Inizio lavori 9.30-13.30
Introduce Carlotta Sorba direttrice del Centro di Storia Culturale
Gaia Giuliani e Annalisa Frisina introducono InteRGRace
- Sessione mattutina: 10.00-13.00
Presiede:
Annalisa Oboe (Postcolonialitalia, Università di Padova)
Keynote:
Silvana Patriarca
Fordham University, NY
Continuità storiche e assenze storiografiche: sul razzismo antinero nell’Italia del dopoguerra
Intervengono:
Gaia Giuliani
Università di Bologna
Mappare le costruzioni del corpo nei loro percorsi transnazionali
Gabriele Proglio
Istituto Universitario Europeo, Firenze
Luoghi coloniali e corpi italiani: l’oltremare come occasione per ripensare l’italianità
Vincenza Perilli
InteRGrace
Dalle madame alle segnorine. Corpi genderizzati e razzizzati tra colonia e postcolonia
Tatiana Petrovich Njegosh
Università di Macerata
Meticciato/miscegenation: corpo, razza e nazione tra Italia e Stati Uniti
Devi Sacchetto
Università di Padova
La linea del colore nei processi lavorativi
Discussant:
Silvana Patriarca e Annalisa Oboe
Dibattito
- Sessione pomeridiana: 15.00-18.30
Presiede:
Gaia Giuliani
Keynote:
Cristina Demaria
Università di Bologna
Per una lettura semiotica del corpo: prospettive intersezionali
Intervengono:
Annalisa Frisina
Università di Padova
Corpi razzializzati, corpi resistenti. Sulla controvisualità delle figlie delle migrazioni in Italia
Elisa Arfini
Università di Bologna
Sexing disability. Soggettivazione sessuata e altre morfologie incorporate
Daniele Salerno
Università di Bologna
Migrazioni per mare. Corporeità, sicurezza, lavoro del lutto
Sabrina Marchetti
Istituto Universitario Europeo, Firenze
Corpi al lavoro, fra genere, razza e classe
Discussants:
Cristina Demaria – Università di Bologna
Alessandro Mongili – Università di Padova
Dibattito
Visualizzazione post con etichetta migranti. Mostra tutti i post
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domenica 7 dicembre 2014
sabato 11 ottobre 2014
Mos maiorum. Mega-retata europea contro i migranti
Dal blog di Annamaria Rivera una versione ampliata del suo articolo sull'operazione europea Mos Maiorum pubblicato originariamente da Il Manifesto. Prima di lasciarvi alla lettura dell'articolo vi segnalo che sul sito del Coordinamento migranti è possibile scaricare e stampare un utile foglio informativo multilingue. Buona lettura e diffusione // L’hanno chiamata Mos Maiorum, la grande retata europea contro i migranti che scatterà il 13 ottobre per concludersi il 26. Infelice già nel nome che allude, con gusto della romanità di tipo mussoliniano, ai “costumi degli antenati”, cioè al sistema etico-normativo tradizionale che nella Roma patriarcale e pre-civica aveva al centro, tra gli altri valori e principi, la valentia militare. La spruzzata di romanità da incolti pretenziosi – o piuttosto un lapsus che ne rivela il subconscio razzista e imperialista – non riesce a occultare il vero scopo dell’operazione: fermare, controllare, identificare, schedare migranti irregolari e potenziali richiedenti-asilo, intercettati sul territorio europeo sulla base della presunzione della loro colpevolezza. Promossa dal governo italiano nel contesto del semestre di presidenza europea, approvata, il 10 luglio scorso, dal Consiglio dei ministri dell’Interno e della Giustizia, la mega-retata sarà coordinata dalla Direzione centrale per l’immigrazione e dalla Polizia di frontiera del ministero dell’Interno italiano, in collaborazione con Frontex ed Eurosur. Il principale scopo dichiarato di questa operazione transnazionale, ma che avrà l’Italia come teatro operativo principale, è stroncare le reti che trafficano in “clandestini”. In realtà, come abbiamo ribadito più volte, a creare gli irregolari e quindi il traffico di tale merce umana sono il proibizionismo europeo, l’assenza di canali d’ingresso legali e il Regolamento Dublino III. Quest’ultimo, impedendo i movimenti interni all’UE dei richiedenti-asilo, conferendo agli Stati, invece che alle persone, la facoltà di decidere dove chiedere protezione, prevedendo perfino che essi possano essere trattenuti se c’è “pericolo di fuga”, li induce ad affidarsi a reti illegali pur di raggiungere le mete desiderate.Come è ammesso esplicitamente nel documento ufficiale del Consiglio dell’UE, datato 10 luglio 2014, servirà anche a schedare i migranti e a “raccogliere informazioni rilevanti per scopi investigativi e d’intelligence”. Insomma, le vere finalità sono terrorizzare e criminalizzare migranti e potenziali richiedenti-asilo, soprattutto ripulire il territorio europeo, quello italiano in specie, da un buon numero di indesiderabili. Questa mega-retata non è una novità assoluta. Infatti, tra il 15 e il 23 settembre scorsi si era svolta l’operazione Archimedes (ancora il gusto della classicità!), vasta operazione di polizia, coordinata da Europol, contro il crimine organizzato transnazionale. Nell’ambito di questa operazione, l’Italia, con la collaborazione di Frontex, si era occupata, tra l’altro, d’immigrazione irregolare, identificando e schedando ben diecimila migranti in tutta Europa. Perlopiù persone ree di null’altro se non di sfuggire a miseria e altre calamità, in buona parte provocate dai rapporti di sfruttamento neocoloniale che le potenze occidentali impongono ai paesi del Sud o comunque non egemoni.Ciò che rende ancor più infame Mos Maiorum– non evoca forse le retate di massa, di triste memoria, contro altri indesiderabili?– è che si accompagni con l’annunciata fine di Mare Nostrum. Ancora un’operazione dal nome classicheggiante, ma che almeno, pur con delle ambiguità, ha sottratto più di centoventimila vite umane all’immenso cimitero marino che è divenuto il Mediterraneo. Dopo le lacrime di coccodrillo di Schultz e Mogherini a Lampedusa, nel corso della commemorazione della strage del 3 ottobre 2013, di nuovo coloro che sono costretti a fuggire da realtà funeste, prodotte o incrementate dagli apprendisti stregoni occidentali, tornano a essere nemici o, appunto, indesiderabili. E’ da molti giorni che le associazioni e le reti che difendono i diritti dei migranti lanciano l’allarme sulla Grande Retata e mettono in guardia i migranti e i profughi a rischio. Recente è, invece, la presa di posizione del Gue-Ngl, il raggruppamento di sinistra del Parlamento europeo. Sollecitato da Barbara Spinelli, il gruppo, con l’appoggio dei Verdi, ha denunciato il carattere discriminatorio dell’operazione in una lettera aperta al Consiglio dei ministri della Giustizia e degli Affari Interni. Nella lettera si rivendica, fra l’altro: il sostegno a Mare Nostrum; la creazione di corridoi umanitari; la garanzia della pienezza del diritto di asilo e di altri diritti fondamentali; la possibilità che i rifugiati raggiungano paesi europei diversi dal primo paese d’arrivo; la fine di ogni forma di detenzione dei migranti in quanto tali. Nel contempo, il Gue-Ngl si appresta a presentare una “richiesta di dichiarazione” del Consiglio durante la prossima plenaria del Parlamento europeo. Tutto ciò potrebbe sembrare banale routine politica. Eppure oggi, quando stragi e retate di migranti si consumano spesso nel silenzio e nell’indifferenza dei più, non è cosa da poco che nel Parlamento europeo vi sia qualche sussulto di opposizione alla Fortezza Europa (Annamaria Rivera, 11 ottobre 2014) // L'immagine che illustra questo post è un fin troppo eloquente graffito di Bansky, rimosso qualche giorno fa perché giudicato "offensivo e razzista". Ma è chiaro che "Banksy has not been banned from Clacton-on-Sea because he is a racist. He has been suppressed because he exposed the truth (Jonathan Jones, The Guardian)
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mercoledì 1 ottobre 2014
Orizzonti migranti / Donne e guerra
All'interno della terza edizione del festival Orizzonti che, nei 100 anni dalla Grande Guerra e nei 70 anni dalla Resistenza vuole stimolare una serie di riflessioni sulle guerre di quest'ultimo secolo e sulle forme di resistenza che ogni conflitto porta con sé, questa sera, alle ore 20.30, presso il Centro Documentazione delle Donne (via del Piombo 5 - Bologna) incontro sul tema Donne e guerra. Stupro come arma di guerra / Cina Giappone Bosnia Congo. Intervengono Maria Clara Donato (storica), Maria Chiara Risoldi e Patrizia Brunori (psicoterapeute), Vincenza Perilli (InteRGRace). A seguire reading teatrale di Judith Moleko (Cantieri Meticci).
mercoledì 17 settembre 2014
venerdì 30 maggio 2014
Movimenti nel Mediterraneo
Con molta gioia annuncio l'uscita del 33esimo numero di Zapruder, a cura di Andrea Brazzoduro e Liliana Ellena, Movimenti nel Mediterraneo. Relazioni, scambi, conflitti. Di seguito trovate indice , mentre sul sito di Sim tutte le info per sostenere questo progetto che,val la pena ricordarlo, è frutto del lavoro di un gran numero di persone, interamente autofinanziato e dal quale nessun@ trae alcun profitto se non quello dell'esistenza di uno spazio di espressione autonoma. Buona lettura // EDITORIALE: Andrea Brazzoduro e Liliana Ellena, Rovesciare la carta. Giochi di scale / ZOOM: Ilham Khuri-Makdisi, Migranti, lavoratori, anarchici. La costruzione della sinistra in Egitto, 1870-1914 / Emmanuel Blanchard, Massacro coloniale alla Nazione. Parigi, 14 luglio 1953 / Natalya Vince, «È la Rivoluzione che le proteggerà». Movimenti delle donne e “questione femminile” in Algeria e Tunisia / IMMAGINI: Giacomo Mirancola, Il Mediterraneo dalla soglia siciliana (a cura di Ilaria La Fata) / Patrick Altes, Una storia di rivoluzioni / SCHEGGE: Stéphane Dufoix, Diaspora. Metamorfosi di una parola globale / Vanessa Maher, «New Times and Ethiopians News». L’antifascismo e l’anticolonialismo di Sylvia Pankhurst e Silvio Corio / Renata Pepicelli, Le donne nei media arabi a due anni dalle rivolte. Pluralità di modelli e molteplicità di sfere pubbliche / Nicoletta Poidimani, Ius sanguinis. Una sintesi di dominio maschile e dominio razziale / LUOGHI / Enrico Grammaroli e Omerita Ranalli, Il Circolo Gianni Bosio di Roma / ALTRE NARRAZIONI: Davide Oberto, L’immagine latente. Rappresentazione e memoria nel lavoro di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige / Jolanda Insana , Giufà chi? / VOCI: Elisa A.G. Arfini, Paola Di Cori e Cristian Lo Iacono, Dialogo su questi strani tempi (a cura di Marco Pustianaz) / INTERVENTI : Vincenza Perilli, Desiring Arabs. L’occidente, gli arabi, l’omosessualità / Lia Viola, Utopie in movimento. Riflessioni sull’attivismo lgbti in Africa orientale / RECENSIONI: Fabrizio Billi (Margherita Becchetti, L’utopia della concretezza. Vita di Giovanni Faraboli, socialista e cooperatore), Salvatore Cingari (Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, Altri dovrebbero aver paura. Lettere e testimonianze inedite), Vincenza Perilli (Anna Curcio e Miguel Mellino, a cura di, La razza al lavoro) Renate Siebert (Quinn Slobodian, Foreign Front. Third World Politics in Sixties)
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giovedì 21 novembre 2013
La Libia e i «costruttori di pace»
Riprendo da Il Manifesto del 19 novembre un articolo di Manlio Dinucci, Al via la nuova missione in Libia . Buona lettura // Dopo aver demolito lo stato libico con 10mila attacchi aerei e forze speciali infiltrate, Stati uniti, Italia, Francia e Gran Bretagna dichiarano la propria «preoccupazione per l’instabilità in Libia». La Farnesina informa che a Tripoli sono in corso violenti scontri tra milizie anche con armi pesanti e che sono stati danneggiati numerosi edifici, per cui la sicurezza non è garantita nemmeno nei grandi hotel della capitale. Non solo per gli stranieri, ma anche per i membri del governo: dopo il rapimento un mese fa del primo ministro Ali Zeidan dalla sua residenza in un hotel di lusso, domenica è stato rapito all’aeroporto il vicecapo dei servizi segreti Mustafa Noah. E mentre nella capitale miliziani di Misurata sparano su cittadini disarmati esasperati dalle violenze, a Bengasi prosegue senza soluzione di continuità la serie di omicidi di matrice politica.
Che fare? Il presidente Obama ha chiesto al premier Letta di «dare una mano in Libia» e questi ha subito accettato. La sua affidabilità è fuori discussione: nel 2011 Enrico Letta, allora vicesegretario del Pd, è stato uno dei più accesi sostenitori della guerra Usa/Nato contro la Libia. Sarà ricordata sui libri di storia la sua celebre frase: «Guerrafondaio è chi è contro l'intervento internazionale in Libia e non certo noi che siamo costruttori di pace». Ora, mentre la Libia sprofonda nel caos provocato dai «costruttori di pace», è arrivato il momento di agire. L’ammiraglio William H. McRaven, capo del Comando Usa per le operazioni speciali, ha appena annunciato che sta per essere varata una nuova missione: addestrare e armare una forza libica di 5-7mila soldati e «una unità più piccola, separata, per missioni specializzate di controterrorismo». Specialisti del Pentagono e della Nato sono già in Libia per scegliere gli uomini. Ma, data la situazione interna, questi verranno addestrati fuori dal paese, quasi certamente in Italia (in particolare in Sicilia e Sardegna) e forse anche in Bulgaria, secondo un programma agli ordini del Comando Africa del Pentagono. L’ammiraglio McRaven non nasconde che «vi sono dei rischi: una parte dei partecipanti all’addestramento può non avere la fedina pulita». È molto probabile quindi che tra di loro vi siano criminali comuni o miliziani che hanno torturato e massacrato (elementi che, una volta in Italia, potranno circolare liberamente). E tra quelli addestrati in Italia vi saranno anche i guardiani dei lager libici in cui vengono rinchiusi i migranti. Per il loro addestramento e mantenimento non basteranno i fondi già stanziati per la Libia nel decreto missioni all’esame del parlamento: ne occorreranno altri molto più consistenti, sempre attinti dalle casse pubbliche. L’Italia contribuirà in tal modo alla formazione di truppe che, essendo di fatto agli ordini dei comandi Usa/Nato, saranno solo nominalmente libiche: in realtà avranno il ruolo che avevano un tempo le truppe indigene coloniali. Scopo della missione non è quello di stabilizzare la Libia perché torni ad essere una nazione indipendente, ma quello di controllare la Libia, di fatto già balcanizzata, le sue preziose risorse energetiche, il suo territorio strategicamente importante. Ci permettiamo di dare un consiglio al governo Letta: l’Expo galleggiante della Cavour, rientrando nel Mediterraneo ad aprile dopo il periplo dell’Africa, potrebbe fare tappa anche in Libia per pubblicizzare i prodotti del Made in Italy. Come il cannone a fuoco rapido Vulcano della Oto Melara che, in mano ai libici che oggi mitragliano i barconi dei migranti, potrebbe risolvere il problema dell’emigrazione clandestina // Qualche articolo correlato in Marginalia: Tripoli bel suol d'amore. La guerra in Libia e il centenario dell'invasione italiana, Muammar Gheddafi, Silvio Berlusconi e l'italietta postcoloniale, Colonialismo italiano in Libia: dal "leone del deserto" al "colonnello".
martedì 20 agosto 2013
Zapruder / Made in Italy. Identità in migrazione online
Come molte/i di voi sanno già, l'editoriale e gli articoli della parte monografica di Zapruder vengono inseriti sul sito di Storie in Movimento dopo un anno dalla pubblicazione della rivista. Sono quindi ora disponibili l'editoriale e gli articoli della parte monografica del numero curato da Andrea Brazzoduro, Enrica Capussotti e Sabrina Marchetti, Made in Italy. Identità in migrazione, uscito esattamente un anno fa. In questa pagina trovate l’indice da cui è possibile accedere alla lettura online dei seguenti testi: Andrea Brazzoduro, Enrica Capussotti e Sabrina Marchetti, Identità … made in Italy // Michele Colucci, Effetti collaterali. L’uso pubblico delle migrazioni e della loro storia // Gaia Giuliani, Lombroso l’australiano. Costruzione della bianchezza tra Otto e Novecento // Enrica Capussotti, «Arretrati per civiltà». L’identità italiana alla prova delle migrazioni interne. Buona lettura!
lunedì 29 luglio 2013
Cécile Kyenge e le banane di Forza Nuova
Le manifestazioni di razzismo/sessismo contro la ministra Kyenge si susseguono con una tale frequenza (dall'orango di Calderoli all'istigazione allo stupro di Valandro), che diventa complicato anche solo tenerne il conto: l'ultimo episodio alla festa del Pd a Cervia qualche giorno fa. Dopo che Forza Nuova aveva disseminato la piazza di fantocci insanguinati e volantini contro lo ius soli con lo slogan "L'immigrazione uccide", c'è stato un lancio di banane verso il palco dove la ministra teneva il suo discorso. Come da copione questi episodi sono stati seguiti da una nuova ondata di messaggi di solidarietà bipartisan, anche da parte di personaggi come il leghista Luca Zaia, e dalla minaccia di querela da parte di Roberto Fiore per chi associa il lancio di banane a Forza Nuova. In questo modo, paradossalmente, sono proprio episodi come questi che vengono strumentalmente utilizzati per consolidare la riduzione del sistema sessismo/razzismo a qualche gesto imbecille di una minoranza indistinta, gesti nati dal nulla, senza significato e conseguenze, senza storia, senza nessun legame con leggi infami, centri di identificazione ed espulsione, accordi per il controllo alle frontiere e sfruttamento del lavoro, migrante e non. Nello stesso tempo tutto il paese, da destra a sinistra, si può così indignare, esprimere solidarietà alla ministra nera testimoniando così la propria fede "antirazzista" e "antisessista" ...
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domenica 21 luglio 2013
Cécile Kyenge e il peso delle parole
Leggo su Animabella, il blog di Cinzia Sciuto, un articolo (L'orango di Calderoli e lo spazio della politica) che a partire dalle frasi razziste/sessiste contro Cécile Kyenge di leghisti come Calderoli e Valandro, contesta in maniera efficace chi vorrebbe derubricare simili episodi "a battute da Bar Sport", insistendo sul fatto che anche "le parole contano, e non solo perché ledono l'immagine della ministra o istigano addirittura a commettere un reato. Ma perché [...] plasmano (letteralmente) lo spazio della politica [...]. La lotta politica è anche lotta per mettere al bando certe parole e per dare piena cittadinanza ad altre. Perché le parole si portano appresso significati, storie, valori, ideali e, infine, diritti. Chi insiste, per esempio, perché non si usi la parola 'clandestino' lo fa perché sa che eliminare quella parola dalla scena significherebbe avere di fronte un uomo (o una donna) alla ricerca di una vita migliore, e chiudere un uomo (o una donna) innocente dentro una vera e propria prigione, come i Centri di identificazione ed espulsione, sarebbe molto più difficile che chiuderci un 'clandestino'. E non per niente “clandestino” è una parola molto amata invece da chi vorrebbe 'filtrare' le masse umane che premono ai nostri confini. E così di questo passo, tutte le grandi battaglie per l'ampliamento dei diritti, sono anche (e forse prima di tutto) battaglie per dare legittimità ad alcune parole e rendere tabù altre". Condivido l'importanza di riflettere sul linguaggio, ribadita anche nell'introduzione al volume Femministe a parole: "il linguaggio non è affatto neutro, ma riflette e veicola rapporti di dominazione che le parole a loro volta, possono contribuire a riprodurre e consolidare. Proprio perché le parole sono imbevute di ideologie sessiste, razziste e classiste, i 'soggetti assoggettati' hanno costantemente sentito il bisogno di condurre delle battaglie contro e dentro il linguaggio, rimuovendo alcune parole e inventandone di nuove" (S. Marchetti, Jamila M.H. Mascat, V. Perilli, Ediesse, 2012). Peccato allora che proprio in questo articolo Sciuto finisca poi per definire Giovanni Sartori - che per le sue posizioni in materia di immigrazione ha trovato consensi anche in siti neonazisti come quello di Storm Front -, "illustre politologo" (le virgolette sono mie) ... Anche perché, come un nostro lettore in un commento a Le lacrime della leghista, anch'io giudico le esternazioni di Sartori - che ha anche invitato a regalare un dizionario a Cécile Kyenge - molto più insidiose del rozzo razzismo/sessismo di un Calderoli o una Valandro. Molto più insidiose proprio perché "il prof. Sartori", come scrive Riccardo nel suo commento, è considerato anche da certa sinistra "democratico e progressista" ...
mercoledì 3 luglio 2013
Razzismo nei media
Dal sito Il razzismo è una brutta storia apprendo della pubblicazione di un volume che - anche se non ho avuto ancora occasione di leggerlo -, mi sembra particolarmente interessante perché si occupa di un tema importante (media e razzismo) così come è percepito e analizzato da un gruppo di giovanissimi ragazzi/e di diverse origini culturali e geografiche. Nella mia tendopoli nessuno è straniero - questo il titolo - è infatti stato scritto da ragazze e ragazzi della redazione di Occhio ai media monitorando gli articoli pubblicati sulla stampa in occasione del terremoto avvenuto in Emilia un anno fa.
lunedì 17 giugno 2013
Un dizionario razzista per Cécile Kyenge
"Se lo Stato italiano le dà i soldi si compri un dizionarietto, e scoprirà che meticcio significa persona nata da genitore di razze (etnie) diverse". Questo l'incipit dell'editoriale contro Cécile Kyenge e lo ius soli che Giovanni Sartori - il "politolo" che per le sue posizioni in materia di immigrazione ha trovato consensi anche in siti neonazisti come quello di Storm Front - scrive oggi sul Corriere della Sera . Per l'articolo completo rinviamo a Giornalettissimo // Immagine: Wangechi Mutu, Primary syphilitic ulcers of the cervix (2005) // Alcuni articoli correlati in Marginalia :Chi ha paura della donna nera ?, L'integrazione è un campo di battaglia, Cécile Kyenge e lo stupro
giovedì 9 maggio 2013
L'integrazione è un campo di battaglia
Ancora a proposito della nomina di Cécile Kyenge, riprendiamo da Connessioni Precarie un articolo che ci sembra non solo approfondire ed esplicitare alcune delle questioni dibattute in Chi ha paura della donna nera? ma anche proporre alcuni spunti per una lettura critica del concetto di integrazione, tema che riteniamo cruciale fin dai tempi de La straniera, con il saggio di Sara Farris La retorica dell'integrazione (e rinviamo anche a Integrazione. Passione, tecnica, dovere, la "voce" curata da da Silvia Cristofori in Femministe a parole . Buona lettura e riflessioni // La nomina della ministra Cécile Kyenge ha suscitato alcune reazioni prevedibili, altre meno. Alla volgarità leghista siamo ormai abituati, così come agli insulti razzisti che hanno come bersaglio non solo i migranti tutti, ma direttamente e indubbiamente i «negri». Usiamo questa parola fuori da ogni politically correct che ha coperto d’ipocrisia l’istituzionalizzazione di un razzismo di lungo corso che attraversa l’Italia e fa parte della sua gloriosa storia. L’Italia unita ha avuto le sue colonie e la sua teoria della razza, fatta propria dal regime fascista e mai veramente discussa e cancellata. «Non ci sono italiani negri», è stato detto dopo il primo gol di Balotelli, oggi chiamato in causa come testimonial. Ma mentre un gol fa godere tutti, lo stesso non si può dire quando arriva una ministra «negra». Tolto il dispregiativo, è stata lei stessa a togliere di mezzo anche le formule vaghe definendosi «nera» e non «di colore». Oltre al nero c’è però di più: c’è il fatto che Cécile Kyenge, con la sua stessa presenza, spezza il velo del silenzio calato sulla condizione di ormai oltre cinque milioni di persone che vivono e lavorano in Italia, delle centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi delle nuove generazioni in movimento, di bambini e bambine marchiati a fuoco dallo stigma dell’alterità e per i quali già si pensano esami di una presunta italianità. Sarebbe perciò sbagliato e ingenuo pensare che solo di integrazione e convivenza si debba parlare. Lo ripetiamo oggi a Cécile Kyenge, mentre le esprimiamo solidarietà e appoggio. Lo diciamo sicuri di interpretare anche il sentimento di tanti e tante migranti con cui ha saputo lottare negli anni scorsi, anche uscendo dagli angusti spazi della retorica del suo stesso partito. Un partito che mentre parla a mezza voce di una società meticcia, proprio dove lei vive, ha costruito e mantenuto due dei tredici centri di reclusione per i migranti. I famigerati Centri di identificazione ed espulsione, un tempo Centri di permanenza temporanea, sono stati infatti istituiti dal suo partito, oggi PD, con una legge che porta il nome di una persona che ha speso la vita per l’integrazione, Livia Turco, e dell’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Siamo sicuri che, nella disattenzione generale, tra le cose di cui il suo nome è garanzia in Europa vi sia anche il mantenimento di quell’apartheid democratico che vede nei CIE delle strutture simbolicamente necessarie. La «scimmia congolese», come è stata amabilmente etichettata la ministra, dovrebbe secondo alcuni andare a «lavare i cessi» in quanto «negra». Seppur ancora troppo timide, le reazioni di condanna non mancano, compresa quella della presidente della Camera Boldrini, prima che altre urgenze prendessero il sopravvento. Quelli che si scandalizzano, però, sanno che per una donna nera qualsiasi «lavare i cessi» è una possibilità molto più concreta di quanto questi insulti possano far pensare? Siamo sicuri che il ministro Giovannini, che conosce le statistiche del mercato del lavoro italiano, potrà confermare che in questi anni l’integrazione ha voluto proprio questo: riservare ai migranti e alle migranti i lavori peggiori, peggio pagati, più pesanti, secondo una rigida divisione del colore. In questa rigida divisione, le donne nere devono soprattutto lavare i cessi, magari degli ospedali, oppure prostituirsi mettendo d’accordo i maschi neri e quelli bianchi, il cui piacere continua a nutrirsi degli stereotipi coloniali alimentati dal mito della patria. Il lavoro domestico e di cura è invece sempre più riservato, in condizioni non sempre migliori, ad asiatiche o migranti dalla pelle bianca che provengono dall’Est Europa se si tratta di badare gli anziani. L’integrazione, ben oltre le feste in costume, la ‘cultura’ che tanto interessa certi giornalisti embedded di sinistra e le vuote parole sulle pari opportunità, è l’integrazione nella precarietà e nello sfruttamento garantiti dall’apartheid democratico e dall’arroganza della discrezionalità amministrativa. Ci sono poi altri silenzi e altri commenti che lasciano esterrefatti. Lo abbiamo già detto segnalando la novità di questo ministra, ma con il passare delle ore sono sempre più chiari la miopia e l’infantilismo politico di chi, dopo magari averne fatto per anni una bandiera, oggi banalizza questo attraversamento della linea del colore. Non stiamo celebrando una vittoria e neppure un’acritica apertura di credito a una neominstra, e questo tocca pure dirlo per non essere volutamente fraintesi dai più duri e puri. Mentre segnaliamo la novità, ci colpisce invece la non novità di certi commenti imbarazzati, infastiditi, quasi irritati. Ci ricordano gli stessi toni di chi nel 2010 ha storto il naso di fronte allo sciopero del lavoro migrante contro la Bossi-Fini. Nel 2010 lo sciopero è stato fatto lottando duramente contro chi non lo voleva: i grandi e piccoli sindacati e molti gruppi di movimento impauriti di perdere la centralità delle forme di militanza più rassicuranti. Una lotta che è stata più difficile con loro che con lei, che come noto era presente. I commenti imbarazzati di questi giorni ricordano anche chi il 23 marzo scorso si è ben guardato dal sostenere pubblicamente la manifestazione di Bologna, nella quale oltre tremila migranti chiedevano a ogni futuro governo di cancellare la legge Bossi-Fini e denunciavano il razzismo, la segregazione lavorativa, lo sfruttamento cui sono sottoposti. Se ne sono accorti migranti di mezza Italia, non altri. Il fatto che la neoministra fosse presente in queste occasioni non significa certo che sono assicurati risultati eclatanti, ma non è del tutto indifferente per spiegare le reazioni scomposte che si stanno sentendo. Il contenuto politico che apre questa nomina pare sia ben chiaro soprattutto ai gruppi più razzisti di questo paese. Basta leggere i commenti per accorgersi che dietro al «ministro bonga bonga» c’è infatti la difesa strenua di quel razzismo istituzionale che si fonda sulle leggi tanto italiane quanto dell’Unione Europea, non su qualche gruppo nazistoide. Si tratta di un razzismo istituzionale ormai da tempo uscito dalle priorità del cosiddetto movimento, vale la pena ripeterlo in questa occasione. Capiamo perciò che dia molto fastidio essere superati da sinistra, anche solo sul piano dell’involontaria segnalazione del problema, dal governo che si è appena formato. Difficilmente Cécile Kyenge potrà cambiare qualcosa da un ministero che non ha competenze in materia e senza portafoglio. Non sappiamo nemmeno se vorrà davvero farlo. Eppure non ci sembra questo il punto di fronte alla novità che rappresenta. Guardiamo piuttosto dentro le case dei milioni di migranti che vivono, lavorano e crescono in questo paese, ai loro sorrisi nel vedere una ‘come loro’ giurare in un governo. Loro sanno che questo non vorrà dire la fine delle sofferenze e dello sfruttamento, l’uguaglianza di opportunità, la cancellazione del razzismo istituzionalizzato. Loro sanno che questo andrà conquistato con il tempo e con la lotta. Sanno però con certezza che è una lotta da fare. Sarebbe il caso che anziché ignorare questa lotta quotidiana riducendola alle sterili tattiche di movimento, lo capissero anche tutti quelli che si professano antirazzisti e antirazziste. Sarebbe bene anche che le tante persone di buona volontà che credono che la parola integrazione sia il bene, capissero che l’integrazione è un campo di battaglia che, mentre ricopre di belle parole, miete ogni giorno le sue vittime imponendo un prezzo da pagare. Le prime reazioni alla proposta di una modifica della legge sulla cittadinanza nella direzione dello ius soli parlano da sole. Le esternazioni del presidente del Senato ed ex-magistrato Pietro Grasso, che già paventa, in perfetta linea con leghisti e fascisti, l’invasione di donne migranti pronte a scaricare il loro imbarazzante fardello in suolo italico, sono emblematiche e significative. Il concetto di «ius soli temperato dallo ius culturae», formulazione ripresa dall’ex ministro per la cooperazione e per l’integrazione Riccardi, la dice lunga sul grado di violenza di questa battaglia, e ribadisce che l’unica integrazione ammessa senza condizioni è quella nello sfruttamento. Di fronte al silenzio quasi tombale che aleggia su queste questioni decisive del nostro tempo, intervallato dalla sterile esaltazione della diversità, da piccoli momenti d’irritazione e dalle offese razziste, la nomina di Cécile Kyenge segnala anche ai distratti che qualcosa nel mondo e in Italia è cambiato. E, probabilmente inseguendo lo scopo contrario, ricorda una dura lotta da fare
venerdì 3 maggio 2013
Cie / Sciopero della fame a Ponte Galeria
Con un comunicato rivolto all'amministrazione del Cie, i detenuti di Ponte Galeria - il Centro di identificazione e espulsione di Roma dove tra l'altro, nel maggio 2009 si uccise, impiccandosi, Mabruka Mamouni-, lanciano uno sciopero della fame. Il comunicato, che è stato pubblicato sul sito di Radio Onda Rossa e che invitiamo a diffondere - si chiude con una domanda che temiamo resterà senza risposta: "Noi motiviamo il nostro sciopero della fame, ora voi motivateci il perché dobbiamo espiare una pena senza aver commesso un reato"
giovedì 11 aprile 2013
Intersezioni discontinue / Discontinuous intersections:
Discontinuous intersections: second-generation immigrant girls in transition from school to work è un articolo di Sara R. Farris e Sara de Jong pubblicato sull'ultimo numero di Ethnic and Racial Studies, articolo che propone un approccio intersezionale per analizzare le diverse forme (strutturali, istituzionali e discorsive) di discriminazione di cui sono oggetto le ragazze migranti dette di "seconda generazione". E un grazie alle autrici per aver reso disponibile il testo attraverso la rete NextGenderation ;-)
mercoledì 10 aprile 2013
Made in Italy. Identità in migrazione al Modo Infoshop
Domani, giovedì 11 aprile, al Modo Infoshop, presentazione di Made in Italy. Identità in migrazione, il numero di Zapruder curato da Andrea Brazzoduro, Enrica Capussotti e Sabrina Marchetti di cui vi avevamo già parlato qualche mese fa. Per una breve presentazione e indice del volume rinviamo al sito di Storie in Movimento. Speriamo vedervi numerose/i!
martedì 19 marzo 2013
Contro la Bossi-Fini: questo è il momento!
Contro la Bossi-Fin: questo è il momento! è lo slogan che riassume lo spirito della manifestazione dei/delle migranti che - decisa nella scorsa assemblea dei/delle migranti del 17 febbraio - si svolgerà sabato prossimo - 23 marzo 2013 - a Bologna. Rinviamo al sito del Coordinamento migranti e a Migranda per materiali, volantini, spot e ultime adesioni
venerdì 1 marzo 2013
Un affare di donne: crisi e divisione sessuale del lavoro
Di/da Migranda un contributo su crisi e divisione sessuale del lavoro che vi invitiamo a leggere, commentare e far girare anche in vista della manifestazione delle/dei migranti del 23 marzo. Noi ci saremo. Buona lettura! // Secondo recenti studi statistici, dopo una relativa tenuta dei livelli occupazionali rispetto ad altri settori, a partire dal 2009 anche quello del lavoro domestico – almeno se si guarda al lavoro regolare – ha conosciuto un calo significativo, che tuttavia non corrisponde a una riduzione della domanda di assistenza familiare. Si tratta di un cambiamento che si compie all’interno del quadro sostanzialmente immutato della divisione sessuale del lavoro: le cosiddette «badanti» continuano a essere donne. Queste costituiscono l’80% dei migranti che svolgono lavori domestici e di cura, ma la percentuale è probabilmente maggiore se si considera che molto uomini hanno potuto regolarizzare la propria posizione solo attraverso le «sanatorie» e i flussi destinati a «colf e badanti». Non è un caso che, se si prendono in considerazione anche i migranti comunitari, che in quanto tali non sono stati coinvolti nelle recenti «sanatorie», la quota delle donne impiegate nel lavoro domestico arriva al 96%. I numeri cambiano poco se si guarda alle italiane, che costituiscono il 94,1% dell’insieme di coloro che svolgono lavori domestici e di cura. Le cifre parlano delle trasformazioni innescate dalla crisi economica, il cui portato non è possibile valutare con chiarezza. Si può considerare la riduzione complessiva dell’occupazione regolare nell’ambito del lavoro di cura in relazione ai più recenti movimenti dei migranti finora residenti in Italia: nel 2011 ci sono state 32.000 cancellazioni dall’anagrafe, il 15,9% rispetto al 2010, e molte meno iscrizioni. Le lavoratrici domestiche migranti sono diminuite del 5,2% nel 2011. Non sembra possibile, però, interpretare le statistiche nel senso di un «ritorno di massa» delle donne migranti nei paesi di provenienza: da considerare è innanzitutto l’incidenza del lavoro nero in questo specifico settore. La rilevanza del lavoro nero emerge se si considera che la rilevazione Istat registra, per quanto riguarda la provincia di Bologna, un incremento delle lavoratrici domestiche simile al decremento evidenziato dalla banca-dati Inps, indicando così un divario tra quanto si dichiara e mondo reale, cioè appunto un aumento del lavoro nero. Per quanto riguarda le migranti, ciò non dipende solo dalla mancanza di documenti ma anche dal fatto che spesso scelgono di ricevere il salario per intero, senza versare contributi che non rivedranno mai, o perché i padroni quei contributi non intendono versarli. Se si considerano poi le migranti comunitarie, come le donne rumene, il gruppo più cospicuo sia di badanti sia di donne che stanno abbandonando il Paese anche perché sono più libere di spostarsi all’interno dell’Europa, il fatto che non siano sottoposte al ricatto quotidiano del permesso di soggiorno rende più facile rinunciare a un contratto di lavoro in regola per un salario globale complessivamente più alto, cosa che vale ovviamente anche per le donne italiane. Questo insieme di trasformazioni deve essere considerato in relazione all’aumento della domanda di prestazioni di cura nel quadro dello smantellamento dei servizi sociali. Da un lato, il welfare pubblico non è più in grado di fornire risposte efficaci al bisogno di assistenza che riguarda sempre più famiglie, anche alla luce dell’invecchiamento della popolazione, delle trasformazioni degli assetti familiari e del rifiuto da parte delle donne del loro «destino domestico». Dall’altro, quel bisogno trova una sua risposta «privata», monetizzata. Le donne sono chiamate in causa non solo all’interno dei propri nuclei familiari, ma ancora sono costrette a pagare un’altra donna per gestire la propria famiglia e mantenere il proprio lavoro, generando l’ormai nota «catena salariale della cura». Il rapporto tra l’aumento della domanda e la diminuzione delle lavoratrici domestiche migranti è spiegabile considerando un’altra trasformazione, cioè l’aumento della presenza di lavoratrici italiane in questo settore, testimoniato anche dalla loro crescente partecipazione ai corsi di formazione organizzati da Acli Colf o da Federcasalinghe. Per dare ancora un po’ di numeri, a Torino le badanti italiane assunte attraverso l’agenzia Obiettivo Lavoro sono passate dalle 948 del 2008 alle 1757 del 2010, con un incremento dell’85%. Se il lavoro salariato domestico per le donne italiane è stato a lungo una scelta residuale rispetto ad altre possibilità di impiego, la crisi sembra destinata a cambiare la situazione in modo durevole, trasformando il lavoro salariato domestico in una scelta obbligata – e dettata da una sempre chiara e definita divisione sessuale del lavoro – per coloro che, non più giovani, si sono trovate al di fuori del mercato del lavoro. È infatti significativo che i dati relativi all’aumento dell’occupazione femminile (+1,2% nel 2011, +1,3% nel 2012) riguardino prevalentemente donne single e giovani, mentre per quelle che vivono una relazione di coppia e hanno figli il tasso di occupazione precipita notevolmente (e in modo proporzionale al numero dei figli). Sembra cioè che abbia avuto luogo un processo di «sostituzione» tra le donne migranti e quelle italiane nell’ambito del lavoro salariato domestico dove infatti, al contrario degli altri settori, l’età delle lavoratrici impiegate è andata costantemente aumentando negli ultimi dieci anni. In questo contesto, le donne migranti hanno un salario inferiore, in particolare se si considera il numero di ore lavorate: il fatto di vivere spesso sul luogo di lavoro comporta una disponibilità pressoché totale. Nello stesso tempo, se alla maggiore disoccupazione delle madri e delle donne ‘accoppiate’ si aggiunge una riduzione complessiva delle spese familiari – il che significa anche riduzione delle ore di lavoro pagate per «colf e badanti» – il quadro è quello di un probabile «ritorno a casa», come «casalinghe», di quelle donne che hanno perso il lavoro per la crisi e che non riescono a trovarne un altro per ragioni di età e per la scarsa flessibilità che possono offrire in quanto madri. Almeno in Italia, la crisi sta ridefinendo l’organizzazione e la gerarchia sociale del lavoro riproduttivo, e sembra invertire in parte quel processo globale di «sostituzione» che, in maniera massiccia e con il sostegno della legge Bossi-Fini, aveva visto le lavoratrici migranti svolgere, in cambio di un salario, una parte del lavoro riproduttivo delle donne «native». Mentre la salarizzazione del lavoro riproduttivo e di cura sembra non essere più solo un «affare delle migranti», la divisione sessuale del lavoro – che qualcuna aveva persino data per morta e la cui rilevanza politica scompare di fronte all’invocazione di una generica uguaglianza nello sfruttamento – rischia di ripresentarsi in forme «tradizionali», e continua a essere un «affare di donne»
venerdì 15 febbraio 2013
Assemblea generale delle migranti e dei migranti
Oggi ancora, anche se nessuno lo dice, la legge Bossi-Fini lega la nostra permanenza regolare al permesso di soggiorno, al contratto di lavoro e al reddito. Da ormai dieci anni questa legge ci ha costretto ad accettare qualsiasi tipo di salario e mansione pur di mantenere i documenti in regola. Il legame tra soggiorno e lavoro, con la richiesta di un livello minimo di reddito per rinnovare il permesso, ha di fatto espulso dal mercato del lavoro e trasformato in irregolari migliaia di migranti: alcuni hanno lasciato il paese perdendo gli anni di contributi versati regolarmente, altri hanno deciso di rimanere pur dovendosi separare dalle loro famiglie che sono tornate nei luoghi di provenienza. Molti lavorano per salari ancora più bassi. Anche se paghiamo le stesse imposte dei lavoratori italiani, sono state messe nuove tasse e richiesti versamenti alle poste per rinnovare un permesso che spesso scade dopo solo pochi mesi. Quello che noi migranti viviamo dentro e fuori i luoghi di lavoro non nasce dal niente. Noi migranti non siamo più disposti ad accettare questa situazione: abbiamo lottato e continuiamo a lottare! Abbiamo manifestato davanti alle Prefetture e Questure per la nostra libertà e i nostri diritti. Abbiamo organizzato lo sciopero del lavoro migrante del primo marzo 2010 e 2011, insieme a tanti lavoratori italiani, precari e operai. Oggi, in tutta l’Emilia-Romagna, con gli scioperi e i blocchi nella logistica e nella distribuzione, stiamo lottando per migliorare le condizioni salariali e di lavoro, per tutti. In un settore dove prima sembrava impossibile alzare la voce, abbiamo detto basta al sistema al ribasso delle cooperative e alla precarietà. Con queste lotte abbiamo accumulato forza e ora vogliamo conquistare la libertà dal quotidiano razzismo istituzionale. Questo è il momento: nessun nuovo governo risolverà i nostri problemi, soltanto con la nostra forza potremo liberarci dal ricatto imposto dalla legge Bossi-Fini e dal permesso di soggiorno! Conosciamo la nostra forza, dobbiamo organizzarci! Dopo incontri e discussioni con migranti e associazioni non solo del bolognese, vogliamo costruire insieme una mobilitazione regionale e invitiamo tutti a partecipare all'assemblea generale dei migranti domenica 17 febbraio alle 0re 15 (XM24 - via Fioravanti, 24 - Bologna). Per info, contatti e per scaricare i volantini in arabo, inglese, italiano e urdu Coordinamento migranti Bologna e Provincia
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Femministe a parole in tournée / To be continued ...
Dopo una pausa/non pausa (vedi ad esempio qui, qua e quo) riprende la tournée di Femministe a parole, il volume pubblicato nella collana sessismoerazzismo dalla casa editrice Ediesse (a cura di Jamila M.H. Mascat, Sabrina Marchetti e Vincenza Perilli). Nuove occasioni per dibattere e confrontarsi sulle questioni controverse che hanno attraversato il dibattito femminista nel corso degli ultimi anni: il multiculturalismo e i diritti delle donne, l’Islam in Europa e l’affaire du voile, la condizione postcoloniale e l’impatto delle migrazioni, il rapporto tra universalismo e relativismo culturale, il ruolo dei corpi e la performance dei generi, e tante altre ancora. Si parte domani - sabato 16 febbraio 2013 - con un doppio appuntamento radiofonico: alle 13.20 una delle curatrici sarà ospite di Radiouno_Rai per parlare del volume all'interno del programma Doppio Femminile, mentre un'altra intervista andrà in onda su Radio Città Fujiko, nella trasmissione women-only Frequenze di genere (ogni sabato dalle 13 alle 14). Il 27 febbraio Femministe a parole sarà invece a Perugia per una presentazione congiunta con il volume Lo schermo del potere, di Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi, organizzata dalla Sezione Antropologica Uomo&Territorio dell'Università di Perugia e dal collettivo Bella Queer. Infine l'8 marzo saremo a Torino, ospiti de L'altramartedì al Circolo Maurice lgbtq. Vi aspettiamo!
martedì 5 febbraio 2013
Politics at the Intersection / Cfp
Un altro call for papers che può interessare credo molte/i di coloro che passano da qui: il 30-31 maggio 2013 ci sarà alla Ghent University la dodicesima Political Science Conference, con una sessione condotta da Sara de Jong e Liza Mügge, Politics at the Intersection. Trovate tutte le info procedurali direttamente nel sito, di seguito vi copio-incollo solo il testo del cfp: This session seeks to bring together Flemish
and Dutch research on politics from two hitherto separate interdisciplinary strands of scholarship: Gender Studies and Migration and Ethnic Studies. Political scientists working on migration and ethnicity or gender often address comparable questions about the inclusion or exclusion of either women or migrants and ethnic minorities in politics. They focus on power structures, participation, inequality and the politics of representation and use similar concepts, such as political opportunity structure, identity politics, and discrimination. Moreover, both strands of research are concerned with the functioning of categories in their analyses (e.g. citizenship, race, ethnicity, gender). Despite overlapping research agendas, a constructive dialogue between Gender Studies and Migration and Ethnic Studies is largely absent. Key contemporary topics that traditionally are under scrutiny in Migration and Ethnic Studies or Gender Studies, such as the headscarf debate, questions of integration and participation, and gender equality,can no longer be understood from an ethnicity or gender perspective alone. Both fields need to extend their conceptual, explanatory and interpretative frameworks and acknowledge conceptual and theoretical developments across the fields, such as intersectionality and the critique of methodological nationalism. We invite contributors to take up what we consider to be future challenges for political science: (1) to mainstream intersectional analysis; (2) to be critical of the construction of taken-for-granted categories and the way such ‘fixed’ categories are influenced by nation-states; (3) to develop new mix-method toolkits to make this exercise feasible. This section welcomes theoretical and empirical papers that reflect on political issues, policies and themes at the intersection of different categories.We also invite papers that consider how conceptual and/or analytical frameworks from the different fields of Gender Studies and Migration and Ethnic Studies can be synthesised
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