Riprendo da Il Manifesto del 19 novembre un articolo di Manlio Dinucci, Al via la nuova missione in Libia . Buona lettura // Dopo aver demolito lo stato libico con 10mila attacchi aerei e forze speciali infiltrate, Stati uniti, Italia, Francia e Gran Bretagna dichiarano la propria «preoccupazione per l’instabilità in Libia». La Farnesina informa che a Tripoli sono in corso violenti scontri tra milizie anche con armi pesanti e che sono stati danneggiati numerosi edifici, per cui la sicurezza non è garantita nemmeno nei grandi hotel della capitale. Non solo per gli stranieri, ma anche per i membri del governo: dopo il rapimento un mese fa del primo ministro Ali Zeidan dalla sua residenza in un hotel di lusso, domenica è stato rapito all’aeroporto il vicecapo dei servizi segreti Mustafa Noah. E mentre nella capitale miliziani di Misurata sparano su cittadini disarmati esasperati dalle violenze, a Bengasi prosegue senza soluzione di continuità la serie di omicidi di matrice politica.
Che fare? Il presidente Obama ha chiesto al premier Letta di «dare una mano in Libia» e questi ha subito accettato. La sua affidabilità è fuori discussione: nel 2011 Enrico Letta, allora vicesegretario del Pd, è stato uno dei più accesi sostenitori della guerra Usa/Nato contro la Libia. Sarà ricordata sui libri di storia la sua celebre frase: «Guerrafondaio è chi è contro l'intervento internazionale in Libia e non certo noi che siamo costruttori di pace». Ora, mentre la Libia sprofonda nel caos provocato dai «costruttori di pace», è arrivato il momento di agire. L’ammiraglio William H. McRaven, capo del Comando Usa per le operazioni speciali, ha appena annunciato che sta per essere varata una nuova missione: addestrare e armare una forza libica di 5-7mila soldati e «una unità più piccola, separata, per missioni specializzate di controterrorismo». Specialisti del Pentagono e della Nato sono già in Libia per scegliere gli uomini. Ma, data la situazione interna, questi verranno addestrati fuori dal paese, quasi certamente in Italia (in particolare in Sicilia e Sardegna) e forse anche in Bulgaria, secondo un programma agli ordini del Comando Africa del Pentagono. L’ammiraglio McRaven non nasconde che «vi sono dei rischi: una parte dei partecipanti all’addestramento può non avere la fedina pulita». È molto probabile quindi che tra di loro vi siano criminali comuni o miliziani che hanno torturato e massacrato (elementi che, una volta in Italia, potranno circolare liberamente). E tra quelli addestrati in Italia vi saranno anche i guardiani dei lager libici in cui vengono rinchiusi i migranti. Per il loro addestramento e mantenimento non basteranno i fondi già stanziati per la Libia nel decreto missioni all’esame del parlamento: ne occorreranno altri molto più consistenti, sempre attinti dalle casse pubbliche. L’Italia contribuirà in tal modo alla formazione di truppe che, essendo di fatto agli ordini dei comandi Usa/Nato, saranno solo nominalmente libiche: in realtà avranno il ruolo che avevano un tempo le truppe indigene coloniali. Scopo della missione non è quello di stabilizzare la Libia perché torni ad essere una nazione indipendente, ma quello di controllare la Libia, di fatto già balcanizzata, le sue preziose risorse energetiche, il suo territorio strategicamente importante. Ci permettiamo di dare un consiglio al governo Letta: l’Expo galleggiante della Cavour, rientrando nel Mediterraneo ad aprile dopo il periplo dell’Africa, potrebbe fare tappa anche in Libia per pubblicizzare i prodotti del Made in Italy. Come il cannone a fuoco rapido Vulcano della Oto Melara che, in mano ai libici che oggi mitragliano i barconi dei migranti, potrebbe risolvere il problema dell’emigrazione clandestina // Qualche articolo correlato in Marginalia: Tripoli bel suol d'amore. La guerra in Libia e il centenario dell'invasione italiana, Muammar Gheddafi, Silvio Berlusconi e l'italietta postcoloniale, Colonialismo italiano in Libia: dal "leone del deserto" al "colonnello".
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giovedì 21 novembre 2013
sabato 15 giugno 2013
Razzismo, sessismo e arte / Portrait d'une négresse
Scambio notturno di mail con Rosa (che ringrazio per la segnalazione) a proposito di Portrait d'une négresse, della pittrice francese Marie-Guilhelmine Leroux-Delaville presentato al Salon del 1800 e oggi conservato al Musée du Louvres. Secondo alcune letture critiche con questo ritratto l'artista mette in discussione le imbricazioni di sesso, razza e classe vigenti all'epoca in Francia, quando forti sono le resistenze al decreto sull'abolizione dello schiavismo da parte della Convenzione nel 1894. Per altre/i il quadro di Marie-Guilhelmine Leroux-Delaville è comunque frutto dello sguardo di una donna-artista bianca ancora impregnato di un immaginario coloniale. Di questo quadro si torna a parlare lo scorso anno, quando sul supplemento del quotidiano spagnolo El Mundo viene pubblicato un fotomontaggio dell'artista statunitense Karine Percheron-Daniels, dove al posto del volto della "négresse" di Marie-Guilhelmine Leroux-Delaville vi è quello di Michelle Obama. A questo proposito Yves Ekoué Amaïzo scrive: Karine Percheron-Daniels devrait ouvrir un Zoo humain comme au 19e et début du 20e siècle avec ses œuvres de bas niveau (tableaux et images) comme l’avaient fait ses ancêtres racistes avec les « Vénus hottentotes ». Elle devrait montrer la nudité des ancêtres de la reine Elizabeth ou du roi d’Espagne à côté des massacres coloniaux dont ils portent la responsabilité et qui semblent lui avoir échappé. La femme noire esclave ne l’aurait jamais été si les ancêtres de cette peintre sans culture n’avaient pas eu des ancêtres esclavagistes qu’elle tente maladroitement de justifier, réhabilitant, voire promouvant ainsi, l’esclavage des temps modernes. L’ambigüité de ce tableau relève moins de la demi-nudité de Michelle Obama que de la capacité de cette artiste faussement non-raciste à réveiller la nostalgie de la bonne vieille époque de l’esclavage où la femme noire servait de variable d’ajustement pour les défaillances des femmes blanches auprès de leur mari esclavagiste.
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mercoledì 3 aprile 2013
Angela Davis / Un simbolo da distruggere
In occasione dell'uscita del film di Shola Lynch, Free Angela & All Political Prisoners, è stata pubblicata da L' Express un'interessante intervista ad Angela Davis, J'étais devenue un symbole à détruire. Ho cominciato a tradurla, ma poiché la cosa rischia di andare un po' per le lunghe (il tempo a disposizione per Marginalia si restringe sempre più), intanto la segnalo per le/i francofone/i: potete leggerla qui
mercoledì 7 novembre 2012
Obama e le magliette con Malcom X
Sostanzialmente pensiamo ancora quanto scrivevamo il 5 novembre del 2008, il giorno che Barack Hussein Obama divenne il quarantaquattresimo presidente a stelle e strisce e questi anni hanno confermato - a partire dalla mancata chiusura di Guantanamo - che non c'erano troppe illusioni da farsi, come lucidamente ha ricordato recentemente anche Angela Davis. Resta il fatto che sono contenta, anche se probabilmente lo sono più della sconfitta di Romney - integralista, anti-immigrazione, anti-femminista, omofobo ...- che della vittoria di Obama. Per non parlare degli accoliti di Romney, alcuni dei quali durante questi mesi di campagna elettorale, hanno esibito magliette con frasi del tipo "Put the White back in the White House". E noi, se dobbiamo proprio scegliere, preferiamo indubbiamente le magliette con Malcom X.
giovedì 11 ottobre 2012
Le ambiguità del lavoro
Il documento preparatorio e il programma completo del convegno sul sito dell'Archivio delle Donne in Piemonte
venerdì 5 ottobre 2012
Ahmed Shawki / Black and Red. Les mouvements noirs et la gauche americaine 1850-2010
Black Liberation and Socialism di Ahmed Shawki è un altro di quei libri che avrei voluto leggere e non ho mai trovato il tempo di farlo. Nell'attesa (che sarà lunga per svariati motivi) leggo (e vi segnalo) la prefazione alla recente edizione francese del volume, edita da Syllepse, Black and Red. Les mouvements noirs et la gauche americaine 1850-2010, pubblicata da Entre les lignes entre les mots, sempre ricco di notizie
sabato 19 novembre 2011
Angela Davis a Occupy Philadelphia
Il Mfla ha mandato in onda (con traduzione) l'audio dell'intervento di Angela Davis a Occupy Philadelphia. Il video lo trovate invece su YouTube. Su Connessioni, infine, un intervento critico dell'attivista americano Joel Olson, del gruppo bring the ruckus, rete di attivisti impegnata nello sviluppo del movimento nato il 17 settembre con Occupy Wall Street a New York e che poi si è esteso rapidamente in altre città statunitensi, movimento detto anche del 99% dallo slogan "Noi siamo il 99%", ovvero (semplificando) noi siamo il 99% della società che lavora non l'1% dei superricchi che godono i frutti di questo lavoro.
venerdì 10 settembre 2010
Roghi made in Usa
Infine il pastore cristiano Terry Jones - che aveva annunciato un Burn a Koran Day per l'11 settembre e lanciato un ultimatum per lo spostamento della moschea lontano da Ground Zero - ha fatto marcia indietro. Sembra sia stato decisivo il discorso di Barack Obama in cui l'annunciato rogo del Corano è definito un "regalo per Al Qaida ... che metterebbe a repentaglio le truppe americane in Iraq e Afghanistan". Il reverendo deve essere stato colpito al cuore dalla retorica patriottica del presidente, indubbiamente più efficace della condanna della Cei (che ha fatto ricorso all'abusato paragone con il nazifascismo: "come i nazisti con il Talmud"). Intanto in Afghanistan si scopre che nelle truppe americane era attivo un kill team - capeggiato da un certo Calvin Gibbs che si vantava di averla fatta franca in Iraq dove aveva fatto qualcosa di simile-, gruppo che si dilettava ad uccidere civili a casaccio, per puro divertimento collezionando come trofei foto con i cadaveri e/o dita delle vittime ...
venerdì 10 luglio 2009
Michelle Obama, Alemanno e Isabella Rauti: liaisons dangereuses al G8
Dopo aver parlato poco (e senza grossi sensi di colpa) di Berlusconi, escort e veline (e per niente di Veronica Lario e dei suoi sfoghi di povera moglie offesa) non ho neanche firmato l'appello, circolato recentemente, con il quale un gruppo di donne invitava le cosiddette first ladies a disertare il G8 a L'Aquila, denunciando le "vicende relazionali del premier, che trascendono la sfera personale e assumono un significato pubblico" e soprattutto "le modalità di reclutamento del personale politico" e i "comportamenti e discorsi sessisti che delegittimano con perversa e ilare sistematicità la presenza femminile sulla scena sociale e istituzionale. Questi comportamenti, gravi sul piano morale, civile, culturale, minano la dignità delle donne e incidono negativamente sui percorsi di autonomia e affermazione femminili" . Rilevo en passant che, questa volta, tra le first ladies c'era anche un first husband ovvero il consorte della cancelliera tedesca Angela Merkel (ma nessun* sembra essersene accorto, e qui la pretesa diagnosi di genere resta indietro rispetto alla realtà), ma non è questo adesso il punto. Nè voglio stare a farla lunga sull'aberrazione di rivolgersi alle mogli dei capi di stato invitati al G8 sperando in una improbabile unità di genere in nome del sessimo. Con sguardo obliquo mi soffermo invece su una piccola notiziola che rischia di passare pressoché inosservata e non meditata. Eppure una delle poche che segnalano, seppur indirettamente, come certe vicende italiane siano state recepite dalle first lady. Mi riferisco all'incontro tra la consorte del presidente degli Stati Uniti Barack Obama, Michelle, con i coniugi Alemanno durante le sue vacanze romane a margine del G8 (che, come tutte le altre, non ha boicottato). Sembra che la first lady statunitense abbia ammonito il sindaco di Roma a comportarsi bene con la moglie (tra parentesi: è Isabella Rauti, passata da pochi anni dalla Fiamma Tricolore del padre Pino Rauti all'Alleanza Nazionale del marito). E così al posto dell'agognata rivolta delle first lady ci è stato servito uno scialbo precetto di bon ton familiare.
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domenica 25 gennaio 2009
Per non tornare alle Crociate

Questi migranti in rivolta non hanno bisogno di parlare di lager, chiamano le cose con il loro nome, semplicemente. Sanno che questo basta (dovrebbe bastare) a descrivere l'inferno in cui sono costretti a vivere (talvolta per mesi), le terribili condizioni di vita, il sovraffollamento, i servizi igienici orribili, con la puzza che arriva fino alle camerate impedendo di respirare, gli abusi continui, l'impossibilità - anche momentanea -, di uscire dal perimetro del centro (checché ne dica Berlusconi), i tanti episodi di "ordinario" razzismo. Abusi già denunciati dal giornalista Fabrizio Gatti (che, fingendosi "clandestino", riuscì a vivere per una settimana nel Cpa), alcuni dei quali (imposizione a migranti di fare il saluto militare, uso manette di plastica) immortalati nel video di Mauro Parissone, nei giorni del vergognoso (e negato) maquillage del centro in vista di una ispezione Ue nell'ottobre 2005.
Con "Basta Gunatanamo, basta spaghetti", i migranti detenuti illegalmente a Lampedusa sanno di cosa parlano, e sanno anche cosa chiedono. Chiedono la chiusura di centri di detenzione illegale (perché questo sono) come Lampedusa e Guantanamo, e lo chiedono in un paese dove sembra che le uniche chiusure legittime o tollerabili siano quelle dei centri religiosi, chiusure invocate a gran voce dalla destra razzista e xenofoba per alimentare il fantasma della guerra di religione e dello scontro di civiltà (mi riferisco alle moschee ovviamente, non al Vaticano, alle sedi dei vari movimenti per la vita e alle super finanziate scuole cattoliche ...) come anche dei centri antiviolenza (dove la chiusura non è apertamente invocata ma resa probabile dai continui tagli ai finanziamenti) o di quei centri di aggregazione, diffusione e trasmissione di cultura "altra", come dimostra il recente sgombero di Conchetta a Milano (e su Conchetta rinvio alla bella testimonianza di Giovanni Cesareo e al comunicato Conchetta, la nostra storia, la nostra libertà dell'associazione Storie in movimento e di Zapruder. Rivista di storia della conflittualità sociale).
Mentre il capo del nostro governo minimizza la rivolta di Lampedusa (affermando che "E' tutto sotto controllo. Mica il centro è un lager. Possono uscire, vanno a prendere una birra in paese come tutti i giorni"), il nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Hussein Obama, annuncia la volontà di chiudere Guantanamo, dando un po' di speranza nel cambiamento in quant*, pur sapendo quello che Obama non potrà essere (non potrà e non riuscirà a cambiare tutto e subito, nè a Guantanamo, nè in Iraq, nè in Medio Oriente, nè nel suo stesso paese), si sono sentiti parte di quell'esplosione di gioia che, all'annuncio della vittoria su Bush, portò in strada milioni di persone, soprattutto nei (cosiddetti) ghetti abitati da latinos, neri, asiatici e altre "minoranze" in tutti gli Stati Uniti, nei sobborghi di Londra e altre metropoli, nelle banlieues parigine, nelle favelas e nelle baraccopoli africane.
E' necessario sostenere questa volontà di chiudere Guantanamo (una petizione giace, già da qualche annetto, nella rubrica Urgenze nel blogroll qui di fianco: se non l'avete ancora firmata, fatelo! ... e fate circolare!), chiedere la chiusura dei vari centri di "accoglienza" e "permanenza" molto poco temporanei sparsi per l'Italia, chiedere la liberazione di coloro che sono detenuti illegalmente nelle "prigioni speciali" generate dalla "lotta al terrorismo" come, ad esempio, Abou Elkassim Britel, sostenere le lotte dei/delle migranti e tutte le forme di resistenza dignitosa, come quella del giornalista dell'emittente Al-Baghdadia, Muntadar al Zaidi, (o Muntaẓar al-Zayidī, è difficile non perdersi nei meandri delle traslitterazioni, comunque in arabo dovrebbe essere منتظر الزيدي ) che a metà dicembre a Baghdad durante una conferenza stampa congiunta del premier iracheno Nuri al Maliki e del presidente (oramai ex) statunitense George Bush, lanciò le scarpe contro quest'ultimo (qui il video per chi ancora non lo avesse visto).
Ma resistere è rischioso, per alcun* più di altr*. Non conosciamo ancora le conseguenze che ci saranno per i migranti che hanno protestato a Lampedusa, confuse sono anche le notizie su Muntadar al Zaidi (sappiamo di certo che rischia fino a 15 anni di carcere e che il processo che doveva tenersi il 31 dicembre è stato rinviato) e poco si riesce a sapere delle condizioni di vita dei/delle migranti detenuti illegalmente, dei rimpatri forzati, della sorte che attende centinaia di queste persone una volta rinviati "nei paesi di partenza" ...
Sostenere queste lotte significa anche non cadere nelle trappole costituite, qui in Occidente, dai discorsi che fomentano l'idea di uno "scontro di civiltà", e di una "guerra di religione", trappole che servono (tra l'altro) a distogliere lo sguardo dei/delle più dai problemi reali e urgenti, ma che servono anche, all'occorrenza, ad incriminare singoli individui come dimostra la vicenda di Rafia, compagno da sempre impegnato nella lotta per i diritti dei/delle migrant*, attivista dell'associazione Sotto i ponti e del Coordinamento migranti di Bologna, indagato dalla procura per la preghiera islamica in piazza Maggiore a conclusione della manifestazione per Gaza del 3 gennaio scorso.
Rafia non è un "fondamentalista", e questa vicenda è solo l'ennesimo tentativo di criminalizzare e togliere agibilità politica a quant* si sono mobilitati in questi anni per la chiusura dei centri di accoglienza e permanenza "temporanea", contro la legge Bossi-Fini, contro il pacchetto sicurezza, contro l'uso in termini razzisti e securitari della violenza sulle donne, per la libertà di tutti e tutte.
E non posso, anche (o forse soprattutto) come laica, non riconoscermi nello striscione portato ieri da un gruppo di donne migranti alla manifestazione regionale per Gaza a Bologna: "Se pregare è un reato in che democrazia siamo?"
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Ma resistere è rischioso, per alcun* più di altr*. Non conosciamo ancora le conseguenze che ci saranno per i migranti che hanno protestato a Lampedusa, confuse sono anche le notizie su Muntadar al Zaidi (sappiamo di certo che rischia fino a 15 anni di carcere e che il processo che doveva tenersi il 31 dicembre è stato rinviato) e poco si riesce a sapere delle condizioni di vita dei/delle migranti detenuti illegalmente, dei rimpatri forzati, della sorte che attende centinaia di queste persone una volta rinviati "nei paesi di partenza" ...
Sostenere queste lotte significa anche non cadere nelle trappole costituite, qui in Occidente, dai discorsi che fomentano l'idea di uno "scontro di civiltà", e di una "guerra di religione", trappole che servono (tra l'altro) a distogliere lo sguardo dei/delle più dai problemi reali e urgenti, ma che servono anche, all'occorrenza, ad incriminare singoli individui come dimostra la vicenda di Rafia, compagno da sempre impegnato nella lotta per i diritti dei/delle migrant*, attivista dell'associazione Sotto i ponti e del Coordinamento migranti di Bologna, indagato dalla procura per la preghiera islamica in piazza Maggiore a conclusione della manifestazione per Gaza del 3 gennaio scorso.
Rafia non è un "fondamentalista", e questa vicenda è solo l'ennesimo tentativo di criminalizzare e togliere agibilità politica a quant* si sono mobilitati in questi anni per la chiusura dei centri di accoglienza e permanenza "temporanea", contro la legge Bossi-Fini, contro il pacchetto sicurezza, contro l'uso in termini razzisti e securitari della violenza sulle donne, per la libertà di tutti e tutte.
E non posso, anche (o forse soprattutto) come laica, non riconoscermi nello striscione portato ieri da un gruppo di donne migranti alla manifestazione regionale per Gaza a Bologna: "Se pregare è un reato in che democrazia siamo?"
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Per l'immagine, vabbè lo so, è un'altra versione della stessa bellissima donna che ho usato innumerevoli altre volte, l'ultima poco tempo fa (a proposito: il messaggio è sempre valido), direte che sono monotona o forse monogama, ma cosa volete farci io l'adoro ...
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martedì 11 novembre 2008
Effetto Black Power

Beh, speriamo che l'effetto Obama non si riduca a questo ... E soprattutto non ci faccia dimenticare, da questa parte dell'oceano, il razzismo contro migranti e rom che passa in questi giorni nelle aule parlamentari con la discussione sul disegno di legge 733 sulla "sicurezza"...
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Rinvio a Obama: dal Black Power alla Black House e all'articolo che lì citavo di Lalla Fatma M'semer scritto prima dello scatenarsi del dibattito mediatico tra entusiast* e scettic*. Notevole, ma tutto da discutere, l'articolo di Judith Butler Ma non è la redenzione , pubblicato su Il Manifesto ma che io ho letto in Materiali Resistenti. Mentre sulla splendida Michelle Robinson in Obama, astronauta mancata, rinvio alla Nuova Towanda che quando non c'è manca ...
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mercoledì 5 novembre 2008
Obama: dal Black Power alla Black House

In realtà sono state già dette, si dicono e si diranno un sacco di altre cose. Personalmente penso che la White House resterà (più o meno) la stessa White House, e sarebbe rimasta tale anche con una riverniciata Pink, soprattutto se di una ex-first lady ... Nonostante la rottura simbolica che questa vittoria (definita epocale) rappresenta , so (sappiamo) che, tanto per cominciare, non finirà la politica imperialista statunitense. E non finiranno nè cambieranno un mucchio di altre cose. Ma non posso nè ignorare nè sentirmi distante dai festeggiamenti che in queste ore si stanno svolgendo in tutto il globo, soprattutto nei (cosiddetti) ghetti abitati da latinos, neri, asiatici e altre "minoranze" in tutti gli Stati Uniti, nei sobborghi di Londra e altre metropoli, nelle banlieues parigine, nelle favelas e nelle baraccopoli africane ...
So (sappiamo) chi è Obama e soprattutto cosa non potrà essere. Sappiamo che la "sua" vittoria, non è la vittoria tardiva delle Black Panther e neanche del Black Power ma dell'establishment americano e del suo potere. Eppure ... come spiegarsi questo eppure ... Non basta a spiegarlo solo il godimento di sapere quanto questa vittoria dispiaccia comunque a un sacco di gente, come ad esempio ai gruppi per il nazionalismo e la supremazia bianca che stanno spuntando come funghi in tutti gli Stati Uniti...
Ma non basta. Non basta a spiegare perché. Perché nonostante sappiamo, noi ( individu* per un motivo o per l'altro "ai margini", "fuori della norma", individu* razzializzati ) percepiamo questa vittoria come anche nostra. Mi chiedo ancora perché?
La risposta non può che essere quella, dolorosa, di Lalla Fatma M'semer, così lucidamente espressa nell'articolo scritto per il n° 13 de L'Indigène de la République, che si chiude con una frase di Angela Davis.
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L'immagine l'ho presa dal sito Afroitaliani/e, a sua volta ripresa da qui, una risposta allo slogan razzista Keep the White House White ...
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