo, uno spazio di possibilità perché le cose possano essere altrimenti” (p.9).
Il femminismo materialista francese è stato poco seguito, o comunque sottovalutato nella sua portata euristica, in Italia. Sono pochi i testi tradotti e conosciuti nel nostro paese, dove si è passate direttamente da un femminismo della “differenza”, ispirato da Luce Irigaray – ed anche, in una prima fase, da assidui scambi con il gruppo francese di “Psyc et Po”, con il quale le femministe di Qf furono in polemica implicita ed esplicita - ad una queer theory incarnata dal costruzionismo (lacaniano) di Judith Butler e dal costruzionismo (freudiano) di Teresa de Lauretis. Un trionfo psicoanalitico, sia nella versione essenzialista che in quella costruzionista. Gli scritti delle teoriche francesi presentate dal libro di Garbagnoli e Perilli, per contro, sono quasi tutti svolti nell'ambito di ricerche antropologiche, accademiche e non (penso all'eccezione-Wittig, che è scrittrice, lavora sul linguaggio, è una sorta di “battitrice libera”, come sarà poi Michèle Causse; due lesbiche dichiarate, sia detto non en passant). Un'analisi comparata dei concetti antropologici e psicoanalitici di “cultura” utilizzati nei feminist studies di varie tendenze sarebbe utile? Lascio la questione aperta.
Non si nasce donna presenta in apertura il denso saggio di Paola Di Cori, French Feminism: tra Christine Delphy e Gayatri Spivak, Appunti, che chiarisce fra l'altro alcuni aspetti della diffusione del pensiero della Holy Trinity (Irigaray, Cixous, Kristeva) negli Stati Uniti fra anni 70 e 80, demistificandone la portata alternativa e anche femminista. Vengono poi presentate opere e teoria del femminismo materialista francese, seguendone le incarnazioni soggettive e presentando per ognuna un significativo essay. Christine Delphy, Colette Guillaumin, Nicole-Claude Mathieu, Paola Tabet e Monique Wittig sono sapientemente introdotte, da studiose-militanti ad esse vicine, nella loro portata epistemologica ed anche “umana” ( e qui il termine universalistico-maschile andrebbe ovviamente sostituito, in un linguaggio che non c'è ancora e che Wittig ha cercato di inventare). Non è stato insignificante, per me, questo stile di Non si nasce donna, che dice (anche) dell'ironia di Nicole-Claude Mathieu e del post-sessantotto, fra viaggi e tentativo di vita in una comune, di Paola Tabet, per citare solo le prime due tranches de vie che mi vengono in mente. Non si nasce donna è un'esperienza forte e liberatoria, come può esserlo solo l'analisi materialistica di un'oppressione che giace, profondamente radicata e difficile da estirpare, nella stessa definizione di “donna”, nonché in linguaggi, forme di vita, poteri e strutture economiche ad essa connessi. Mi ricollego, infine, alle parole delle curatrici: “ Il volume aspira ad essere uno strumento di introduzione ad un approccio che, iscrivendo nell'immanenza della politica ciò che l'ordine sociale produce come “natura”, ha contribuito a creare i germi di una vera e propria rivoluzione cognitiva, ovvero politica” (p.11)
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venerdì 25 ottobre 2013
Non si nasce donna / Una recensione di Paola Guazzo
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mercoledì 25 settembre 2013
Judith Butler / Coabitazione? Solo quando finirà il dominio coloniale
Con un’intervista a Judith Butler (già pubblicata in italiano su L'Indice, maggio 2013), si apre una nuova rubrica del sito del Cirsde, Dialogues/Dialoguen/Diálogos/Dialoghi, che ospiterà interviste e dialoghi rilevanti per la storia e la teoria del genere. I dialoghi saranno presentati in varie lingue, rispettandone l’espressione originaria, con l’intento di continuare ed estendere la pratica multiculturale e multilinguistica del Cirsde. L’intervista a Judith Butler è il frutto della collaborazione di Anna Chiarloni e Luisa Passerini. Judith Butler, dalle sue prime riflessioni sulla filosofia hegeliana attraverso le sue analisi sul femminismo, il movimento e il pensiero queer e la sessualità, ha contribuito in modo determinante a costituire una teoria politica del genere e a mantenerne aperta la problematicità. L’intervista si riferisce alla recente polemica seguita alla attribuzione a Butler del premio Adorno. Per consultare la rubrica clicca sul seguente link: http://www.cirsde.unito.it/PUBBLICAZI/Dialoghi/default.aspx
sabato 29 giugno 2013
Berlino Transgenial
La nostra carissima Liliana (Ellena) ci invia da Berlino qualche foto del Transgenial Christopher Street Day, la manifestazione berlinese alternativa al Pride, e ne pubblico una che mi sembra significativa delle tensioni che l'attraversano. Anche quest'anno infatti la Transgenial è stata partecipatissima ma ancora fortemente spaccata sulla questione del razzismo. Già nel giugno 2010 infatti, quando Judith Butler aveva rifiutato il Zivilcourage Prize assegnatole dal Pride di Berlino per affermare platealmente la necessità di "prendere le distanze dalla complicità con il razzismo", gli/le attivisti/e di Suspect avevano definito la Transgenial Christopher Street Day - in un comunicato pubblicato su No homonationalism -, "Pride alternativo a predominanza bianca" rilevando come questa fosse stata l'unico spazio critico citato dalla stampa che aveva dato risalto alla semplice critica della commercializzazione del Pride piuttosto che a quella del razzismo, nonostante le parole di Butler fossero state molto chiare nell'indicare come fosse questo il tema da mettere urgentemente in primo piano nell'agenda politica anche nel movimento lgbtq.
giovedì 13 giugno 2013
No al ritorno della dittatura in Grecia
Una lettera-appello firmata - tra le/gli altre/i - da Étienne Balibar, Wendy Brown, Judith Butler, Sara R. Farris, Éric Fassin, Sandro Mezzadra, Beatriz Preciado, Joan W. Scott, sulla situazione in Grecia che rischia di precipitare verso una nuova dittatura: su Libération il testo (in francese), Non au retour de la dictature en Grèce
lunedì 3 giugno 2013
Judith Butler / Questione di genere
In occasione dell'uscita della nuova edizione italiana di Gender Trouble di Judith Butler (Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, traduzione e cura di Sergia Adamo, Laterza 2013), sul sito Le parole e le cose è stata pubblicata una lunga conversazione inedita - che ha avuto luogo nel 2006 alla Cornell University - tra la traduttrice/curatrice del volume e la stessa Butler che illustra e discute alcuni dei temi fondamentali della sua opera: Genere, identità, violenza. Una conversazione con Judith Butler
sabato 13 aprile 2013
Edward Said Memoriali Conference
Vi segnaliamo la conferenza internazionale dedicata a Edward, che si terrà lunedì 15 aprile a Utrecht con un ricchissimo programma, fitto di interventi di ospiti prestigiose/i per quanto riguarda l'ambito degli studi di genere e postcoloniali, da Lila Abu-Lughod a Judith Butler, da Gayatri Spivak a Jamila M.H Mascat! Assolutamente da non perdere per chi può ...
lunedì 25 marzo 2013
Quaderni Viola : Non si nasce donna
Non si nasce donna è il quinto volume della nuova serie della collana dei Quaderni Viola appena pubblicato dalla casa editrice Alegre e di cui la rivista online inGenere aveva anticipato un estratto qualche settimana fa. A cura di Sara Garbagnoli e Vincenza Perilli e con contributi di Christine Delphy, Maria Gabriella Da Re, Paola Di Cori, Sara R. Farris, Sara Garbagnoli, Colette Guillaumin, Nicole-Claude Mathieu, Vincenza Perilli, Redazione Quaderni Viola, Valeria Ribeiro Corossacz, Joan W. Scott, Renate Siebert, Paola Tabet e Monique Wittig, il volume è suddiviso in cinque sezioni, ognuna dedicata alle figure maggiori del femminismo materialista francese (Delphy, Guillaumin, Mathieu, Tabet e Wittig) e, come si legge nel saggio introduttivo (S. Garbagnoli e V. Perilli, Non si nasce (donna). La denaturalizzazione come “questione femminista”, pp. 8-11) , presenta "la traduzione di articoli inediti in Italia, preceduti da brevi introduzioni che mettono in luce gli elementi di rottura rappresentati da tali scritti al momento della loro pubblicazione, ma anche la loro attualità e, in filigrana, la possibilità di incontro (a volte mancato) con altre posizioni antinaturaliste – da Judith Butler a Gayatri Spivak [...]. Ben lungi dal riuscire a restituire lo spessore, la varietà e la complessità del pensiero delle femministe materialiste, dal poter indagare le condizioni sociali della sua emergenza o gli spazi intellettuali della sua discussione e ricezione, l'intento di questo volume è piuttosto quello di aprire uno spazio di discussione attraverso la traduzione di testi che affrontano le principali questioni sollevate da tale corrente teorica (denaturalizzazione del sesso, statuto delle soggettività minoritarie, studio dei processi di alterizzazione) e che ci paiono cruciali per chiunque intenda comprendere e contrastare le diverse forme di dominazione subite dai gruppi assoggettati. In tal senso, il volume aspira ad essere uno strumento di introduzione ad un approccio che, iscrivendo nell'immanenza della politica ciò che l'ordine sociale produce come natura, ha contribuito a creare i germi di una vera e propria rivoluzione cognitiva, ovvero politica". Per l'indice del volume e info su come acquistare il volume rinviamo al sito dell'editore. Buona lettura!
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domenica 17 marzo 2013
Comment S'en Sortir ? / Rivista internazionale di filosofia femminista e teoria queer
È con vera gioia che annuncio la nascita di Comment S'en Sortir?, una rivista internazionale di filosofia femminista e teoria queer di cui sono molto felice di essere stata invitata a far parte del comitato di lettura. Di seguito la presentazione della rivista - che sono certa aprirà un nuovo spazio di discussione sui saperi disciplinari e indisciplinati - a cura della redazione di CSS (in italiano, francese, inglese e spagnolo). Buona lettura! // Abbiamo il piacere di annunciarvi il lancio della rivista Comment S'en Sortir ? (CSS). CSS è una rivista internazionale di filosofia femminista e teoria queer avente sede in Francia. Oltre al comitato di redazione, essa è composta da un comitato di lettura, incaricato della valutazione anonima dei contributi, e da un comitato scientifico. La rivista ha l’ambizione di sviluppare una doppia prospettiva femminista e queer sui e nei campi – disciplinari e indisciplinati – della filosofia, della teoria politica e degli studi di genere, così come degli studi marxisti, studi gay, lesbici e trans, studi postcoloniali e culturali. CSS pubblicherà, in versione multilingua, due numeri tematici all’anno. Il numero inaugurale – “Dal lato oscuro” – è previsto per l’autunno 2013 ed è oggetto di un call for abstracts disponibile sul sito. Troverete una presentazione più dettagliata della rivista sul nostro sito // Le comité de rédaction de la revue Comment S’en Sortir ? (CSS) a le plaisir de vous informer du lancement de cette nouvelle revue. CSS est une revue internationale de philosophie féministe et de théorie queer basée en France. Elle est composée d’un comité de lecture qui évaluera les contributions à l'aveugle et d'un comité scientifique. La revue a pour ambition de développer une double perspective féministe et queer sur et dans les champs – disciplinaires ou indisciplinés – de la philosophie, de la théorie politique et des études de genre, mais aussi des études marxistes, des études gaies, lesbiennes et trans, comme des études postcoloniales et culturelles. CSS publiera, en version multilingue, deux numéros thématiques par an. Le numéro inaugural - "Du côté obscur" - est prévu pour l'automne 2013 et fait l’objet d’un appel à propositions d’articles disponible sur le site dans la rubrique CfP. Vous trouverez une présentation plus détaillée de la revue sur notre site internet // It is with great pleasure that we announce you the launching of the journal Comment S'en Sortir ? (CSS). CSS is an international-oriented French peer-reviewed scientific journal. The journal is managed by an Editorial Board, a Review Board in charge of blind peer-reviews, and an international Scientific Committee. It aims to generate a perspective both feminist and queer on and within Philosophy, Political Theory and Gender Studies, as well as Marxist Studies, Gay, Lesbian and Trans Studies, Postcolonial and Cultural Studies. The journal is published in several languages two times a year. The inaugural issue of CSS - "From The Dark Side" - is set for Autumn 2013. You can find the Call for Abstracts on the website under the CfP section. For further information about the journal, please visit our website //Tenemos el placer de anunciarles el lanzamiento de la revista “Comment s’en sortir ?” (CSS) . CSS es una revista internacional de filosofía y teoría queer afincada en Francia. Además del comité de redacción, esta compuesta por un comité de lectura que evaluara las contribuciones a ciegas y de un comité científico. La revista tiene como ambición desarrollar una doble perspectiva feminista y queer sobre y dentro de los campos – disciplinarios e indisciplinados – de la filosofía, de la teoría política y de los estudios de género, así como de los estudios marxistas, estudios gays, lesbianas y trans, o estudios postcoloniales y culturales. CSS publicara, en versión multilingüe, dos números temáticos al año. El numero inaugural – "Del lado oscuro" – esta previsto para el otoño 2013 y es objeto de una presentación de propuestas disponible en la pagina internet de la revista, en el apartado “CfP”. Encontraran una presentación más detallada de la revista en nuestra pagina internet
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lunedì 25 febbraio 2013
Judith Butler / Happy Birthday!
Con imperdonabile ritardo Marginalia augura buon compleanno a Judith Butler // L'immagine è la copertina di una delle riviste dedicata all'autrice di Gender Trouble, presentate l'estate scorsa al Queer Between the Covers, la fiera del libro queer di Montreal.
lunedì 11 febbraio 2013
Antigone a Tunisi
Una polemica durissima ha contrapposto in questi giorni il Ministero degli Affari religiosi tunisino e Hamma Hammami, leader del Fronte popolare di cui Chokri Belaïd - assassinato la scorsa settimana a Tunisi - era uno dei leader. La polemica è divampata in seguito alla partecipazione ai funerali di Belaïd di alcune donne (la consistenza di questa partecipazione non è chiara: la maggioranza delle fonti parlano solo della sorella, della moglie e delle figlie di Belaïd, altre di un numero di donne più corposo, non esclusivamente appartenenti alla ristretta cerchia familiare dell'ucciso). In una nota - nella quale si stigmatizzavano gli incidenti avvenuti nel corso del funerale - il Ministero degli Affari religiosi ha infatti affermato che questa presenza femminile avrebbe di fatto violato i precetti islamici, visto che il Corano vieta espressamente la partecipazione di donne al rito dell’inumazione del cadavere. Dura la replica di Hamma Hammami: “Una figlia ha assistito ai funerali del padre, una sorella ha partecipato ai funerali del fratello. Signor ministro, è stato più sconvolgente vedere delle donne al cimitero che non il fatto che è stato assassinato un essere umano, gli scontri al cimitero o le minacce di profanare il cadavere? Noi non abbiamo sentito la voce del signor Ministro quando più di 40 mausolei, contenenti degli esemplari del Corano, sono stati incendiati. Non abbiamo sentito la sua voce quando le tombe dei Santi sono state profanate e i loro cadaveri esumati. E noi non l’abbiamo sentita quando gli imam minacciavano di uccidere Chokri Belaïd e Amed Néjib Chebbi”. Mentre leggo la notizia non posso fare a meno - anche se il collegamento può risultare insieme scontato e abusivo - di pensare ad Antigone, figura complessa il cui mistero continua ad essere "una sfida per il pensiero" come scrive Francesca Brezzi. Penso in particolare alla lettura della tragedia di Antigone fatta da Judith Butler nel suo Antigone’s Claim (La rivendicazione di Antigone). Una lettura che si allontana decisamente da quella di Irigaray (forse più nota, perlomeno in Italia) che è ancora per certi versi in continuità con l'interpretazione hegeliana laddove legge, come sottolinea Butler, il potere insurrezionale di Antigone come "il potere di colei che rimane fuori dalla politica". Le "Antigoni" tunisine mi sembrano invece, con il loro gesto, molto più vicine alla "rivendicazione" butleriana, poiché contestano e mettono in crisi, dal di dentro, le forme del potere, lanciano una sfida che lascia intravedere nuove possibili configurazioni politiche in questa difficile e drammatica fase di transizione
sabato 19 gennaio 2013
Femministe a parole / Una recensione di Cristina Morini
Sul sito di Uninomade è stata pubblicata ieri, con il titolo di Parola di donne, una recensione di Cristina Morini - che ringraziamo per i tanti spunti di riflessione - al nostro volume Femministe a parole. Grovigli da districare. La ripubblichiamo anche qui sperando possa contribuire al dibattito in corso. Buona lettura! // Le parole per dirlo di Marie Cardinal, cioè il coraggio di ammettere finalmente la nevrosi femminile generata dalla solitudine e dall’ipocrisia di un interno borghese, sono diventate, nel 2002, Le parole per farlo in un libro curato da Adriana Nannicini, espressione del lavoro femminilizzato e relazionale che si dispiega all’esterno, sfruttando sopra ogni cosa proprio il linguaggio e dichiarando la generalizzazione della precarietà. Il rapporto delle donne con la “parola” e la “realtà”, entrambe plasmate dal potere maschile, è questione spinosa per non dire chiaramente di un’antinomia che il femminismo degli esordi denuncia ricorrendo alla pratica dell’autocoscienza come sblocco politico possibile: la parola scritta e il suo “valore mitico” oppure la scoperta di sé e il confronto con le altre, l’esperienza o la “cultura”? Il femminismo ha mantenuto sempre, anche in ambito teorico, una particolare attenzione al linguaggio – inteso come luogo che produce le cose che nomina – ma la domanda risulta particolarmente interessante in tempi di general intellect, nel meccanismo algoritmico della produzione e della diffusione della conoscenza attraverso i processi di cooperazione inseparabili dalla soggettività, nel disfarsi dei collegamenti immediati tra composizione tecnica e composizione politica connessi alla precarizzazione che fuorvia anche il concetto di classe, laddove entrano in crisi i dispositivi di divisione del lavoro e di divisione sessuale del lavoro. Un processo che potrebbe aprire prospettive inedite, ampiamente ricompositrici, pur all’interno della frammentazione non casualmente imposta dalla precarietà, riassumendo la potenza della soggettività in quell’“unica materia del mondo” evocata da Daniela Pellegrini (Una donna di troppo. Storia di una vita politica singolare, Franco Angeli, 2012). Infatti, nel saldarsi delle categorie di produzione e riproduzione, la soggettività attuale potenzialmente saprebbe, in modo inedito, autonomizzarsi dal potere, forse con ciò liberandosi, tra le altre cose, anche della storica dicotomia tra espressione di sé e “cultura” del cui amaro contrassegno patriarcale è stato consapevole il femminismo più stimolante e radicale. Così, la prima cosa che immediatamente attrae in un libro che s’intitola Femministe a parole. Grovigli da districare (Ediesse, 2012, pag. 363) è lo spingersi ad affermare adesso, rivendicando l’atto in modo il più possibile ampio e imponente, la forza della parola e del sapere delle donne nel mondo benché sempre al di fuori di ogni lusinga mainstream (tradotto: bianca, moderata, rigorosamente eterosessuale). Una parola che non sia ideologica, ovvero corrotta dalle tentazioni di un potere che finisce solo per rassicurare e confermare il potere stesso, ma che ricostruisca, voce dopo voce, la risonanza della produzione di pensiero delle donne, pensiero sovversivo rispetto ai dispositivi normanti e di comando sulla vita. Una parola che metta in crisi, definitivamente, ogni dominio annichilente perché è incompatibile con esso, e contemporaneamente non pretenda di dare risposte definitive. Una parola che non si dichiari salvifica, poiché non intende proteggere alcuno indicando la strada del futuro tra le macerie, ma che si proponga di disfare l’impianto esistente, tirando il colpo necessario con tutta la necessaria energia. Un lessico, dunque, un dizionario ragionato di parole femministe per tutte e per tutti, di cui tutte e tutti avevamo bisogno. Nell’introduzione, le curatrici, Sabrina Marchetti, Jamila M. H. Mascat e Vincenza Perilli, scrivono: “L’ironia sottesa al titolo del volume è un’ironia che rivendica e sottolinea la nostra esigenza, in quanto femministe, di fare i conti con le parole che usiamo e come le usiamo e con quelle che non usiamo e perché lo facciamo. La lezione che il femminismo insegna, infatti, è che il linguaggio non è affatto neutro ma riflette rapporti di dominazione che le parole, a loro volta, possono contribuire a riprodurre e a consolidare” (pag. 13). Il richiamo della prefazione a come i “soggetti assoggettati” abbiano costantemente sentito il bisogno di “condurre battaglie contro e dentro il linguaggio, rimuovendo alcune parole o inventandone di nuove” (pag.14), ha fatto scattare un’assonanza: “lo spazio della donna sarebbe tra questi due poli: tra il silenzio (la mancanza di simbolo) e la parola paterna, la Legge e il Valore” (Carla Lonzi, 1977). La contraddizione si risolse a quei tempi ponendosi al di fuori di ogni parlare che fosse interno a una formulazione maschile, rifiutando un riconoscimento pagato al prezzo di costruirsi sull’immagine voluta dall’uomo. Oggi, ricordando con bell hoock come la lingua sia anche “un luogo di lotta”, le 44 autrici che hanno affrontato i lemmi proposti nel testo hanno voluto mettere in risalto l’aggrovigliamento del tema trattato “con la consapevolezza che se la stanza tutta per se forse è diventata una certezza appena se ne esce fuori per le femministe cominciano i rompicapi” (pag. 12). Tuttavia gli oppressi lottano anche con la lingua per riprendere possesso di se stessi, per riconoscersi, per riunirsi, per ricominciare. E cioè, “le nostre parole significano, sono azione, resistenza”. Scrittura antagonistica, non asservita, una forma di esercizio del conflitto di cui, tra l’altro, non tutti comprendono e riconoscono la sofferenza e la fatica.
Ma c’è di più. Osserviamo bene i dispositivi attuali di esclusione dalla polis: essi sono senz’altro spietati nei confronti delle/degli “stranieri”, migranti “illegali” che forzano i muri delle fortezze occidentali ma sono viceversa, sempre più spesso, diventati sistemi di inclusione forzata/cercata per le donne native. A quarant’anni dalla rivoluzione femminista, non possiamo più tratteggiare un conflitto lineare fra “le” donne e lo spazio pubblico: non abbiamo affatto di fronte solo un’uniforme voglia di estraneità, non oppressioni né tanto meno diseguaglianze omogenee ma ancora più ampie varietà e stratificazioni che in passato. Ci confrontiamo con un nuovo desiderio di assimilazione e con un sconosciuto bisogno delle donne di essere viste, proprio dentro i luoghi istituzionali. Non c’entra direttamente con il libro e non è scopo di queste note entrare nello specifico di una bagarre sulle delizie e le miserie della rappresentanza femminile sulla quale molte opinioni verranno spese da qui alla attesa elezione di un 40% di parlamentari donne: questa discussione è stata già fatta e non riesce ad appassionarmi veramente (si vedano su questo sito gli articoli “Femminismo prêt à porter” e “Se il femminismo è un brand”). Certo, essa fa parte di insolite complicanze e di sconosciute torsioni, di conformismi e “chiamate” ieri impensabili (l’immagine e la figura della velina, per esempio, trattate nel libro da Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi). Mentre si scaricano vecchie zavorre (“Famiglie. Affettività non tradizionali”, lemma di Gaia Giuliani), si manifesta una neonata ma robusta tensione di una parte delle donne verso nuovi incarichi formalizzati e stabiliti dallo stato e dalle sue deformi strutture, nel bel mezzo della crisi più estrema della politica contemporanea tradizionale e proprio mentre parti dei movimenti europei si confrontano con la necessità di aprire processi costituenti. Un gesto, piaccia o meno, con il quale bisognerà fare i conti, qualcosa ci ha già detto, qualcosa ci dirà. Forse ennesimo accoglimento del ruolo tutelare del femminile, che tanta parte ha avuto nelle nostre culture: capaci, già nei miti antichi, di dissipare le tenebre e il male, riusciranno oggi le donne nel prodigio di vitalizzare la moribonda politica italiana? Forse, più prosaicamente, solo specchio inclemente delle nostre precarietà a cui non sappiamo trovare soluzioni: l’assenza di una radicale trasformazione sociale ci mette sempre più gravemente di fronte al problema del denaro e del tempo – e non è certo la prima volta che accade. La donna, “eterna ironia della comunità”: è stata, anche in questo caso, Carla Lonzi a rimarcare che già Hegel (sul quale consigliava di sputare) aveva capito come “l’arguzia della ragione” sarebbe stata in grado di rendere funzionale alla società patriarcale l’indistinto moto di dissidenza femminile (1970). Tuttavia, aggiungeremo noi, le donne non sono le sole custodi della cosiddetta “eccedenza”, consacrate, come le sante, a un voto di marginalità e povertà mentre tutti i “compagni” del mondo si possono misurare con le maschie contraddizioni della rappresentanza, comunque vada tra minori scandali, nausee e clamori. Questo per dire, tornando al tema, che le cose cambiano. Che cosa significano certi spostamenti? Come potremo interpretarli e con quali strumenti? Quali sono i femminismi oltre il nostro orizzonte provinciale, quante le posizioni sui vari temi? Soprattutto, quali le donne e quali le cose che vogliono? Quali i sessi, che cosa i generi? E infine, anche: chi è questo Lui, “significante assoluto del soggetto sociale pieno e libero rispetto al quale gli/le altri/i sono minoranze”, e cioè “l’Uomo” (“Uomo. Smascherare il maschile” del Laboratorio Smaschieramenti)?
Per questi motivi e altri ancora sui quali non mi dilungo, la condivisione di un lessico, la proposta di un bagaglio di parole-frasi che fungano da strumentazione dei femminismi contemporanei è fondamentale. Essa può essere non solo utile ma propedeutica a un ripensamento critico, qui e ora, delle nuove contraddizioni e problematiche che incontra sulla sua strada il soggetto sessuato, incarnato, situato, ancorato all’oggi. Certamente contro la concezione dell’universalismo astratto incardinata sull’individuo neutro (maschio) ma senz’altro dentro la necessità di una nuova modulazione e di un aggiornamento delle nostre categorie interpretative per accompagnare nuove battaglie. Le donne, dunque, completamente interne a tutti i processi, con le parole e i rischi di nuove soggezioni, fuori da ogni logica identitaria, tenendo conto di diversi luoghi e diverse condizioni, intendendo la pratica del posizionamento come modo di “interrogare e decostruire il privilegio della bianche” della classe media e ponendo molta attenzione a sogni di alleanza globale tra donne basati “sulla convinzione essenzialista che tutte le donne del mondo condividano una comune esperienza ‘in quanto donne’” (“Femminismo transazionale” di Elisabetta Pesole). Figure di un’antropologia sessuata di una nuova politica forse non più fallogocentrica e non più imprigionata nelle sue tradizionali antinomie ma che debbono rendersi consapevoli di inedite opposizioni e complessità, di inconsueti sistemi di cattura. I temi affrontati nelle voci proposte da questo testo sono importanti e rendono conto della produzione teorica delle donne che insieme animano il dibattito politico sul vivere contemporaneo, sui suoi recessi e sulle sue increspature, dentro un caleidoscopio di posizioni diverse che fa plurali i femminismi. All’interno di queste prospettive, il punto di vista femminista può rappresentare una chiave di lettura fondamentale, da rivisitare o da scoprire, a seconda che la lettrice o il lettore siano più o meno vicini o lontani dalla materia. Quindi, il testo si pone anche semplicemente come una raccolta di voci per approfondire, per conoscere, per capire meglio e di più. Effettivamente, si tratta di districare i grovigli, come dicono le curatrici, “senza eliminare le tensioni e i conflitti che ne sono all’origine e che sono parte del dna del femminismo”. La lezione biopolitica del femminismo, che ha consentito di comprendere alcuni nodi cruciali con grande anticipo rispetto alle modificazioni bioeconomiche che ci pone chiaramente di fronte il presente, ci ricorda che gli strumenti di indagine “a partire da sé”, vanno intesi come un concreto procedimento politico, come “pratica sperimentale della politica” che punta alla rivoluzione del mondo che conosciamo attraverso instancabili tentativi che possono muovere solo da ciò che conosciamo. Voglio qui ricordare quanto scritto – ed è esattamente così che io credo si debba procedere tutti, da qui in poi – da Judith Revel alla voce “Sperimentazione” per il Dictionnaire politique à l’usage des gouvernés: “La sperimentazione è precisamente la questione del campo attuale dei possibili. Ben lontana dall’utopia – che non lavora all’interno del “già-dato” delle cose presenti – essa tenta la scommessa al contempo dell’analisi di ciò che è, e della sua trasformazione radicale. Non si tratta né di ridursi alla mera registrazione delle necessità di un mondo subìto né di sognare un altro mondo, bensì di cambiare questo mondo qui. (…) Un’attitudine nei confronti del mondo che fa di ciascuno di noi colui che allo stesso tempo diagnostica la propria situazione e cartografa le proprie determinazioni, e colui che inventa una differenza possibile (Dictionnaire politique à l’usage des gouvernés, a cura di F. Brugère a G. le Blanc, Bayard, Paris, 2012. Vedi http://www.uninomade.org/sperimentazione/).
Saperi situati e voci per il nuovo mondo. I saperi a cui attingere per ri-trovare le parole per cambiare questo mondo, quelli a cui personalmente penso, in linea con il contesto del biocapitalismo cognitivo-relazionale che richiamavo frettolosamente in attacco, attengono dunque direttamente al soggetto, fattosi autonomo anche rispetto alle fabbriche del sapere, ai templi sfatti della conoscenza accademica, vuotamente arroccata su se stessa. A questi nuovi saperi non meramente libreschi e a un’autorevolezza che non ha più tutto questo bisogno – si è, appunto, almeno parzialmente, autonomizzata – dei filtri delle istituzioni storicamente deputate (università, giornali…) è necessario guardare per trovare il nuovo. La fase è faticosa, complessa, rischiosa e oggi, con la crisi economica e finanziaria, perfino disgraziata, ma il campo è anche più libero da certi fardelli: i partiti, i sindacati, i sessi, le separazioni tra il bene e il male o il privato e il pubblico sono in grande difficoltà. Addio a tutti voi, mai ci siamo amati. Dunque, evidentemente, questo contesto cambiato ci può consentire di imprimere un andamento diverso, giocando una funzione pienamente d’attacco ora che la materia stessa della produzione è la riproduzione sociale ed ora che anche la classe è più difficile da individuare. Un’occasione che, lungi dall’intendersi come una sciagura, può essere vista come una nuova possibilità di collegamento tra gruppi sociali, categorie, generi, nel fordismo comunque sclerotizzati improduttivamente da separazioni. Bisogna rompere con una soffocante identità ideologica tra donne che impedisce ogni emersione di coscienza critica distinta e che naturalizza le forme specifiche di “violenza razzista e di classe delle società europee” (si vedano le voci “Serva&Padrona” di Sabrina Marchetti e “Velate e svelate” di Chiara Bonfiglioli), ma nello stesso tempo evitare di ritenere che, per la prima volta nella storia, la precarietà ci abbia messe di fronte alla difficoltà delle frammentazioni. Perciò, interrogarsi insieme alle altre, scandagliando i labirinti di termini come colore, noir, bianchezza, razza, migranti, femminismo islamico, femminismo postcoloniale. Essi vengono assunti come parte integrante del bagaglio terminologico della cultura femminista contemporanea. “Subalterna” il lemma preso in carico da Angela D’Ottavio parte dal famoso saggio di Gayatri Chakravorty Spivak Can the subaltern speack? per inserire il tema della subalternità all’interno delle trasformazioni del capitalismo globale contemporaneo, sottolineando come sia necessario prestare attenzione a non abusare del termine per riferirsi a qualsiasi forma di subordinazione, quasi si andasse disperatamente alla ricerca del buon selvaggio a cui fare del bene. Istaurare invece una linea di comunicazione, una agency che può “far cominciare il lungo cammino verso l’egemonia”, spogliandosi da ogni eurocentrismo benevolente per creare le condizioni “perché la resistenza possa essere riconosciuta come tale”. Si tratta cioè di tenerci al riparo da ogni stucchevole relativismo, essendo tuttavia consapevoli delle possibili interrelazioni tra razza e genere, intese nei termini di una congiunta vigilanza critica sulle forme assunte dal capitalismo contemporaneo. Non a caso abbiamo ritenuto necessario mettere queste nozioni al centro del seminario di UniNomade del giugno scorso, a Napoli: “Oggi, il processo di razzializzazione deve essere considerato come parte costitutiva di un più largo esempio di governance locale postcoloniale orientata alla gestione delle principali trasformazioni politiche ed economiche degli ultimi vent’anni (la così detta transizione dal fordismo al postfordismo). Si tratta della riorganizzazione dell’intero tessuto sociale come esito dei processi di globalizzazione, delle ormai inarrestabili migrazioni e dell’irriducibile mobilità del lavoro. Ma anche come effetto delle lotte anticoloniali e delle enunciazioni del femminismo che hanno rimodellato il mercato del lavoro e le relazioni sociali dal 1970 in avanti” (Anna Curcio e Miguel Mellino, estratti da Race at Work. Rise and Challenge of Italian Racism, in Darkmatter Journal, 6, 2010, trad. it. http://www.uninomade.org/note-su-razzismo-e-antirazzismo/). Altri nodi, nel testo, si avviluppano intorno ai termini “Queer” (“Un soggetto senza identità?”, di Monica Pietrangeli) e “Postporno” (“Quel porno che non è un porno” di Rachele Borghi). Nel primo caso, ammettendo che ricostruire l’origine – da Teresa de Lauretis a Judith Butler a Preciado – di una parola pressoché intraducibile e che “trae un certo vantaggio dal mantenersi al di sotto della soglia dell’intellegibile”, è la perfetta figurazione lessicale della soggettività contemporanea, rizomatica, scomposta e composita, nell’esplosione della categoria di donna e nella proliferazione di varie categorie di genere. Nel secondo, descrivendo un fenomeno fluido, che rifiuta etichette e che rimette al centro il corpo e il suo desiderio e il suo piacere contro la (dis)erotizzazione mercificata imposta dal capitale, che mi pare l’aspetto più interessante da rimarcare. Performer di cultura postporno che fanno riferimento alla queer theory nel suo insieme che diventano veri e propri manifesti “di un femminismo dissidente tran-genere”. E così il lemma “Sesso e genere”, scritto da Liliana Ellena e Vincenza Perilli serve per dipanare i fili di una matassa particolarmente difficile da sbrogliare laddove, paradossalmente, la parola genere (da gender la cui traduzione nelle lingue romanze pone problemi e rischia slittamenti di significato), “nel linguaggio comune e nel dibattito culturale – inteso in maniera semplificatoria come ciò che attiene al sociale in contrapposizione alla sfera biologica rappresentata dal sesso – corre il rischio di reintrodurre quei presupposti naturalizzanti contro i quali aveva preso le mosse”. Beatrice Busi ci porta via con sé a visitare la “geografia degli organi senza corpo ritagliata dal dispositivo etero-normativo, il cui funzionamento richiede una rigida separazione tra maschile e femminile e i genitali rivestono il ruolo di significante socio-sessuale per eccellenza” e siamo alla voce “Modificazioni. MGF, trans e inter-sex”: “La sostituzione di un modello binario con un modello polimorfico del sesso e del genere non può di per sé assicurare la fine della violenza e delle discriminazioni” ma almeno assicurerebbe lo sforzo di una ginnastica mentale collettiva verso la legittimazione dell’“Altro”. Insomma, anche qui, un nucleo combinato di parole che ci inserisce nel solco tracciato dal “terzo femminismo” di Beatriz Preciado, “aprendo definitivamente la strada al transfemminismo, un femminismo trasversale al sesso e al genere che legittima l’esistenza di identità fluide caratteristiche delle società post identitarie in cui le nostre alleanze più prossime debbono essere transgeniche, transessuali, anticoloniali. Queste sono le nostre alleanze, questo è il luogo del femminismo oggi” (Rachele Borghi). Siamo arrivate alla fine. Dopo questa traversata sinceramente entusiasta tra le parole, non posso evitare dal fare un appunto al libro: mancano alcune voci, per esempio “precarietà”, nell’evoluzione/involuzione della figura della donna(uomo)-impresa-precaria e della precarietà di seconda o addirittura di terza generazione; avrei voluto leggere qualcosa su welfare del comune e reddito di base dal punto di vista delle donne, analisi che ha alle spalle una autorevole tradizione italiana, a partire da Lotta Femminista. Proprio per reagire alla normalizzazione complessiva del pensiero all’interno della quale anche il femminismo tende a diventare un’opzione puramente culturale, dentro un meccanismo di integrazione che ha oscurato, invisibilizzato e addomesticato l’elaborazione più radicale dei movimenti italiani delle donne, sarebbe stato soprattutto fruttuoso ricostruire-decostruire l’origine e gli effetti del termine “lavoro”, attualizzando – a partire da ciò che una parte del femminismo ha già detto – la sempre più assurda asimmetria concettuale “lavoro-non lavoro” che è forse quella che maggiormente avrebbe la necessità di essere rivisitata, setacciata e messa a critica. La scomposizione della soggettività è anche il frutto dell’inesorabile e problematica crisi dell’istituto sociale del lavoro, la retorica lavorista – che vogliamo respingere – ci ha agganciate solo di recente, guarda caso nel momento in cui il lavoro perde di significato da un punto di vista simbolico e del valore, e guarda caso mentre ne guadagna la riproduzione sociale contemporanea, ovvero un più ampio processo produttivo che ha a che vedere anche con la traduzione delle esistenze in forme di gestione e di controllo, ovvero con la produzione di ideologie e di consenso, di stili di vita, di riti, di norme comportamentali. Queste sono, a mio avviso, le parole che ci autorizzano di fare i ragionamenti con i quali ho aperto la mia lettura, ovvero quelle che consentono di sviscerare il cambio di paradigma e dunque di circoscrivere il quadro nel quale vanno inserite le lotte e i conflitti delle soggettività plurali al sistema del biocapitalismo totale, ciò che collega i grovigli e complica le complessità, rendendole possibili e visibili. Pur ammettendo che non esistono più gli scenari granitici e le spiegazioni univoche e definitive, ciò che stiamo evocando potrebbe anche essere definito biopolitica, con i suoi quadri di prescrittività sociale e di appropriazione del vivente: è la società vampirizzata e tradotta in mercato, dove si inducono le condizioni perché l’intreccio degli scambi non venga mai indirizzato a un bene collettivo. Dispositivo di biopolitica che coordina sottilmente la competizione tra interessi individuali, interiorizzati e diversi. Dispositivo di infelicità, presentismo che dà ansia. Che genera depressione perché avvilisce l’essenza della cooperazione (comunanza), esigendo di sussumerla e traducendola in valore di scambio. Ma che, d’altro lato, produce eccedenza, un meccanismo di enorme importanza per l’esistenza, rivincita della vita sulle forme di produzione finalizzate al profitto, trasformazione dei piani della produzione e della riproduzione sociale stessa. Eccedenza che intendiamo come capacità critica e di produzione di pensiero autonomo, di produzione di materiali improduttivi rispetto al criterio di “produttività” funzionale al profitto. Dunque proprio questa consapevolezza “materiale” dei processi in atto va posta al centro: oggi più che mai essa è il cuore di ogni capacità di presa di posizione responsabile e di sottrazione alle programmazioni sociali o ideologiche nelle quali siamo tutte e tutti inseriti.
Un filo rosso che già emerge, a tratti, sia chiaro, dalle matasse proposte dal testo ma che, a mio parere, sarebbe stato particolarmente interessante indicare. Nominare apertamente, appunto //
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sabato 3 novembre 2012
Judy!
La copertina di quella che sembra essere la prima tra le Judith Butler Zine.Grazie a Jenna per la segnalazione
sabato 27 ottobre 2012
Judith Butler / New Zine
La copertina di una delle riviste - dedicata a Judith Butler -, presentate questa estate al Queer Between the Covers, la fiera del libro queer di Montreal
giovedì 20 settembre 2012
Alla prova di globalizzazione, guerre, razzismo dilagante
Dal sito dell'incontro nazionale femminista Primum vivere che, come vi avevamo anticipato, si terrà dal 5 al 7 ottobre a Paestum, ri-proponiamo alla discussione un articolo di Isabella Peretti, Alla prova di globalizzazione, guerre, razzismo dilagante. Buona lettura e riflessioni: "Perché una differenza – quella tra donne e uomini – è più differente delle altre differenze (di provenienza geografica e sociale, di religione, di colore della pelle, di scelta sessuale,ecc.)? Quante volte ci siamo sentite fare questa domanda, fin dagli anni 70! E si ripropone tanto più oggi, nel tempo della globalizzazione. E potrà riproporsi a Paestum. Quindi credo sia giusto e fruttuoso affrontarla. Eccovi il mio contributo. Il femminismo della differenza, che va sempre ridefinito, si mette oggi alla prova di fronte alle questioni poste dalla cosiddetta intersezionalità (cfr. voce “Intersezionalità” di Vincenza Perilli e Liliana Ellena, in Femministe a parole. Grovigli da districare a cura di Sabrina Marchetti, Jamila Mascat,Vincenza Perilli), che a mio avviso, non andrebbe intesa come intersezione di oppressioni multiple o simultaneità dei sistemi di dominio, ma come tipica e costitutiva “dei processi di soggettivazione nelle società contemporanee” . Si tratta di analisi, teorizzazioni e posizioni politiche, ma anche di vissuti personali – pensiamo alle nuove generazioni di migranti, a come riflettono sulle proprie soggettività meticce – , di esperienze di movimenti ( dai primi movimenti del cd. Black Feminism alla partecipazione attuale delle donne alle lotte postcoloniali del Nord Africa) che colgono e manifestano tutta la pregnanza degli intrecci delle differenze, che nella globalizzazione si moltiplicano e si complicano. Intrecci che noi stesse, come curatrici della collana sessismoerazzismo (Ediesse) – Lea Melandri, Ambra Pirri, Stefania Vulterini ed io – abbiamo condiviso con le autrici, sia dei libri di racconti (“Voci di donne migranti” e “Incontrarsi”) sia della saggistica (da “Schengenland” alle “Cinque giornate lesbiche”, a “Libeccio d’Oltremare”, alle “Ragazze di Asmara” a Femministe a parole). Per quanto mi riguarda la condivisione delle esperienze delle donne migranti, le loro vite e la loro transnazionalità, l’incontro e il confronto con loro – che si sono tradotte nella pubblicazione di libri e nella partecipazione a varie iniziative politiche e culturali – mi appassionano umanamente e politicamente molto più di altre. Riprendendo il ragionamento, secondo uno dei testi fondamentali del femminismo della differenza – “La differenza politica”, di Maria Luisa Boccia (2002) – la pratica dell’autocoscienza e del partire da sé inducono la crisi del Soggetto unitario, di una storia unitaria della coscienza (p.76), alla quale le donne non sono state estranee, ma che hanno subito come colonizzazione. Molte donne hanno sentito il bisogno di tornare al proprio essere (sessuato), dal momento che la rappresentazione fornitane dalla cultura occidentale risultava non corrispondente (p.80); ma questi percorsi non approdano a una valorizzazione dell’identità femminile, dei caratteri specifici essenzialistici del sesso, bensì a quell’ “autenticità che altro non è che il vuoto scaturito dalla rinuncia attiva all’identità suggellata e modellata della Femminilità”. Questo vuoto “ è appena sopportabile, è il rischio di perdere la ragione”; “tale rischio” afferma Carla Lonzi, ampiamente citata da Maria Luisa,“ è il mio senso della femminilità” ed è questa l’unica autenticità, la sola libertà da ricercare (p.66). E’ questo un percorso fondamentale, che compiono anche quelle singolarità e quelle soggettività che riflettono non solo sul proprio essere sessuato, ma anche sulla propria storia e provenienza, senza identificarsi (Amartya Sen, “Identità e violenza”, 2006) ma senza prescinderne, traendone spunti e motivazioni per pratiche di vita, di pensiero e di impegno politico differenti (cfr. tra i tanti esempi possibili, le Nere e i Neri di Francia,voce “Noir. La pelle che conta”, di Stefania Vulterini in “Femministe a parole”). Ma il rivolgersi al proprio essere sessuato oltre ad essere una condizione di libertà – l’appartenenza di sesso non più come un destino o una naturalità ma come condizione di possibilità (Boccia, p.102) – è anche una possibilità di produrre trascendenza, “ ponendo la differenza tra i sessi come costitutiva del rapporto tra l’io e il mondo, tra singolarità e pluralità, sia per le donne che per gli uomini”. E’ questa possibilità di trascendenza che rende la differenza tra donne e uomini prioritaria rispetto a quei percorsi che riflettono sull’intersezionalità e che si pongono su altri piani – storici, antropologici, politici? Sta qui la risposta alla domanda iniziale? Si aprono in tal modo contrapposizioni, o non piuttosto nuovi interrogativi, confronti e contaminazioni proficue? Secondo me, si possono individuare molti motivi di condivisione tra elaborazioni diverse – quelle per esempio di Maria Luisa Boccia e Manuela Fraire, o il “chi” di Adriana Cavarero (“Tu che mi guardi, tu che mi racconti”, 1997) o ancora il soggetto nomade di Rosi Braidotti – , ma convergenti rispetto all’unicità incarnata, alla singolarità, che rappresenta un punto di partenza e un punto di arrivo, da cui ne deriva necessariamente il rifiuto di quell’universalismo al femminile, che in realtà è stato quello delle donne bianche, eterosessuali e della classe media; comune è la centralità del corpo ; comune la dialettica tra autenticità, libertà e determinazioni esterne – quelle norme linguistiche e sociali del potere che Butler riprende da Foucault (cfr. Olivia Guaraldo, “Figure in relazione”, in “Differenza e relazione. L’ontologia dell’umano nel pensiero di Judith Butler e di Adriana Cavarero”, 2009). Sostiene la lettera di convocazione dell’incontro di Paestum: “Il femminismo che conosciamo ha sempre lavorato perché ciascuna, nello scambio con le altre, si potesse fare un’idea di sé: una autorappresentazione che è la condizione minima per la libertà. Invece la democrazia corrente ha finora sovrapposto la rappresentanza a gruppi sociali visti come un tutto omogeneo. La strada che abbiamo aperta nella ricerca di libertà femminile, con le sue pratiche, può diventare generale: nelle scuole, nelle periferie, nel lavoro, nei luoghi dove si decide, ecc. Che la gente si ritrovi e parli di sé nello scambio con altre/i fino a trovare la propria singolarità, è la condizione necessaria per ripensare oggi la democrazia”. Sono affermazioni condivisibili, anche se i percorsi teorici e politici possono essere diversi; come ha evidenziato Olivia Guaraldo (cit.) diversi sono gli approcci rispetto alla dimensione collettiva di Butler (il noi dell’azione politica)e di Cavarero (la relazione duale io/tu), anche se convergono sull’esposizione alla vulnerabilità propria e dell’altra/o.La lettera per Paestum richiama quelle dimensioni del mondo comune e della pluralità, create dalle relazioni tra donne, che, come sostiene Maria Luisa Boccia (cit., p.103) sono coordinate imprescindibili per l’agire libero della singola. Converge su questa problematica anche chi si interroga sul nesso sessismo-razzismo, come cerchiamo di fare nella nostra collana: “L’attribuzione di identità stereotipate ha imprigionato donne e “culture altre” nel ruolo loro assegnato, a baluardo delle identità nazionali e al centro dello scontro tra Occidente e Oriente, escludendo soggettività individuali, relazioni, conflitti, mutamenti. Ma queste soggettività sono vive, si esprimono intorno a noi e lontano da noi; con loro faremo questa collana” (Dalla presentazione della collana). Il documento di Paestum così conclude: “Soprattutto le relazioni tra donne e uomini sono cambiate. Ma non abbastanza. Sulla scena pubblica questo cambiamento non appare perché il rapporto uomo-donna non viene assunto come questione politica di primo piano. Eppure, solo in questo modo, possono sorgere pratiche politiche radicalmente diverse, produzioni simboliche e proposte per una nuova organizzazione del vivere”. Su quest’ultimo punto ci sarà molto da discutere: che possa essere la chiave del cambiamento per individuare insieme tutte le azioni necessarie di fronte alla globalizzazione, alle guerre e al razzismo dilagante, alle contraddizioni postcoloniali, ecc .è un passaggio della lettera che a Paestum sarà, secondo me, tutto da verificare".
martedì 11 settembre 2012
Judith Butler, ebraismo e violenza di stato
A fine agosto, a Francoforte, Judith Butler è stata insignita del prestigioso Premio Adorno, assegnazione preceduta e accompagnata da una violenta polemica da parte di alcune organizzazioni israeliane con articoli del tenore di "Il premio Adorno ad una fan di Hamas". Val la pena leggere la risposta di Judith Butler a questi attacchi, inviata originariamente a Mondoweiss, e poi ripresa e tradotta in italiano da varie testate (1, 2 e 3 ...). Eccola: "Il Jerusalem Post ha recentemente pubblicato un articolo in cui informa che alcune organizzazioni erano contrarie a che io ricevessi il Premio Adorno. Questo premio viene assegnato ogni tre anni a chi lavora nella tradizione intellettuale della teoria critica, intesa in senso ampio. Le accuse contro di me sono di appoggiare Hamas e Hezbollah (non vero), di appoggiare il BDS (parzialmente vero) e di essere un’anti-semita(platealmente falso). Forse non dovrei essere così sorpresa che chi si oppone al mio ricevimento del Premio Adorno ricorra ad accuse così ignobili e infondate per farsi notare. Sono una studiosa arrivata alla filosofia attraverso il pensiero ebraico e mi considero una persona che difende e prosegue una tradizione etica che include figure come Martin Buber e Hannah Arendt. Ho ricevuto un’educazione ebraica a Cleveland, sotto la guida del Rabbino Daniel Silver, in una sinagoga dell’Ohio dove ho sviluppato solide visioni etiche sulla base del pensiero filosofico ebraico. Nel mio percorso di formazione mi sono convinta che gli altri ci chiedono di – e noi stessi ci interroghiamo su come– rispondere alle loro sofferenze e cercare di alleviarle. Tuttavia, per fare questo, dobbiamo essere capaci di ascoltare e trovare i mezzi con cui rispondere, e talvolta pagare le conseguenze dei modi in cui decidiamo di opporci alle ingiustizie. In ogni singola tappa della mia educazione ebraica mi è stato insegnato che rimanere in silenzio di fronte all’ingiustizia non è accettabile. La difficoltà di un precetto di questo genere sta nel fatto che esso non ci dice chiaramente quando e come pronunciarci, o come opporci senza produrre una nuova ingiustizia, o come parlare in modo da essere ascoltati ed essere capiti in maniera corretta. La mia posizione non è ascoltata da questi detrattori, e forse non dovrei sorprendermi, visto che la loro tattica consiste nel distruggere le condizioni dell'ascolto. Ho studiato filosofia all’Università di Yale e ho continuato a concentrarmi sulle questioni di etica ebraica lungo l’intero arco della mia educazione. Sono contenta di aver ricevuto quel bagaglio etico e l’educazione che mi è stata data, e che tuttora mi anima. È falso, assurdo e doloroso per chiunque sentir dire che chi formula una critica dello Stato di Israele è un antisemita, o, se ebreo, un ebreo che odia sé stesso. Accuse di questo genere cercano di demonizzare la persona che articola un punto di vista critico e di squalificare a priori questo punto di vista. Si tratta di una tattica di messa a tacere: di questa persona non si può parlare, e qualunque cosa essa dica va respinta in anticipo o distorta in modo tale da negare la validità stessa della presa di parola. L’accusa rifiuta di prendere in considerazione il punto di vista, di discuterne la validità, di valutarne le sue prove, e di trarne una conclusione oculata sulla base dell’ascolto della propria ragione. L’accusa non è semplicemente un attacco contro le persone che hanno punti di vista discutibili, ma si traduce in un attacco contro qualsiasi scambio ragionevole di opinioni, contro la stessa possibilità di ascoltare e parlare in un contesto in cui si potrebbe prendere in considerazione cosa l’altro ha da dire. Quando degli ebrei etichettano altri ebrei come “antisemiti”, essi cercano di monopolizzare il diritto di parlare in nome degli ebrei. Dunque l’accusa di antisemitismo serve da copertura per un conflitto tra ebrei. Sono allarmata per il numero di ebrei che, costernati per le politiche israeliane, tra cui l’occupazione, l’uso delle detenzioni indefinite e il bombardamento della popolazione civile a Gaza, cerca di rinnegare la propria ebraicità. Il loro errore consiste nel considerare lo Stato di Israele come rappresentante contemporaneo dell’ebraismo, e nel pensare che se una persona si definisce ebrea, questo significhi appoggiare Israele e le sue azioni. Nonostante questo, ci sono sempre state tradizioni ebraiche che si oppongono alla violenza statale, che affermano la coabitazione multiculturale e difendono i principi dell’uguaglianza. Queste tradizioni etiche di fondamentale importanza vengono dimenticate e marginalizzate ogni qualvolta si accetta che Israele sia la base dell’identificazione e dei valori ebraici. Quindi, da un lato gli ebrei che criticano Israele forse pensano di non potere più essere ebrei perché Israele rappresenta l’ebraismo; dall’altro lato, chi cerca di mettere a tacere i critici di Israele fa ugualmente coincidere l’ebraismo con Israele, traendo la conclusione che ogni critica è antisemita o, se la critica proviene da un ebreo, mossa da odio di sé. I miei sforzi, sia nella ricerca sia nei miei discorsi pubblici, sono sempre stati volti a uscire da questo vicolo cieco. Dal mio punto di vista ci sono tradizioni ebraiche molto significative – anche le prime tradizioni sioniste – che valorizzano la coabitazione e che forniscono modalità di opposizione contro la violenza di qualunque genere, inclusa la violenza di Stato. Oggi è molto importante valorizzare e tenere in vita queste tradizioni, poiché esse rappresentano i valori diasporici, le battaglie per la giustizia sociale e un principio ebraico talmente rilevante come la “riparazione del mondo” (Tikkun). È chiaro che quelle passioni che raggiungono livelli così elevati su questioni come queste rendono molto difficile l’ascolto e la presa di parola. Si decontestualizzano alcune parole e si distorce il loro significato per poi utilizzarle per stigmatizzare ed squalificare un individuo. Questo succede con molte persone che hanno una visione critica di Israele – e che vengono etichettate come antisemite o collaboratrici naziste; queste forme di accusa mirano a creare le forme più durevoli e tossiche di stigmatizzazione e demonizzazione. Si colpisce la persona decontestualizzandone le parole, invertendone i significati e sostituendole alla persona; di fatto, queste forme di accusa annientano i punti di vista della persona a prescindere da quegli stessi punti di vista. Per coloro che tra noi sono i discendenti degli ebrei europei eliminati dal genocidio nazista (la famiglia di mia nonna è stata distrutta in un piccolo villaggio a sud di Budapest), essere chiamati complici dell’odio contro gli ebrei o ebrei che odiano sé stessi è uno degli insulti e delle ferite più dolorosi che possano esistere. Risulta ancora più difficile resistere al dolore di un’accusa di questo genere quando la persona colpita cerca di affermare ciò che di più prezioso esiste nel giudaismo per pensare all’etica contemporanea, inclusa la relazione etica con chi è privato della propria terra e dei diritti di auto-determinazione, con chi cerca di mantenere viva la memoria della propria oppressione, con chi prova a vivere un vita che possa e debba essere riconosciuta come vita degna di essere vissuta. Sostengo che questi valori derivano tutti da fonti ebraiche importanti, il che non significa dire che essi derivano esclusivamente da quelle fonti. Ma, data la storia da cui provengo, è di fondamentale importanza, in quanto ebrea, oppormi all’ingiustizia e combattere contro tutte le forme di razzismo. Questo non fa di me una ebrea che odia sé stessa, bensì mi rende una persona che vuole affermare un giudaismo non identificabile con la violenza statale e che si identifica con una battaglia globale per la giustizia sociale.I miei commenti su Hamas e Hezbollah sono stati decontestualizzati e i miei noti e assodati punti di vista brutalmente distorti. Sono sempre stata a favore dell’azione politica non violenta, e questo principio ha sempre caratterizzato le mie posizioni. Alcuni anni fa, un membro di un pubblico accademico mi ha chiesto se penso che Hamas e Hezbollah appartengano alla “sinistra globale” e ho risposto con due commenti. Il primo era meramente descrittivo: queste due organizzazioni politiche si definiscono anti-imperialiste, e una delle caratteristiche della sinistra globale è l’anti-imperialismo; quindi, in questa logica, esse potrebbero essere descritte come parte della sinistra globale. Il mio secondo commento era critico: come per qualsiasi gruppo che si colloca a sinistra, occorre decidere se uno è contro o a favore di quel gruppo e valutare criticamente le posizioni di quel gruppo. Non accetto o approvo tutti i gruppi che fanno parte della sinistra globale. Infatti questi stessi commenti hanno fatto seguito a una mia presentazione in cui ho sottolineato l’importanza del lutto collettivo e delle pratiche politiche della non violenza, un principio che ho sviluppato e difeso in tre dei miei libri più recenti: Precarious Life, Frames of War e Parting Ways. Sono stata intervista sulle mie posizioni non violente sulla rivista Guernica e su altre riviste online, ed è facile ritrovare queste mie posizioni se uno volesse capire da che parte mi colloco su tali questioni. Talvolta sono addirittura presa in giro da membri della sinistra che appoggiano le forme di resistenza violenta che pensano che io non sia in grado di capire quelle pratiche. E’ vero: non appoggio le pratiche di resistenza violenta e non appoggio, non ho mai appoggiato e non posso appoggiare nemmeno la violenza statale. Forse questa posizione mi rende più naïve che pericolosa, ma è la mia posizione. Per questo mi è sempre sembrato assurdo che i miei commenti venissero interpretati come un appoggio a Hamas o Hezbollah! Non ho mai preso una posizione su nessuna organizzazione, così come non ho mai appoggiato tutte le organizzazioni che presumibilmente fanno parte della sinistra globale – non sono una sostenitrice incondizionata di tutti i gruppi che oggi fanno parte della sinistra globale. Dire che quelle organizzazioni fanno parte della sinistra non significa dire che esse dovrebbero esserne parte, o che in qualche modo le appoggio.Due altri punti. Appoggio il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) con una modalità specifica di appoggio. Ne rifiuto alcune versioni e ne accetto altre. BDS per me significa che mi oppongo agli investimenti in compagnie che producono equipaggiamenti militari il cui solo scopo è di demolire case. Questo vuol dire che non parlo in delle istituzioni israeliane a meno che non prendano una posizione chiara contro l’occupazione. Non accetto nessuna versione del BDS che discrimina contro i singoli individui sulla base della loro cittadinanza nazionale e continuo ad avere strette relazioni di collaborazione con molti studiosi israeliani. Una delle ragioni per cui appoggio il BDS e non appoggio Hamas e Hezbollah è che il BDS è il movimento civile e politico non-violento più ampio che cerchi di stabilire l’uguaglianza e il diritto all’auto-determinazione per i palestinesi. Il mio punto di vista è che i popoli di quella terra, ebrei e palestinesi, devono trovare un modo per vivere insieme in condizioni di uguaglianza. Come molte altre persone, desidero una comunità politica democratica su quella terra e sostengo i principi di autodeterminazione e coabitazione per entrambi i popoli e per tutti i popoli. Desidero, come lo desidera un numero sempre crescente di ebrei e non-ebrei, che venga posta fine all’occupazione, che cessi la violenza, e che i diritti politici fondamentali di tutti i popoli che vivono in quella terra vengano preservati da una nuova struttura politica.Due ultime note. Il gruppo che sponsorizza l’attacco contro di me si chiama Scholars for Peace in the Middle East – un nome quantomeno improprio – e nel suo sito web si sostiene che l’"Islam" è una "religione intrinsecamente antisemita (sic!)". Contrariamente a quanto riportato dal Jerusalem Post, non si tratta di un folto gruppo di studiosi ebrei con base in Germania, ma di una organizzazione internazionale con base in Australia e in California. Essi fanno parte di una organizzazione di destra e dunque di una guerra intra-ebraica. Un ex-membro del loro consiglio di amministrazione, Gerald Steinberg, è noto per i suoi attacchi contro le organizzazioni per i diritti umani israeliane, contro Amnesty International e Human Rights Watch. A quanto pare lo sforzo che questi gruppi compiono per denunciare le violazioni israeliane dei diritti umani le rende etichettabili come “organizzazioni antisemite”. Per finire, non sono lo strumento di nessuna organizzazione non-governativa: faccio parte del comitato consultivo di Jewish Voice for Peace; sono membro della sinagoga Khelillah a Oakland, in California; sono membro esecutivo della Faculty for Israeli-Palestinian Peace negli Stati Uniti e del Freedom Theatre di Jenin. I miei punti di vista politici toccano vari argomenti e non sono ristretti al Medio Oriente o allo Stato di Israele. Infatti ho scritto di violenza e ingiustizia in altre parti del mondo, ponendo la mia attenzione sulle guerre scatenate dagli Stati Uniti. Ho scritto anche di violenza contro le persone transessuali in Turchia, di violenza psichiatrica, di tortura a Guantanamo e di violenza della polizia contro i manifestanti pacifici negli Stati Uniti, solo per menzionare alcuni dei miei interessi. Ho scritto anche di antisemitismo in Germania e contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti.
giovedì 7 giugno 2012
Canone inverso. Antologia di teoria queer
Canone inverso, un'antologia con saggi di Laurent Berlant, Leo Bersani, Judith Butler, Ann Cvetckovich, Samuel R. Delany, Lee Edelman, Eve Kosfsky Sedgwick, Sandy Stone, Michael Warner, Simon Watney,a cura di Cristian Lo Iacono e Elisa A. G. Arfini, appena pubblicato dalle Edizioni ETS nella collana di intercultura di genere àltera, diretta da Liana Borghi e Marco Pustianaz. Il volume sarà presentato domani 8 giugno ad Atlantide (Cassero di Porta Santo Stefano -Bologna) alle ore 19 dal collettivo Smaschieramenti
domenica 29 aprile 2012
Scambi di genere / Gender Trouble
Un annetto fa o forse più vi avevamo segnalato l'iniziativa del Fronte di liberazione dalla carta, che aveva cominciato a mettere in libera condivisione in rete testi sul genere, a partire dalla traduzione italiana di Gender Trouble di Judith Butler. Un commento di Lafra (grazie!) mi/ci avverte che disgraziatamente, dopo la chiusura di megaupload, il testo non è più al link che avevamo segnalato, ma che una copia è però disponibile su Scribd. Ottima cosa, visto che la casa editrice ha smesso di ristamparlo e il testo è dunque quasi introvabile. Buona lettura!
lunedì 5 marzo 2012
Corpi senza frontiere. Il sesso come questione politica
Corpi senza frontiere. Il sesso come questione politica è il titolo del volume, appena pubblicato da Dedalo di Caterina Rea, docente di filosofia all’Université de Louvain-la-Neuve in Belgio e autrice di numerosi articoli e volumi, tra i quali Dénaturaliser le corps. De l’opacité charnelle à l’énigme de la pulsion (2009). L'assunto di base che sostiene Corpi senza frontiere, è che il sesso è un prodotto storico, un’"invenzione" umana che traduce rapporti di dominio e si esprime in un particolare sistema di potere. Di seguito pubblichiamo alcuni stralci dell'introduzione, Dalla natura umana all’istituzione. "La tesi di questo libro, poco condivisa dal sentire comune, ma affermata dal costruttivismo sociale, è che il sesso sia un prodotto storico, un’invenzione umana che traduce rapporti di dominio e si esprime in un tipo particolare di sistema di potere. Le sfere del corpo e del sesso sono state a lungo considerate dalle scienze umane e sociali come una dimensione privata e intima, sottratta al divenire della storia, dell’istituzione sociale e della discussione politica. Così, una certa fenomenologia del corpo ha preteso di rivelarne la dimensione eidetica, intesa come un in sé, un proprio che precede ogni produzione sociale e storica. Allo stesso modo, la psicoanalisi ha elaborato norme universali (il complesso di Edipo, l’ordine simbolico e talvolta perfino una comprensione biologizzante della pulsione) che pretendono di definire lo sviluppo psico-sessuale dell’individuo. In maniera analoga, benché ciò possa apparire a prima vista sorprendente, persino talune prospettive socio-antropologiche e giuridiche hanno posto al centro delle loro analisi la distinzione tra naturale e social-culturale, ma anche tra privato e pubblico, distinzione che non è stata senza conseguenze nell’ambito delle accese discussioni e decisioni politiche riguardanti i moderni cambiamenti socio-familiari. Per chiarezza desidero precisare che questo libro non si richiama volutamente al femminismo storico italiano e non si inscrive nella continuità con il pensiero della differenza sessuale che questo incarna, soprattutto attraverso la Comunità filosofica femminile Diotima a Verona. Due parole per motivare questa presa di distanza: pur affermando la necessità di una pratica che conduca alla politicizzazione del sesso, il femminismo differenzialista non fa propria la lettura denaturalizzata del mondo e dei rapporti sociali che è per noi la sola possibile premessa di una visione politica laica, libera dal peso di ogni riferimento metafisico, da ogni appello a un presunto originario o, più generalmente, da ogni riferimento meta-storico. Che cos’è infatti questa «donna», questo «femminile» a cui il pensiero della differenza fa riferimento? Si tratta di qualcosa che esiste prima dei rapporti sociali di potere propri del patriarcato e della sua organizzazione del mondo in dominatori e dominati? Insomma la differenza sessuale incarna un ordine ontologico, un senso in sé inscritto nelle cose oppure una configurazione universale dello psichismo umano? Un passo di Luisa Muraro ci sembra illustrare come la pratica di questo femminismo presupponga la pretesa di raggiungere un «senso vero dell’esperienza femminile». Questa pratica consiste infatti nel «risalire alle origini seguendo una genealogia femminile, così da trovarvi la fonte della propria forza originale, della propria originalità». Gli accenti naturalistici del femminismo della differenza si fanno ancora più forti nella produzione della psicoanalista Silvia Vegetti-Finzi che, in un testo pubblicato nel 1992, riprende il paradigma, già affermato da Freud, di una vicinanza originaria del femminile alla natura. Se così la relazione madre-figlia, come afferma lo stesso Freud, precede il linguaggio e il simbolico in quanto creazione storico-sociale, l’emancipazione femminile non potrà prescindere da un ripensamento del legame della donna con la natura. Si tratterebbe allora di riconoscere il ciclo biologico e il posto che, in esso, hanno le donne, al fine di elaborare una soggettività femminile capace di opporsi all’impresa maschile di dominio e di sfruttamento della natura. La via dell’emancipazione femminile passerebbe dunque, secondo la Vegetti-Finzi, per "Il compito di volgere al femminile il discorso sul femminile, cioè di avere il coraggio di ritrascrivere, ritradurre in un codice femminile (assumendo la soggettività femminile) il discorso che l’uomo ha elaborato su di noi e con il quale ci siamo così profondamente identificate". Siamo al nodo di questo mio libro che ha per obiettivo proprio la ricerca di un senso originario delle cose, l’idea che esistano modelli universali cui richiamarsi, fatta propria da chi postula una differenza intima, ontologica, essenziale e persino simbolica della donna. Questa differenza è invece solo e soltanto il prodotto della storia ispirata dalle logiche del patriarcato e dalla violenza della dominazione maschile. Quando si reclama il diritto alla differenza, afferma la sociologa francese Colette Guillaumin, da una prospettiva apertamente anti-naturalista, non si tiene conto del fatto che nessuno vorrà negarla, questa differenza, ai gruppi dominati, in quanto essa è il marchio stesso dello sfruttamento. «Reclamare la differenza come qualcosa di mirabile significa accettare la perennità del rapporto di sfruttamento. Significa pensare, a nostra volta, in termini di eternità». Nel corso di questo saggio, riprenderemo il pensiero di quelle femministe materialiste che affermano che i gruppi sociali non sono identità originarie, naturali o comunque precedenti l’organizzazione istituita, ma il prodotto di rapporti storici di potere e che il sesso, come la razza, deve essere considerato «come un marchio biologizzato che segnala e stigmatizza una “categoria alterizzata”». In Italia, come del resto negli Stati Uniti, il femminismo materialista francese è pressoché sconosciuto. Il cosiddetto French Feminism è identificato esclusivamente con le posizioni di Luce Irigaray, di Julia Kristeva e di Hélène Cixous che sono fautrici di un pensiero differenzialista ispirato a una rielaborazione della psicoanalisi lacaniana. Nel femminismo differenzialista manca, a nostro avviso, un’analisi compiuta della dominazione maschile, cioè la consapevolezza del fatto che è proprio del potere il qualificare come differente l’altro/a, il/la dominato/a. Com’è possibile infatti sostituire all’ordine simbolico patriarcale ciò che viene chiamato l’ordine simbolico della madre (genealogia femminile) se tale passaggio non tocca in profondità i rapporti effettivi di potere? Mi riferisco alla diversità, stabilita dalla stessa Muraro, tra ordine simbolico e ordine sociale. Una diversità che impedisce di vedere come l’ordine simbolico, centrato sulla differenza dei sessi, incarni, di per sé, l’apparato discorsivo e di sapere insito nel patriarcato in quanto insieme di rapporti sociali di sesso. Se l’ordine simbolico della differenza costituisce la dimensione discorsiva, linguistica e di sapere propria di una cultura, esso sostiene, veicola ed è al contempo l’espressione di un dispositivo di potere, di una certa strutturazione della trama delle relazioni sociali. In breve, l’ordine simbolico centrato sulla differenza non sfugge all’ordinamento patriarcale. Non a caso, forse, il differenzialismo rifiuta di far proprie le rivendicazioni di eguaglianza di diritti e di parità affermate dalla corrente del femminismomaterialista e radicale, ritenendo che esse portano a cancellare la specificità di quella differenza femminile ritenuta centrale.Alla base del rifiuto della rivendicazione di eguaglianza vi è dunque il timore dell’omologazione, il timore che, attraverso le pratiche emancipatorie, le donne siano costrette ad adeguarsi ai modelli maschili vigenti.Ma questo timore non ha ragion d’essere, come ha giustamente mostrato la critica di Christine Delphy; la paura dell’indifferenziazione vuole evitare "Che tutti si allineino al modello maschile attuale. Sarebbe, si dice spesso, il prezzo da pagare per l’eguaglianza, un prezzo troppo alto. Questa paura proviene da una concezione statica, dunque essenzialista, degli uomini e delle donne, corollario della credenza secondo la quale la gerarchia sarebbe in qualche modo sovrapposta a questa dicotomia essenziale. Ma, nella prospettiva del genere, questa paura è semplicemente incomprensibile. Se le donne fossero uguali agli uomini, gli uomini non sarebbero più eguali a se stessi. Perché allora le donne dovrebbero farsi simili agli uomini in ciò che essi avrebbero cessato di essere?". Sarebbe infatti impossibile assomigliare agli uomini in quanto dominatori e violenti dal momento in cui sono stati eliminati i pilastri stessi dell’ordine della dominazione e della sopraffazione. Una volta soppressa una della due categorie – dominatori/dominati –, è la logica stessa della dominazione, che sottende l’ordine patriarcale, a essere come tale eliminata. A questo punto si impongono alcune domande. Perché l’Italia ha storicamente prodotto in prevalenza un femminismo della differenza? Perché la nozione di differenza, in quanto effetto di rapporti di dominazione, è restata così a lungo un impensato e forse un impensabile? Perché in questa prospettiva il genere non figura se non come espressione linguistica che si fonda su una differenza di sesso pre-data e non come quell’apparato di potere che pone e stabilisce la differenza?. L’Italia sembra pagare, anche in questo caso, l’alto prezzo della presenza invadente del Vaticano e del potere della Chiesa Cattolica che limita ogni forma di pensiero critico, portatore di una visione denaturalizzata, costringendo gran parte dello stesso femminismo a una visione teologico-politica del mondo. Finisce qui almeno per il momento il mio incipit polemico. Si cercherà d’ora in poi di disegnare le diverse forme in cui si esprime la naturalizzazione dell’umano per smascherarne la portata, non solo teorica, ma soprattutto sociale e politica. Beninteso, tali forme di naturalizzazione non si riportano tutte a quel riduzionismo biologico e cognitivo che oggi si estende innegabilmente sempre più dall’ambito delle neuroscienze a quello delle scienze umane e sociali. Tra queste diverse espressioni di una lettura naturalizzata dell’umano, della sua vita corporea, sessuale e persino socio-affettiva o familire, includiamo ogni tentativo di sottrarre queste stesse sfere al divenire politico, ai mutamenti sociali e storici dell’istituzione. Si tratterà allora, ogni volta, di rovesciare le pretese di certezza avanzate da queste prospettive. Passeremo, in questo modo, attraverso la fenomenologia del corpo, ridefinita come fenomenologia dell’opacità, per indicarne lo scacco nella pretesa di pervenire a un’auto-donazione del senso. Analizzeremo, seppur in breve, il riduzionismo neuroscientifico, per denunciarne il rilancio della nozione di natura umana. Attraverseremo, quindi, la teoria freudiana della sessualità per rovesciarne la dimensione ancora biologizzante in una lettura defunzionalizzata della pulsione. Infine, cercheremo di sovvertire quel granitico monolite che è l’ordine simbolico, dietro al quale si trincerano oggi quelle posizioni conservatrici che vorrebbero frenare i cambiamenti sociali. Particolarmente quei cambiamenti che investono sempre più l’ordine sessuale che fissa i rapporti di potere tra i sessi e struttura l’ordine familiare centrato sul primato della legge fallica e paterna. Il ricorso alla naturalizzazione e all’essenzializzazione delle differenze non risponde proprio alla logica politica della dominazione, così come ci insegnano recentemente gli studi di genere e post-coloniali? Se non esiste un senso univoco, immediato e universalmente dato, se la nozione di natura umana, cara alla tradizione metafisica e reinvestita dalle attuali neuroscienze, si rivela come priva di valore, quella sfera del senso, entro la quale l’umano si muove, ci apparirà ben più incerta, senza garanzie, problematica. Essa non è infatti manifestazione di un ordine trascendente e immutabile, ma il prodotto di una creazione umana, una produzione della storia e delle istituzioni, sempre anche attraversate da rapporti di potere, da gerarchie e interessi che si tratterà di volta in volta di ritrovare. In queste pagine si avverte una duplice tensione: quella che lega la riflessione sull’istituzione storico-sociale, propria di Cornelius Castoriadis, e quella che mette in luce le logiche dei rapporti di potere, delle forme di dominazione e di esclusione elaborate dal filone foucaultiano degli studi di genere e degli studi post-coloniali. Attraverso questi molteplici riferimenti, cercheremo quindi di mettere a confronto queste due tradizioni – castoriadiana e foucaultiana – che fino ad ora sono rimaste spesso separate, ma il cui confronto ci appare essenziale per l’elaborazione di una critica sociale radicale. La nostra corporeità, così come noi ne abbiamo esperienza, non precede il processo della sua materializzazione, cioè la sua produzione attraverso la trama simbolica delle significazioni sociali e storiche, di regole e norme, pratiche ed espressioni culturali che la costituiscono e la producono come umana. In questa direzione, discuteremo l’idea di base naturale che non è da intendere come un prima rispetto alla produzione sociale: in quanto in sé inaccessibile, poiché non trasparente e immediatamente data, essa è incessantemente elaborata e persino prodotta dalle forme culturali e linguistiche, dalle pratiche discorsive e normative, cioè dalla storia. In questo senso, come afferma chiaramente la filosofa americana Judith Butler, la materia stessa del nostro corpo è storica, deposito di sedimentazioni dei discorsi e delle pratiche che di volta in volta l’hanno istituita. Più in generale, mostrare che il corpo non è subordinato a un senso primario e naturale che esso dovrebbe riprodurre fedelmente significa affermare che ogni scarto o differenza rispetto a questo «modello» supposto originario non è riconducibile a uno scacco, a una forma devalorizzata di esistenza in quanto contraria ai dettami della natura umana. Ciò cui siamo ogni volta confrontati è piuttosto una delle svariate modulazioni e possibilità non riducibili a un’identità prima, è una produzione o copia senza modello o, per dirlo con la Butler, «un’imitazione senza originale». La nozione di genere introdotta dai Gender Studies americani, ma anche dal femminismo materialista francese ci sembra a questo proposito di primaria importanza. In quanto non fondato su una presunta anteriorità ontologica e naturale del sesso, essa ci appare come l’esempio di ciò che intendiamo per denaturalizzazione. In questo senso, il genere è proprio una produzione senza originario, una categoria critica che permette di leggere i rapporti di potere istituiti come rapporti non necessari e aperti a possibili contestazioni e trasformazioni. Non si tratta di riprendere semplicemente la versione corrente della teoria della performance come se essa fosse l’espressione di un soggetto volontaristico e individualistico capace di modificare il genere a suo piacimento quasi come si indossa ogni giorno un abito diverso. Ciò che intendiamo elaborare è una nozione di performatività come avvenimento storico e temporale, dunque come atto socialmente istitutito e istituente che forgia e plasma quelle differenze che venivano prima considerate come stabili, essenziali e originarie. Benché esso agisca sul piano del linguaggio, il performativo veicola pratiche normative e rapporti di forza. In questo senso, possiamo parlare di un’esplosione del soggetto storico del femminismo, cioè del fatto che esso non può essere circoscritto a una qualche differenza femminile chiusa in se stessa, alla figura quasi ipostatizzata di un «significante Donna» inteso come una realtà in sé, appartata rispetto al problema politico posto oggi sempre più dalle altre minoranze, da tutti quei gruppi resi subalterni e discriminati in funzione di criteri di sessualità, di razzializzazione o di classe sociale. Solo considerando questa condizione denaturalizzata dell’esistenza umana e del suo essere corporeo, già fin dall’inizio implicato in un mondo di significati sociali, linguistici e culturali, possiamo comprendere il valore della creazione immaginaria. Essa non conosce strade pre-tracciate, modelli eterni e immutabili ai quali attenersi nell’impeto incessante e sempre innovatore del suo produrre. Questo è anche il senso dell’istituzione in quanto cammino sempre aperto e senza garanzie, poiché si costruisce proprio mentre lo si percorre. Se noi cerchiamo di allontanarci da ogni visione essenzialista e naturalista del corpo e dell’umano, la nostra riflessione non giunge al suo termine se la corporeità, sottratta all’ordine naturale, è poi assegnata a un ordine simbolico concepito come trascendente e metastorico. Il gesto che mira a denaturalizzare e a de-ontologizzare il corpo non può realizzarsi senza sottoporre a critica anche la sfera dei significati, l’ordine simbolico appunto, al quale il corpo denaturalizzato è riassegnato. Come risignificare allora questa sfera simbolica non più come una struttura universale e permanente ma come una realtà contingente e mutevole, aperta alle svariate possibilità di trasformazione che la storia e il movimento stesso dell’istituzione potranno imprimerle? Si tratta di dare alla politica, in quanto creazione sociale, produzione di nuove norme, deliberazione e contestazione, un ruolo di primaria importanza per definire lo statuto stesso dell’umano e della sua corporeità. La recente politicizzazione delle questioni legate alla sfera corporea, sessuale e familiare (dall’evoluzione dei rapporti socio-familiari e di genere, alle nuove forme di legame parentale e di filiazione, dall’affermazione dei diritti sessuali e (non) riproduttivi alle possibilità aperte dalla procreazione medicalmente assistita) mostra l’irruzione dirompente sulla scena pubblica di quella sfera fino a poco tempo fa considerata come privata, sfera dell’intimo indipendente e avulsa dai cambiamenti della storia e dalle sue molteplici variazioni. Anzi, proprio sul terreno di queste questioni, alle quali il panorama socio-politico italiano si affaccia ancora timidamente ma non senza controversie e sussulti, si gioca oggi la tenuta stessa della democrazia e della laicità, intese come mancanza di ogni riferimento trascendente e sovrasociale, di ogni garanzia ultima che dovrebbe guidare e orientare le decisioni collettive. Se la sfera corporea e sessuale costituiva – e costituisce ancora in parte – l’ultima frontiera di una visione naturalizzata o comunque sacralizzata dell’umano, di un ordine considerato come ontologicamente estraneo alla contingenza delle vicende politiche, oggi questa sfera diviene sempre più oggetto di dibattito, di negoziazioni e di deliberazioni collettive, diviene cioè parte di quell’orizzonte della doxa che non conosce verità stabili e predefinite. Il concetto di democrazia sessuale utilizzato dal sociologo francese Eric Fassin ci aiuterà infine a precisare le poste in gioco politiche della denaturalizzazione e di una concezione della corporeità che la sottragga alla pretesa di accedere a un senso ultimo e immediato. Come vedremo, con questo termine si intende «l’estensione del dominio democratico, con la politicizzazione crescente delle questioni di genere e di sessualità che rivelano e incoraggiano le molteplici controversie pubbliche attuali» mostrando che questi ambiti non si sottraggono alle tensioni e alle trasformazioni che attraversano la sfera sociale(dal libro di Caterina Rea, Corpi senza frontiere. Il sesso come questione politica, pubblicato dalle Edizioni Dedalo).
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sabato 25 febbraio 2012
Judith Butler / Happy Birthday Trouble
In occasione del compleanno di Judith Butler ci/vi/le facciamo un regalo ri-pubblicando il bellissimo film-documentario di Paule Zajdermann, Judith Butler, philosophe en tout genre ((qui la prima parte, in YouTube trovate le altre cinque). Sotto la tag Judith Butler invece, gli ultimi articoli pubblicati sull'autrice di Gender Trouble in Marginalia. Questo post è dedicato in particolare a chi in questo momento sta lavorando su gender&dintorni. Buona visione/lettura e festeggiamenti ;-)
sabato 10 settembre 2011
Omo/transnazionalismo, pinkwashing, glbt di destra, xenofobia : un incontro al Circolo Maurice

Omo/transnazionalismo, pinkwashing, glbt di destra, xenofobia, sono le parole-chiave intorno alle quali si discuterà la settimana prossima al Circolo Maurice di Torino (al cui sito rinviamo per più dettagliate info sull'incontro),per tentare insieme di individuare nuove forme di agire politico e di contrasto all'avanzare,anche nelle comunità lgbtq, di culture e pratiche di destra.
Alcuni link / materiali utili alla discussione:
http://www.facciamobreccia.org/content/view/503/1/
http://nohomonationalism.blogspot.com/
http://marginaliavincenzaperilli.blogspot.com/search/label/omonazionalismo
http://www.infoaut.org/blog/femminismoagenders/item/1683-pinkwashing-assad
http://www.ondarossa.info/category/tags/omonazionalismo
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