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martedì 10 maggio 2011

Razzismo & Modernità

Il Centro di Documentazione di Pistoia ha da poco messo a punto un nuovo sito, all'interno del quale trovate anche gli indici della rivista Razzismo&Modernità, , di cui vi avevamo in passato già segnalato alcuni nostri contributi, come la recensione a La pelle giusta di Paola Tabet e il dossier su Sexe et Race. Nel sito tutte le indicazioni per acquistare i numeri arretrati, buona lettura.

venerdì 30 marzo 2007

Sexe et Race: discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle

Vincenza Perilli (a cura di), Dossier "Sexe et race", Razzismo & Modernità, n. 2, 2002, pp. 108-123.


Vincenza Perilli, La vita di una rivista unica, p. 109.

La rivista Sexe et Race: discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle che, lungo i due ultimi decenni, ha riprodotto il lavoro svolto nel seminario che le dà nome, tenuto all’università di Paris 7–Denis Diderot, ha cessato le sue pubblicazioni nel 1999. Sexe et Race, come emerge dagli indici che qui pubblichiamo in appendice, si è orientata fin dall’inizio verso quattro grandi assi: biopolitica ed eugenetica; nazionalismi e fascismi; razzismo e antisemitismo; donne, femminismi e antifemminismo. La rivista ha analizzato i discorsi e le forme di esclusione ed emarginazione che si sono sviluppate negli ultimi due secoli nelle società europee, soprattutto rispetto alle donne e alle minoranze etniche, per “esplorare ed esplicitare i rapporti, complessi e mobili, tra le rappresentazioni della differenza dei sessi e quelle delle differenze o gerarchie etniche (di ‘razza’), così come la loro funzione nella costruzione dei discorsi e delle modalità nuove (o classiche) di dominazione ed esclusione”, evitando “le impasse dell’amalgama, della confusione, o della semplice giustapposizione”[1]. Il merito principale di Sexe et Race “è precisamente quello di aver saputo porre e di continuare a porre queste questioni, talvolta così scomode per la storia delle nostre società, ma così fondamentali per cercare di comprenderne il funzionamento passato e presente”[2]. Il seminario e la rivista non sarebbero stati possibili, né probabilmente pensabili, senza l’attività e l’impegno di Rita Thalmann, germanista e storica, che li ha diretti e animati, facendone il luogo di elaborazione teorica delle grandi cause per cui si è battuta, dentro e fuori dall’università, da una vita[3]. In questo saggio per Razzismo & Modernità, Thalmann ricostruisce il contesto che ha permesso, ma anche reso necessaria, l’esistenza di Sexe et Race, un’esperienza che ha inaugurato e promosso linee di ricerca tuttora attive e per nulla esaurite.


[1] “Pour Rita Thalmann”, introduzione a Liliane Kandel (a cura di), Féminismes et nazisme, en hommage à Rita Thalmann, Publications de l’Université Paris VII-Denis Diderot, Paris, 1997, p. 7.

[2] Marie-Claire Hoock- Demarle, “Avant-propos”, in Sexe et Race: discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle, n. 11, 1999, p. 5.

[3] Si veda l’introduzione a Liliane Crips, Michel Cullin, Nicole Gabriel, Fritz Tauber (a cura di), Nationalismes, fèminismes, exclusions. Mèlanges en honneur de Rita Thalmann, Frankfurt/Main, Peter Lang, 1994, pp. 9-16. Il volume presenta in appendice una bibliografia – per quanto incompleta e ovviamente oramai datata -, delle principali opere di Rita Thalmann.



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Rita Thalmann, “Sexe et Race: discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle”, pp. 110-117

Non si deve al caso se il nostro seminario Sexe et Race: discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle, associato dal 1984 fino alla sua chiusura nel 1998 al laboratorio “Societés Occidentales” dell’università di Paris VII – Denis Diderot, è nato dalla constatazione di una insufficiente presa di coscienza tra gli universitari francesi dell’emergenza delle correnti negazioniste e relativiste. Risultava in effetti evidente che l’azione, essenzialmente giudiziaria, delle associazioni di deportati antirazzisti – in origine, le sole a combattere queste correnti ‑, non poteva sostituirsi all’azione preventiva fondata sulla conoscenza delle origini del razzismo e dell’antisemitismo sfociati nella biopolitica del Terzo Reich e nel genocidio nazista degli ebrei, impropriamente chiamato “Olocausto”, problematica centrale delle tesi negazioniste e relativiste.

Beneficiando di un’ampia cooperazione pluridisciplinare estesa ad altre istituzioni scientifiche (Cnrs, Inserm, Ehess, Iep, Bdic, Cdjc[1]), l’Università di Paris 7 offriva da questo punto di vista un quadro particolarmente appropriato. Come testimoniano gli undici volumi pubblicati, il seminario si è dapprima rivolto allo studio comparato dell’evoluzione delle tesi razziali nelle società occidentali e della loro applicazione alla gerarchizzazione dei gruppi umani in continuità col lavoro di Léon Poliakov, aggiungendovi tuttavia quello dell’esclusione socioculturale delle donne, a proposito del quale la nostra università ha giocato, segnatamente grazie a Michelle Perrot e al Cedref (Centre d’enseignement, de recherche et de documentation pour les études féministes) un ruolo precursore.

Questo significa che il tema Sexe et Race: discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle non deve nulla alla moda relativamente recente del “dovere di memoria”, poiché s’inscrive in un lavoro di ricerca e di trasmissione dei saperi sulla problematica delle continuità e discontinuità di una crisi identitaria sopravvenuta nel corso del XIX secolo, nel contesto della crisi della modernità che conduce all’ascesa dei fascismi fino al parossismo del nazismo, per risorgere in un mondo in cui la perdita di riferimenti favorisce nuovamente lo sviluppo dei nazionalismi e, conseguentemente, la riscrittura di una storia asservita a fini ideologico-politici. Questioni troppo a lungo ignorate dai politici, quando costituiscono uno dei fondamenti dell’avvenire della pace e della democrazia in un’Europa in corso di unificazione e, oltre, della sicurezza mondiale.

Sebbene esistano differenze non trascurabili tra la relativizzazione e il negazionismo – che, malgrado la sua pretesa di incarnare una “storia revisionista” come parte integrante della ricerca scientifica e dell’insegnamento a tutti i livelli, resta l’emanazione di una minoranza eterogenea che mira a negare l’esistenza del genocidio nazista degli ebrei, della quale Valérie Igounet[2] ha descritto la traiettoria e le poste in gioco –, queste due correnti rivelano almeno due aspetti comuni: da una parte la volontà di sgravare la memoria collettiva dal fardello del nazismo in generale e dello sterminio degli ebrei d’Europa in particolare e, dall’altra, l’estensione geografica. In particolare nei paesi dell’Europa dell’Est dopo la caduta del Muro e il crollo della dominazione comunista, così come, più recentemente, nei paesi arabi che cercano di delegittimare l’esistenza dello Stato d’Israele.

Il negazionismo – amalgama grossolano di stereotipi e miti giudeofobi che vanno dall’antigiudaismo cristiano all’antisemitismo riattivato dal conflitto in Medio Oriente, passando per l’estrema destra razzista e antisemita –, benché nato in Francia, non trovandovi udienza, cerca dapprima l’appoggio degli àmbiti neonazisti della Rft e dell’Austria.

Impresa proseguita, dopo Maurice Bardèche e Paul Rassinier, da Robert Faurisson che tenta vanamente di ottenere, nel 1974, la cauzione scientifica di Martin Broszat, esperto riconosciuto della storia del nazional-socialismo, direttore all’epoca dell’Institut für Zeitgeschichte di Monaco. Non è che cinque anni più tardi che l’offensiva negazionista, estesa nel frattempo ai paesi anglosassoni e scandinavi, attira l’attenzione degli ambienti universitari francesi che, salvo rare eccezioni, non erano affatto preoccupati del fenomeno e dei singolari seminari di “critica letteraria” di Robert Faurisson all’Università di Lyon II. In effetti è solo dopo i primi interventi pubblici di quest’ultimo che un certo numero di storici denunciano quest’impresa di falsificazione[3]. Anche se, eccetto David Irving, il negazionismo non ha trovato dei relè tra gli storici, i suoi tentativi di infiltrazione negli ambiti universitari – come rileva Alain Devaquet, ministro dell’educazione, in occasione di una tavola rotonda al Centre Rachi a Parigi[4], a proposito del dossier dell’ affaire Roques[5] –, incontrano connivenze che oltrepassano le università di Lyon II, Lyon III e Nantes. Nell’affaire Roques, così come nei successivi – ancora recentemente nell’affaire Plantin[6] –, possiamo constatare una mancanza di vigilanza e silenzi che spiegano le reazioni spesso tardive, o addirittura inesistenti, delle istanze scientifiche. Attitudine preoccupante, nella misura in cui questa corrente cerca di far presa su giovani menti vulnerabili, anche attraverso lo sviluppo delle sue pubblicazioni e di 4300 siti razzisti e antisemiti accessibili oggi in Francia.

All’inverso del negazionismo, la corrente relativista, nata nella seconda metà degli anni Settanta da una presa di posizione del professor Broszat in favore di una storicizzazione del periodo del Terzo Reich, è stata strumentalizzata dieci anni più tardi nella Rft, a partire da un articolo del filosofo-storico Ernst Nolte che, già in precedenza, passava per l’enfant terribile della corporazione. Conviene precisare che la sua argomentazione mirante a relativizzare il nazismo in generale e il genocidio nazista degli ebrei come una reazione difensiva al pericolo del “giudeo-bolscevismo” era già stata pubblicata nel 1985 in un’opera collettiva inglese[7]. Il suo lancio, pubblicato nel giugno 1986 dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung[8], uno dei principali organi degli ambienti economici neoconservatori, si iscriveva nella scia di un movimento di “normalizzazione”, di “riga definitivamente tirata sul passato”, illustrato segnatamente dal difficile dibattito parlamentare sulla imprescrittibilità dei crimini nazisti contro l’umanità, dalla legalizzazione della Comunità di mutuo soccorso degli ex combattenti delle SS (Hiag)[9], e dalla cerimonia di riconciliazione tedesco-americana al cimitero militare di Bitburg. Senza dimenticare le dichiarazioni pubbliche di certi eletti cristiano democratici, precedute, nell’autunno 1984, da quelle del cancelliere Kohl sulla “grazia di una nascita tardiva”in occasione della sua visita in Israele. In questo contesto il modo di procedere di Nolte, seguito da qualche storico neoconservatore tra cui, in particolare, Michael Sturmer, all’epoca consigliere storico del cancelliere Kohl, corrispondeva a uno scivolamento di senso dalla storicizzazione allo storicismo mirante a costruire o ricostruire la memoria tedesca come creatrice di un’identità nazionale sgravata dal peso “di un passato che non vuole passare”.

Apparentemente acquietato dopo le vive reazioni, per interposti media, di sociologi poi di rinomati storici tedeschi legati alla democrazia costituzionale, che rifiutano questa appropriazione ideologico-politica della storia – rifiuto sostenuto fuori dalla Rft da specialisti della storia del nazismo[10] – il dibattito riprende forza,dopo la caduta del Muro, in Europa centrale e orientale. Fondandosi sulle tesi di Nolte, la storiografia relativista-revisionista di questi paesi tendeva a minimizzare la collaborazione con il Terzo Reich e a riabilitare nello stesso tempo le élite nazionali. Questa corrente troverà un insperato sostegno nella nozione di “olocausto rosso”e nell’arringa per una “Norimberga del comunismo” esposta da Stéphane Courtois nel capitolo introduttivo al Livre noir du communisme[11]. Quest’opera collettiva – la cui introduzione è tuttavia ricusata da alcuni degli autori –, pubblicata in Francia nel 1997, conosce una grande diffusione e risonanza nelle società ossessionate dalla riconquista di una fierezza nazionale macchiata dalla compromissione con il nazismo e dai successivi decenni di dittatura comunista[12].

Ad eccezione della Repubblica ceca, dove Vaclav Havel fu il primo, dal 1990, a mettere in guardia i suoi concittadini contro le tentazioni vittimistiche e l’esteriorizzazione sistematica della causa del male, e della Polonia, in cui la ri-nazionalizzazione della storia-memoria, non esente dall’antigiudaismo, equivale a constatare che né il nazismo né il comunismo sono problemi polacchi e che non ci sono, conseguentemente, conti da rendere da questo punto di vista, che i colpevoli sono altrove, o che solo il destino è responsabile delle sciagure della nazione, gli altri paesi dell’Est – in particolare l’Ungheria, ma soprattutto la Romania – integrano la nozione di “olocausto rosso” oramai passata nel lessico corrente.

In questo caso, come in quelli, fino ad oggi meno esplorati, dei paesi baltici o della storiografia della Germania dell’Est dopo la “svolta”, il problema della storicizzazione è legato al trattamento degli archivi. Trattamento variabile in funzione della ricostruzione identitaria. Allorché in Romania un buon numero di storici, appellandosi agli svariati ostacoli all’accesso agli archivi dei periodi relativi, procedono a una riscrittura che esonera questo paese da ogni responsabilità nella persecuzione e nello sterminio di circa 200.000 ebrei rumeni durante l’alleanza con il Terzo Reich, il periodo comunista è presentato di volta in volta come un martirio collettivo del popolo rumeno e l’espressione di una minoranza d’origine etnicamente “straniera” (ebrei, zingari, ungheresi). Le vittime diventano i complici. I complici, le vittime.

Nella Germania dell’Est, al contrario, la massa degli archivi dell’ex Rdt, aperti dopo la caduta del regime, testimonia una volontà di rottura e di stigmatizzazione senza ledere la storiografia della vecchia Rft. Come se, per il solo fatto di questa stigmatizzazione, fosse provata la superiorità del modello democratico liberale della Germania dell’Ovest. Tanto più che gli storici più influenti, tra i quali quelli che dirigono gli istituti specializzati, sono tutti della Germania occidentale. Nondimeno, gli archivi del periodo nazista conservati nella Rdt e nell’Europa dell’Est hanno permesso di precisarne la specificità, svilita dai relativisti, in rapporto alla “seconda dittatura” dell’ex Rdt, ridotta ad una “dittatura senza popolo”, al contrario del nazismo, “dittatura con il popolo”. Tuttavia – e su questo punto lo storico francese Etienne François concorda con il suo collega tedesco Christian Maier – si deve constatare il contrasto flagrante tra il modo in cui la società e gli storici della Germania occidentale hanno reagito agli sconvolgimenti del 1989-90, la vivacità delle messe in causa, la precocità di una storicizzazione della Rdt e la lentezza del dibattito di fondo sul nazismo e il passato tedesco dopo il 1945.

Questa lentezza e queste reticenze sono state oggetto del vivo dibattito seguito alle comunicazioni – a un colloquio dell’ottobre 2000 all’università di Paris VII – di Odile Krakovitch e Caroline Piketty sulla “liberalizzazione” degli archivi francesi. Battaglia che una minoranza di noi porta avanti da anni[13] che ha certo portato ad una pratica meno restrittiva delle deroghe, senza sfociare tuttavia nella legge promessa dal primo Ministro. Legge che doveva ispirarsi al rapporto Braibant[14] del 1996, che preconizzava tra l’altro la riduzione del lasso di tempo interposto tra la data di un documento e la sua accessibilità – nettamente più lungo che in altre democrazie –, e l’istituzione di una reale trasparenza, ciò che avrebbe il vantaggio di porre fine alla pratica del segreto e della ritenzione, che prevale da secoli in Francia. Si favorirebbe così la ricerca storica, permettendo di chiarire più facilmente le zone d’ombra e di decostruire i miti che contribuiscono alla perturbazione della memoria collettiva.

Questo fenomeno fu ugualmente a lungo percepibile nella storia delle donne che non si sviluppa in Francia che all’inizio degli anni Ottanta. Fino a questa data non si contano che da uno a 370 nomi di donne negli indici delle persone citate nelle opere storiche. Non è che a partire dal colloquio Femmes. Féminisme. Recherche – organizzato nel 1983 all’università di Toulouse-Le Mirail con il sostegno del ministero francese della ricerca e di 800 ricercatrici femministe –, che la storia delle donne riceve progressivamente uno statuto universitario. Se bisogna attendere gli anni Novanta per la pubblicazione di una Histoire des femmes en Occident e di una Histoire politique des femmes[15] , in un primo tempo la maggioranza delle ricerche storiche si concentrano sulla Francia. In questo senso il Cedref dell’università di Paris 7 e la nostra équipe Sexe et Race: discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle – nata nel 1980 all’Università di Tours e trasferita nel 1984 all’università Paris 7 – costituisce fin dall’inizio un’eccezione. Eccezione nel suo interessarsi alla storia comparata delle donne di altri paesi nel caso del Cedref. Eccezione per la nostra équipe nell’introdurre le tematiche dei fascismi e dei razzismi in collaborazione con la Fondazione scientifica internazionale delle donne (Wif)[16] creata nel 1983 per nostra iniziativa in Austria con il sostegno del cancelliere Kreisky, della ministra austriaca della ricerca Herta Firnberg e della ministra della questione femminile Johanna Dohnal. È grazie a questa cooperazione tra la nostra équipe e le reti europee – ai quali si aggiunge un’équipe di storiche americane specialiste delle donne sotto il nazismo –, che furono realizzate e pubblicate tre opere sui rapporti donne e fascismi[17] ai quali si aggiungeranno in seguito il volume Féminismes et Nazisme diretto da Liliane Kandel e Femme. Nation. Europe diretto da Marie-Claire Hoock-Demarle[18].

Queste opere mostrano la diversità delle reazioni delle donne confrontate all’ascesa dei fascismi e del razzismo nel mondo occidentale. Diversità ugualmente messa in luce nel nostro seminario Sexe et Race. Discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle e negli articoli pubblicati negli 11 volumi della rivista omonima dall’università di Paris 7 - Denis Diderot, università in cui si sono formate delle dottorande ormai al lavoro in diverse università francesi. Françoise Thébaud ad Avignone, ha organizzato con Jolande Cohen (storica all’università di Québec-Montreal) un colloquio su Féminismes et identités nationales (Propane Rhône-Alpes de recherche en Sciences humaines, maggio 1998). Sabine Zeitour, autrice di una tesi sull’Œuvre de Secours aux enfants (OSE) durante l’Occupazione, ha pubblicato due opere su questo soggetto[19], per poi dirigere il Centre d’Histoire de la Resistance et de la Deportation di Lione. Christine Bard, autrice di una tesi sulla storia dei femminismi in Francia, ha pubblicato due libri[20] il secondo dei quali è il prodotto di un colloquio sull’antifemminismo francese nel XX secolo, tenuto all’università d’Angers, in cui Bard – che oramai vi insegna –, ha creato un centro d’archivi storici sulle donne. Fiammetta Venner, che ha sostenuto una tesi in Scienze Politiche, ha fondato con Caroline Fourest l’associazione e la rivista ProChoix e ha inoltre messo in luce in un libro[21] i fondamenti reazionari e razzisti dei movimenti ostili ai diritti delle donne.

Questo genere di studi si è sviluppato durante gli ultimi anni. Ma, nonostante alcuni contributi sulla storia delle donne nella Francia degli anni 1940-45, manca ancora una storia globale delle donne durante Vichy e il nostro seminario Sexe et Race. Discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle interrotto dopo il mio pensionamento, non è stato ripreso da nessuna università francese (Traduzione e cura di Vincenza Perilli).



[1] Centre national de la recherche scientifique, Institut national de la santé et de la recherche médicale, École des Hautes Études en Sciences Sociales, Institut d’études politiques, Bibliothèque de documentation internationale contemporaine, Centre de documentation juive contemporaine.

[2] Valérie Igounet, Histoire du négationnisme en France, Paris, Le Seuil, 2000; si veda inoltre Pierre Vidal-Naquet, Les assassins de la mémoire, Paris, La Découverte, 1987, trad. it. Gli assassini della memoria, Roma, Editori Riuniti, 1993; Nadine Fresco, Fabrication d’un antisémite, Paris, Le Seuil, 1999; Liliane Kandel (a cura di), Féminismes et Nazisme, Publication de l’Université Paris 7 – Denis Diderot, 1997. [Sugli ultimi due testi si vedano, in lingua italiana, le rispettive recensioni di Rudy M. Leonelli, in Razzismo & Modernità, n. 1, gennaio giugno 2001, pp. 164-167 e Vincenza Perilli in Altreragioni, n: 8, 1999, pp. 151-160 (NdT)].

[3] Segnatamente: “La politique hitlérienne d’extermination. Une déclaration d’historiens”, in Le Monde, 21 febbraio 1979; Nadine Fresco, “Les redresseurs de morts. Chambres à gaz. La bonne nouvelle. Comment on révise l’histoire”, in Les Temps modernes, n. 407, giugno 1980, pp. 2150-2211; le pubblicazioni degli anni Ottanta di Pierre Vidal-Naquet raccolte in Les assassins de la mémoire, cit. e la messa a punto di François Bédarida, Le nazisme et le génocide. Histoire et enjeux, Paris, Nathan, 1989.

[4] Il Centre Rachi-Cuej, Centre universitaire d’études juives, fondato nel 1973 (NdT).

[5] Il 15 giugno 1985, Henri Roques sostiene una tesi di dottorato all’università di Nantes, in una sala affollata da circa quaranta persone, tra le quali Robert Faurisson e Pierre Guillaume. La tesi, un esercizio di critica negazionista sulle diverse versioni del noto “rapporto Gerstein”, ottiene un “très bien” da una commissione composta, tra l’altro, da due esponenti della Nouvelle droite: Jean-Claude Rivière (uno dei fondatori del Grece e membro del comitato di redazione di Nouvelle École) e Jean-Paul Allard (collaboratore di Études et Recherches, rivista teorica del Grece e vicepresidente, nel 1977, del circolo Galilée del Grece a Lione, dove animava colloqui con Alain de Benoist). Innescato dalla propaganda del giornale di estrema destra Rivarol e degli ambienti della Vieille Taupe, l’affaire Roques, da una parte ha offerto un’ennesima occasione di visibilità mediatica al negazionismo e, dall’altra, ha sollevato il rilevante problema delle connivenze accademiche, non esaurito dall’annullamento della tesi per “irregolarità amministrative”. Per una dettagliata ricostruzione, si veda Valérie Igounet, Histoire du négationnisme en France, cit., in particolare pp. 408-421 (NdT).

[6] Nel 1990, Jean Plantin si laurea con un “très bien” in Storia all’università di Lyon III, con una tesi consacrata a “Paul Rassinier, socialista, pacifista, revisionista”. L’anno successivo, consegue un Dea (Diplôme d’études approfondis) all’università di Lyon II, con un mémoire su “Le epidemie di tifo nei campi di concentramento nazisti”. Questi riconoscimenti accademici non pongono problema se non nel 1999, quando Plantin, in qualità di direttore della rivista negazionista Akribeia, viene processato e condannato per “contestazione di crimini contro l’umanità”. Il caso, anche grazie alla forte mobilitazione di movimenti e associazioni di lotta contro il razzismo, l’antisemitismo e l’estrema destra, ha rilanciato con forza la questione della responsabilità delle istituzioni universitarie (NdT).

[7] Ernst Nolte, “Between myth and revisionism? The Third Reich in the perspective of 1980s”, in H. W. Koch (a cura di), Aspects of the Third Reich, London, McMillan, 1985, pp. 17-38.

[8] L’articolo di Nolte, “Vergangenheit die nicht vergehen will”, è pubblicato in traduzione italiana in G. E. Rusconi (a cura di), Germania un passato che non passa. I crimini nazisti e l’identità tedesca, Einaudi, Torino, 1987, pp. 3-10.

[9] Hilfsgemeinschaft auf Gegenseitigkeit der ehemaligen Angehörigen der Waffen-SS, fondata all’inizio degli anni Cinquanta (NdT).

[10] Philippe Burrin, Saül Friedländer, Rita Thalmann, “L’Allemagne, le Nazisme et les Juifs”, in Vingtième siècle, ottobre-dicembre 1987, pp. 31-65; Ian Kershaw, The Nazi Dictatorship. Problems and Perspectives of interpretation, London, Arnold, 1985.

[11] Stéphane Courtois (et al.), Livre noir du communisme, Paris, Robert Laffont, 1997; tr. it. Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, Milano, Mondadori, 1998.

[12] Henry Rousso (a cura di), Stalinisme et Nazisme. Histoire et mémoire comparées, Bruxelles-Paris, Complexe, 1999.

[13] Sonia Combe, Archives interdites. Les peurs françaises face à l’histoire contemporaine, Paris, Albin Michel, 1994.

[14] Nel marzo 1995, il Primo Ministro francese Edouard Balladour domanda a Guy Braibant, presidente alla sezione onoraria del consiglio di Stato, di redigere un bilancio della legge n. 79-18 del 3 gennaio 1979 sugli archivi. Il 28 maggio 1996, Braibant rimette il suo rapporto in cui pone l’accento sulle eccessive restrizioni alla consultazione degli archivi in Francia rispetto ad altri paesi. Basti qui ricordare che la vecchia legge prevedeva un lasso di 30 anni per gli archivi pubblici, anni che diventavano 60 per i documenti concernenti segreti di Stato, della Difesa o dell’ordine pubblico, fino a 120 anni per i dossier personali e medici (NdT).

[15] Georges Duby e Michelle Perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente. Dall’Antichità ai nostri giorni, 5 voll., Roma-Bari, Laterza, 1991; Christine Fauré (a cura di) Encyclopédie politique et historique des femmes. Europe et Amérique du Nord, Paris, P.U.F, 1997.

[16] Internationale wissenschaftliche Frauenforschung.

[17] Rita Thalmann (a cura di) Femmes et fascismes, Paris, éd. Tierce, 1986; Rita Thalmann (a cura di) La tentation nazionaliste 1914-1945, Paris, éd. Deux temps-Tierce, 1990; Leonore Siegele-Wenschkewitz e Gerda Stuchlik, Frauen und Faschismus in Europa, Pfaffenweiler, Centaurus, 1990.

[18] Liliane Kandel (a cura di), Féminisme et nazisme, cit. ; Marie-Claire Hoock-Demarle (a cura di), Femmes. Nation. Europe, Publications Université Paris 7 – Denis Diderot, 1995.

[19] Sabine Zeitourn, Ces enfants qu’il fallait sauver, Paris, Albin Michel, 1999 e, della stessa autrice, L’œuvre de secours aux enfants sous l’occupation en France, Paris, L’Harmattan, 1999, entrambi con prefazione di Serge Klarsfeld.

[20] Christine Bard, Les filles de Marianne. Histoire des féminismes en France 1914-1940, Paris, Fayard, 1995 e, a cura della stessa autrice, Un siècle d’antiféminisme en France, Paris, Fayard, 1999, prefazione di Michelle Perrot.

[21] Claudie Lesselier e Fiammetta Venner (a cura di), L’extrême droite et les femmes, Paris, Golias, 1997.


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Indici di Sexe et race (1986-1999), pp. 118-123


N° 1, 1986

Pierre Thuiller, “Darwinisme et discours raciste”, pp. 1-13.

Colette Guillaumin, “Identité discursive entre toutes les formes de naturalisme et biologisme”, pp. 14-23.

Jean- Pierre Hammer, “Les fondements du XIXe siècle de Houston Steward Chamberlain”, pp. 24-48.

Nicole Gabriel-Amatulli, “Nature et rôle des femmes dans la social-démocratie allemande”, pp. 49-70.

Liliane Crips, “Entre maternité et modernité : la femme au temps des années folles en Allemagne”, pp. 71-82.

Marianne Walle, “Darwinisme social et discours de femmes sur la ‘vocation naturelle’ dans le cadre du Bund Deutscher Frauenvereine (B.D.F)”, pp. 83-99.

Rita Thalmann, “Alfred Rosenberg: ‘le mythe du XXe siècle’”, pp. 100-113.

Barbara Vormeier, “Le discours juridique dans la pratique de l’exclusion nazie en 1933”, pp. 114-132.


N° 2, 1987

André Bejin, “Le darwinisme social de Francis Galton, Karl Pearson et Georges Vacher de Lapouge”, pp. 3-24

Otmar Kòeinebrel, “Alexander Tille: le service du peuple d’un aristocrate social”, pp. 25-35.

Jacques Le Rider, “Le cas Otto Weininger”, pp. 37-65.

Rita Thalmann, “Le protestantisme synchrétique sous le IIIe Reich”, pp. 67-87.

Nicole Gabriel, “Démographie et antimilitarisme à l’époque du Kaiser”, pp. 89-114.

Liliane Crips,“Magnus Hirschfeld (1868-1935), un eugéniste social-démocrate”, pp. 115-134.

Christina Ottomeyer-Hervieu, “Les préliminaires de l’eugénisme (1870-1929) et le mouvement international d’eugénique”, pp. 99-116.


N° 3, 1988

Pierre Thuiller, “A propos de quelques travaux récents sur le darwinisme social”, pp. 3-11.

Pierre-André Taguieff, “Théorie des races et biopolitique sélectionniste en France. Aspects de l’œuvre de Vacher de Lapougue (1854-1936). (I)”, pp. 12-60.

Till Meyer, “La ‘Philosophie biologique’ de Ernst Haeckel”, pp. 62-78.

Marianne Walle, “Le National-Féminisme en Allemagne pendant la Première Guerre mondiale”, pp. 79-98.

Liliane Crips, “Essai d’analyse institutionnelle du racisme biologique: le cas de la ‘société allemande d’hygiène raciale’, de sa fondation, en 1905, aux débuts du Troisième Reich”, pp. 117-130.

Nicole Gabriel, “Matriarcat et utopie: Otto Gross, psychanalyste (1877-1920)”, pp. 131-155.

Noëlle Bisseret-Moreau, “Alexis Carrel et la ‘Fondation Française pour l’étude des problèmes humains’ (1941-1945)”, pp.156-174.

Rita Thalmann, “Des deutsche Christen à la foi allemande: la révolution ‘chrétienne’ (1919-1933)”, pp. 175-188.

Jean- Pierre Hammer, “Le paragraphe 175 ou l’homosexualité en Allemagne de 1869 à 1986”, pp. 189-207.


N° 4, 1989

Pierre-André Taguieff, “Théorie des races et biopolitique sélectionniste en France. Aspects de l’œuvre de Vacher de Lapougue (1854-1936). (II)”, pp. 3-33.

Liliane Crips, “Eugen Fischer : L’anthropologie inégalitaire”, pp. 35-63

Noëlle Bisseret-Moreau, “La baisse de la natalité dans les pays occidentaux : un objet pseudo-scientifique”, pp. 65-103.

Pia Le Moal, “Les médecins et l’eugénisme sous le IIIe Reich”, pp. 105-119.

Rita Thalmann, “Hiérarchisation et traitement des femmes selon les critères nationaux-socialistes de la pureté raciale”, pp. 121-143.

Michel Veuille, “La sociobiologie, déterminisme biologique contemporain”, pp. 145-162.

Annick Lantenois, “Expression picturale du racisme national-socialiste”, pp. 163-181.

Gaëtane Mogica, “Aspects juridiques de la discrimination des femmes et des enfants en RFA”, pp. 183-201.

Liliane Kandel, “Quelques paradoxes de la réflexion féministe concernant le Troisième Reich”, pp.203-228.


N° 5, 1990

Etienne Balibar, “Racisme et sexisme”, pp. 3-8.

Yves Aouate, “Édouard Drumont revisité : aspects évolutifs et méconnus de son œuvre”, pp. 9-30.

Marc Knobel, “De l’étude des noms et des Juifs à l’école d’anthropologie et chez Georges Montandon”, pp. 31-67.

Claire Auzias, “National-sozialismus versus révolution française”, pp. 67-72.

Nicole Gabriel, “Alfred Rosenberg: pour en finir avec le mythe du XIXe siècle. 1789 revu et corrigé par l’idéologie national-socialiste”, pp. 73-98.

Jean Christophe Concavela, “L’évolution de la théorie psychiatrique en Allemagne 1870-1933”, pp. 99-118.

Rita Thalmann, “Guida Diehl et le mouvement de la régénérescence allemande”, pp. 119-141.

Christine Bard, “L’avocate Yvonne Netter : itinéraire d’une avocate féministe et sioniste dans la première moitié du siècle en France”, pp. 142-171.

Maria Pia Di Bella, “Les conceptions racistes dans l’ethnologie italienne: 1876-1942”, pp. 173-193.

Liliane Crips,“Du féminisme comme décadence : le discours sur les femmes des droites conservatrices et révolutionnaires sous la République de Weimar et le IIIe Reich”, pp. 195-211.

F. Taubert, “Stéréotypes sur l’Allemagne dans la presse de la gauche française des années 30”, pp. 213-225.

Ruth Wodak, “Le discours antijuif dans l’Autriche actuelle”, pp. 227-253.


N° 6, 1991

Pierre-André Taguieff, “Réaction identitaire et communauté imaginée : Sur la production contemporaine du nationalisme”, pp. 3-38.

Jean Christophe Coffin, “ La théorie des dégénérescences et sa réception (1857-1968) ”, pp. 39-58.

Béatrice Philippe, “Le mariage exogamique vu par les auteurs français au XIXe siècle”, pp. 59-77.

Liliane Crips,“Hans F. K. Günther (1891-1968), un idéologue du nordisme”, pp. 79-100.

F. Taubert, “Frank Wedekind: Hidalla oder Sein und Haben (Karl Hetmann, der Zwergriese), une satire du racisme et du nordisme”, pp. 101-121.

Marianne Walle, “Eve nouvelle ou ange du foyer ? Les héroïnes de la littérature féminine dans les années 20”, pp. 123-140.

Rita Thalmann, “L’évolution de l’émigration du IIIe Reich de 1933 à 1941”, pp. 141-157.

Anne Grynberg, “L’internement des Juifs étrangers, un remède à la décadence française”, pp. 159-173.

Nicole Gabriel, “Actualité de l’austro-marxisme: Otto Bauer et la question des nationalités”, pp. 175-189.

Claudie Lesselier, “Traditionalisme et engagement: les femmes à l’extrême droite”, pp. 191-207.

Regina Benjowski, “La position des femmes dans le contexte de l’unification allemande”, pp. 209-217.


N° 7, 1992

Colette Guillaumin, “‘Clôture culturelle’ et inassimilation dans la France contemporaine”, pp. 3-10.

Michel Fagard, “La question juive en Autriche-Hongrie : discours et pratique d’exclusion”, pp. 11-20.

Martine Francheo, “Les débats juridiques en Allemagne durant la première moitié du XIXe siècle et leurs effets sur le statut des femmes”, pp. 21-50.

Nicole Gabriel, “La culture contre le nationalisme. Rudolf Rocker: Nationalisme and Culture (1937)”, pp. 51-72.

Michel Cullin, “L’antijudaïsme des catholiques autrichiens au XXe siècle”, pp. 73-79.

Liliane Crips, “Otmar von Vershuer (1896-1969) et les fonctions socio-politiques de l’hygiène raciale”, pp.87-98.

Rita Thalmann,“Aspects de l’épuration culturelle en France sous l’occupation et le régime de Vichy”, pp. 99-114.

Dominique Rossignol, “La répression de la franc-maçonnerie en France”, pp. 115-142.

Corine Bouillot, “Du mouvement des femmes à la tutelle idéologique en Allemagne de l’Est. (EBZ/DDR) 1945-1953”, pp. 143-155.

Liliane Kandel, “Nature, histoire et politique dans le discours des Verts: l’affaire Brière”, pp. 157-186.


N° 8, 1993

Colette Guillaumin, “Race. Question de terminologie”, pp. 5-16.

Jacqueline Costa-Lascoux, “La loi contre le racisme son symbole, ses limites”, pp. 17-26.

Françoise Basch, “Ernestine Louise Potovsky Rose (1810-1892) juive, femme des Lumières, féministe : universalité ou marginalité ? ”, pp. 27-38.

Sylvie Fayet- Scribe, “ Paris : 1900. La naissance aventureuse des centres sociaux en France par deux pionnières du social : Mercédès Le Fer de la Motte et Marie-Jeanne Bassot”, pp. 39-52.

Liliane Crips, “Sélection ‘raciale’ – sélection sociale. L’itinéraire du raciologue Fritz Lenz (1887-1976) , pp. 53-76.

Pierre-André Taguieff, “Mixophobie et xénophobie. Théorie des races, eugénisme et nationalisme xénophobe: croisements d’argumentations”, pp. 77-132.

Leonore Siegele-Wenschkewitz, “Tendances de la théologie féministe au sein des églises protestantes d’Allemagne”, pp. 133-147.

Rita Thalmann “La double mémoire du passé dans l’Allemagne après l’unification”, pp. 149-162.

Annette Wievioeka, “Mémoriaux”, pp. 163-173.

Fiammetta Venner, “Extrême-gauche, extrêmes- droites: interférences paradoxales”, pp. 175-185.


N° 9, 1994

Colette Capitan, “La conception révolutionnaire des classes de sexe (1789-1793)”, pp. 5-14.

Fiammetta Venner, “Les socialistes et la question juive:notes sur l’antisémitisme de gauche (1845-1890)”, pp. 15-26.

Françoise Basch, “Victor Basch : chef des dreyfusards de Rennes”, pp. 27-50

Rita Thalmann “Hellmut von Gerlach: l’itinéraire singulier d’un hobereau prussien du nationalisme antisémite au pacifisme de gauche”, pp. 51-64.

Klaus-Peter Sick, “Du briandisme à la collaboration. La genèse, les persistances et les discontinuité d’une politique étrangère”, pp. 65-86.

Nicole-Claude Mathieu, “Relativisme culturel, excision et violences contre les femmes”, pp. 93-102.

Sonia Combe, “Mémoire grise des femmes à l’Est. Avoir vingt ans sous la terreur”, pp. 103-112.

Dominique Schnapper, “Inclusion et exclusion. Les politiques d’intégration en France et en Allemagne”, pp. 113-123.

Claire Ambroselli, “La ‘purification ethnique’ : crimes de guerre ou crimes contre l’humanité ? Questions à travailler”, pp. 123-148.


N° 10, 1997

Pierre André Taguieff, “Retour sur les ‘Protocoles des Sages de Sion’. Origines et fonctions du ‘complot juif mondial’, mythe politique moderne”, pp. 5-21.

Marco Schütz, “Ludwig Woltmann”, pp. 23-52.

Françoise Basch, “L’intime brisure: Victor Basch et l’Allemagne”, pp. 55-81.

Nicole Gabriel, “Victor Basch et l’Allemagne: un germaniste intempestif”, pp. 83- 95.

Yves Ternon, “Spécificité du génocide au XXe siècle”, pp. 97-110.

Rita Thalmann, “La dernière phase du judaïsme allemand (1938-1945)”, pp. 111-126.

Mechtild Gilzmer, “Camps d’internement de femmes en france: Rieucros et Brens (1939-1944)”, pp. 127-147.

Corinne Bouillot, “La redéfinition de la question de l’avortement en zone d’occupation soviétique et en RDA. La femme et son corps au service du socialisme”, pp. 149-162.

Bruno Groppo, “L’Italie et son passé. Antifascisme, Résistance, identité nationale dans le dèbat historiographique et politique italien d’aujourd’hui”, pp. 163-181.

Jean-Charles Szurek, “Mémoire polonaise et passé juif”, pp. 183-192.

Marie-Claire Hoock- Demarle, “Le double discours de l’exclusion des femmes: formes, pratiques et perversions”, pp. 193-206.

Selma Leydersdorf, “L’intégration sociale des Juifs aux Pays-Bas”, pp. 207-213.


N° 11, 1999

Marie-Claire Hoock- Demarle, Avant-propos, p. 3.

Régine Dhoquois, “L’Universalité du droit dans des sociétés inégalitaires: une difficile transmission”, pp. 7-23.

André Lasserre, “La Suisse de 1933 à 1945, une terre de refuge ou de refus?”, pp. 25-41.

Jochen Hoock, “L’accoutumance à l’exclusion: le cas Victor Klemperer”, pp. 43-56.

Jacques Grandjonc, “Une famille de réfugiés allemands dans le Midi de 1939 à 1943 entre émigration et déportation”, pp. 57-72.

Yves C. Aouate, “Entre solidarité communautaire et confort intellectuel, le judaïsme français et la guerre d’Algérie – notes et observations”, pp. 73- 93.

Annie Lacroix-Riz, “Les industriels français et le IIIe Reich”, pp. 95-122.

Claude Singer, “L’Université libérée, l’Université épurée (1943-1947)”, pp. 123-134.

Francine Muel-Dreyfus, “Sexe, classe, race: la construction de la féminité sous Vichy”, pp. 135-145.

Sylvie Chaperon, “Le mouvement des femmes à la Libération (1944-1946)”, pp. 147-174.

Françoise Basch, “Sojourmer Truth (1797-1883), femmes noires et féminisme”, pp. 175-191.



domenica 7 novembre 1999

Femminismi e nazismo


Vincenza Perilli, L'innocenza di Eva, Altreragioni, n. 8, 1999, pp. 151-160 *

Questo testo raccoglie alcuni interventi presentati ad un colloquio internazionale organizzato dal Cedref (Centre d'enseignement, de documentation et de recherche pour les etudes féministes) e dal Ceric (Centre d'etudes et de recherches inter-européennes contemporaines) presso l'Università Paris 7 - Denis Diderot nel dicembre 1992.
Il titolo Féminismes et nazisme - decisamente spiazzante rispetto allo standard (italiano e non) - offre le prime indicazioni di lettura. Se il plurale femminismi è segno di cautela metodologica, una presa di distanza da atteggiamenti ecumenici che apre all'analisi di una complessità solcata da contraddizioni e non priva di "zone grigie" (e, insieme, intuibile invito a non ridurre le esperienze femministe francesi e non sotto il marchio corrente del "femminismo della differenza"[1]), è l'accostamento al termine nazismo ad incuneare la critica in uno snodo strategico: punto limite nel campo delle ricerche sulle relazioni tra sessismo e razzismo, luogo di sedimentazione, anche nella riflessione femminista, di resistenze, omissioni, semplificazioni.
Il nome di Rita Thalmann è una sorta di catalizzatore, qualcosa di più del riferimento ad una esperienza di vita o ad una Autrice[2]: l'omaggio - inconsueto - a una persona vivente è come l'insegna di un cantiere aperto, il nome di un incrocio che raccorda una pluralità di ricerche e di angolature problematiche. Il seminario Sexe et race: discours et formes nouvelles d'exclusion au 20ème siècle, che Thalmann anima dal 1985, ha l'obiettivo di "esplorare ed esplicitare i rapporti, complessi e mobili, tra le rappresentazioni della differenza dei sessi e quelle delle differenze o gerarchie etniche (di 'razza'), così come la loro funzione nella costruzione dei discorsi e delle modalità nuove (o classiche) di dominazione ed esclusione" evitando "le impasse dell'amalgama, della confusione o della semplice giustapposizione"[3].
Il binomio sesso/razza ha avuto importanza decisiva nella storia dei movimenti femministi, in particolare, già dal secolo scorso, negli Usa. Il termine "sessismo", che oggi ci appare autoevidente, trent'anni fa non esisteva: coniato nell'ambito del femminismo statunitense nel corso degli anni Sessanta, sul modello di "razzismo", si è poi esteso in ambito internazionale[4]. Nel sottolineare il parallelismo tra i meccanismi dell'oppressione razziale e quella delle donne, le femministe intendevano dimostrare come in entrambi i casi degli argomenti di tipo biologico (delle differenze fisiche percettibili: il colore della pelle, il sesso...) servivano a giustificare sistemi di discriminazione, subordinazione e devalorizzazione. Nella congiuntura le istanze femministe tendevano ad aprirsi un varco mediante l'accostamento al più consolidato antirazzismo della sinistra. "La posta in gioco del dibattito era chiara: si trattava di far riconoscere la legittimità politica dei nuovi movimenti femministi: e per cominciare, di ricusare di primo acchito, nella discussione sulla dominazione di sesso - come in precedenza su quello di 'razza' -, ogni ricorso ad argomenti di tipo essenzialista o naturalista, i. e. in termini di destino biologico"[5]. Relativamente efficace sul piano strategico, l'amalgama sessismo/razzismo (e la fuorviante identificazione dei rispettivi "anti"[6]) presenta dal punto di vista teorico notevoli limiti che la congiuntura attuale - contraddistinta dall'importanza crescente accordata alla "differenza" - impone di rompere.
Di fatto si assiste negli ultimi anni a un riprodursi dell'amalgama su basi più problematiche ed ambigue. Allo strutturarsi di un antirazzismo teso alla difesa delle "identità culturali" e al rispetto delle "differenze"[7] si affiancano talune delle correnti "femministe" più in voga negli ultimi vent'anni che dalla critica all'universalismo sono giunte all'abbandono del concetto di uguaglianza e all'invocazione "rituale e pietosa del 'rispetto delle differenze' - e certamente al primo posto la differenza di sesso"[8]. Se l'antirazzismo, in particolare nelle versioni multiculturaliste, si trova a condividere imbarazzanti omologie con l'apparato discorsivo e concettuale del campo che combatte, questi femminismi producono nel proprio ambito specifico un limite analogo.
Nello spazio di un riflessione critica sul rapporto sessismo/razzismo - e di forme specifiche di razzismo come l'antisemitismo - focalizzare l'attenzione sul nazismo significa operare una scelta forte: l'analisi delle griglie di lettura proposte in ambito femminista su questo nucleo cruciale funziona come un reagente chimico, che permette di evidenziare rischi e limiti e di sollecitare una riformulazione dei problemi.
Nel settembre 1992 un articolo dal titolo "La resistenza silenziosa di Eva Braun" veniva pubblicato in Emma, rivista femminista della Rft: il miracoloso ritrovamento dei diari intimi della compagna del Führer rivelava la sua tacita opposizione al nazismo, e la sua condanna del "razzismo e sessismo" quotidiani. L'aspetto più inquietante di quello che, secondo la redazione, doveva essere uno scherzo, fu la sua recezione: la generalità delle lettrici, pur nella manifesta disapprovazione, non aveva dubitato dell'autenticità dello scoop, e/o della serietà delle intenzioni della rivista[9].
Possiamo prendere questo terribile aneddoto, ricordato da Claudia Koonz[10], come un sintomo del quadro che Féminisme et nazisme si propone di turbare. Quali culture, quali pregiudizi, quali schemi hanno fatto si che si credesse che delle femministe, o presunte tali, proponessero un vistoso falso come rivelazione di una segreta e consolante verità? Come si è prodotta la fulgida e mistificante immagine, che ha abbagliato le lettrici di Emma, delle donne tutte innocenti, tutte resistenti (silenziose), infine "vittime - soltanto vittime, talvolta sole vittime - di Hitler"?.[11]
E' proprio la nozione, cruciale, di non implicazione delle donne nell'impresa nazista, per lungo tempo dominante anche in ambito femminista, che la prima sezione di testi di Féminismes et nazisme, titolata Les temps incertains, smonta: uno studio puntuale su svariate fonti storiche fa emergere una diffusa e attiva presenza femminile, che in varie forme, contribuì al consolidamento e al funzionamento del regime nazista, dalla partecipazione informale e invisibile ("femminile"? si chiede retoricamente e provocatoriamente Kandel) di moltissime "donne comuni" al sistema di espropriazione e sfruttamento in cui grande peso ebbe la pratica della delazione, fino ai casi di donne direttamente coinvolte nel sistema ideologico e materiale dello sterminio.
Le mogli delle SS che, spesso informate dell'attività dei mariti, beneficiavano in varie forme dei frutti della persecuzione (ad es., quelle che abitavano nei lager, impiegando le recluse come domestiche); le donne ausiliarie SS, formate nella scuola voluta espressamente da Himmler agli inizi del 1942; le famigerate guardiane dei campi impiegate non solo in campi femminili, ma anche nelle sezioni femminili di lager principali, compresi quelli della morte, dove - come gli uomini - erano armate, parteciparono alle selezioni ed erano a conoscenza dei gasaggi. Ad un livello "superiore" le centinaia di dirigenti femminili della Frauenwerk (Opera femminile) e della Frauenschaft (Associazione delle donne naziste) guidate da Gertrud Scholtz-Klink[12]; le intellettuali, quali la biologa Agnes Bluhm, il cui itinerario ideologico e professionale - che si muove tra la Gesellschaft für Rassenhygiene (Società d'igiene razziale) e il Bund für Mutterschutz (Lega per la protezione materna) -, è drammaticamente rappresentativo di una corrente völkisch che ha esercitato una non trascurabile influenza tanto sulla costituzione e propagazione dell'ideologia nazionalsocialista, quanto sulla genesi del movimento delle donne in Germania[13].
Da questa prima rassegna delle forme di coinvolgimento femminile emerge che il modo in cui la gerarchizzazione di genere si articolava con le discriminazioni di razza - e con altri assi di differenziazione (orientamento politico, religioso, sessuale) - era complesso, non immediatamente sovrapponibile: le distinzioni di razza (ariane/non-ariane) e le diverse forme di selezione non assegnavano a tutte le donne lo stesso "destino", né un unico ruolo. Il regime nazista non era l'indifferenziata esclusione di tutte le donne da tutte le forme di gestione del potere, ma includeva fasce determinate di esse a diversi livelli e con funzioni specifiche (da quelle interne, a diversi gradi, alla macchina di sterminio, a quelle - senz'altro meno visibili e più numerose - che, nella sfera del "privato", godevano in forme diverse dei frutti della discriminazione)[14].
Di qui, forse, l'altro problema spinoso affrontato nella prima sezione del testo: la grande difficoltà, in quegli anni, di pensare (e ancor più di agire insieme) femminismo e battaglia antifascista, antisessismo e antirazzismo. Una coniugazione sempre difficile e spesso mancata. Molti oppositori al nazismo, quali i membri della scuola di Francoforte, sottovalutarono il peso del sessismo nell'ideologia nazionalsocialista, non rinunciando per lungo tempo alle loro nostalgie, o ai loro pregiudizi, naturalisti e familisti concernenti il posto e il ruolo delle donne nella società. D'altro canto difficoltà e contraddizioni sono rintracciabili all'interno delle stesse organizzazioni femministe sia in Germania che all'estero. Da un lato situazioni estreme dove, con buona pace dell'agiografia, la sorellanza passa, letteralmente "sotto la tavola" e militanti femministe ebree sono escluse dai gruppi di cui facevano parte, o silenziosamente abbandonate alla loro sorte, dalle loro "compagne" ariane - che passarono, senza apparenti difficoltà, dall'opposizione al patriarcato al sostegno o alla collaborazione con il Terzo Reich; dall'altro una più generale impasse, come in Francia, dove i gruppi femministi, largamente impregnati di utopie pacifiste, esitarono lungamente a prendere coscienza della specificità della minaccia hitleriana, o ad opporvisi in quanto femministe. A testimonianza della possibilità di realizzare, anche in condizioni drammatiche, questa problematica coniugazione, è il caso delle resistenti austriache: nella denuncia del fascismo mussoliniano così come quello di Horthy in Ungheria, nell'opposizione - non solo verbale - all'austrofascismo prima e al nazismo dopo, donne come Käthe Leichter colsero e denunciarono tempestivamente il carattere gerarchico, sessista e antisemita del nazismo.[15]
La seconda sezione, storiografica, dal titolo una Une lecture malaisée, analizza le griglie dell'interpretazione femminista di questo periodo storico, rapportandole alle correnti di pensiero che dal dopoguerra ad oggi, soprattutto in Germania, hanno attraversato la storiografia del Terzo Reich, in un processo di interazione e influenza reciproca con quella che va sotto il nome di memoria collettiva[16].
Dalla fine degli anni Quaranta, i nuovi stati della Germania furono costretti ad affrontare una doppia esigenza: sopperire agli effetti della rottura della precedente identità nazionale e sviluppare l'integrazione nei rispettivi blocchi di appartenenza. Questo portò nella Rdt, all'assunzione del mito dello stato antifascista erede della tradizione del movimento operaio, che, estromettendo il nazismo come prodotto del capitalismo occidentale, evitava l'interrogazione intorno alle responsabilità collettive del passato, mentre nella Rft si affermò il motivo delle due dittature nazista e comunista (i "totalitarismi"): caduta la prima, la democrazia assumeva il compito di combattere la seconda[17]. Queste due distinte memorie nazionali eludono la specificità del genocidio degli ebrei e degli altri "inferiori", confusi puramente e semplicemente con i resistenti e/o con le vittime antifasciste. Questo processo coinvolgerà anche - con gradi e sfumature diverse -, varie associazioni femminili, che anzi giocano un ruolo di primo piano nelle strumentalizzazioni ideologiche.[18] All'oblio bipolare fa da contrappunto l'assenza quasi totale delle donne dalle ricerche storiche sul periodo nazista (sia come attrici che come autrici). Un'amnesia più o meno generalizzata stende un velo, solo a frammenti sollevato, sul passato: nel 1966 Alexander e Margarete Mitscherlich si interrogano sull'incapacità dei tedeschi di "elaborare il lutto".[19]
Dopo il '68 nell'ambito dell'emergente storia sociale, l'accento portato sulla vita quotidiana delle popolazioni ha tra i propri correlati, nel campo della riflessione sul periodo nazista, il privilegio conferito alle forme di resistenza e opposizione informali. Negli stessi anni, in maniera autonoma, nel movimento femminista la critica della separazione tra pubblico e privato sfocia sulla storia del quotidiano "e in particolare sulla resistenza informale, non visibile delle donne"[20]. Come occupando l'una la zona cieca dell'altra (la storia sociale del nazismo trascura le donne, la storia femminista evita il nazismo) le distinte traiettorie si disegnano nello spazio di una inconsapevole omologia.
Solo alla fine degli anni Settanta, con la diffusione televisiva dell'holliwoodiano Olocausto, "un maremoto di produzioni introduce il Terzo Reich nel teatro e nelle famiglie. Di colpo ritorna la memoria del genocidio, mentre i film cominciano a rappresentare la vita quotidiana sotto il nazismo". Ancora generalmente assenti dalla storia degli storici, è nel cinema che le donne iniziano ad assumere un ruolo centrale nella memoria del nazismo: "come Madre Coraggio, risolute e piene di risorse, i personaggi femminili erano le guardiane della famiglia e della società in un'epoca di barbarie".[21] È così riproposta la separazione tra sfera pubblica, politica (maschile) e quella della responsabilità civica, privata (femminile) separazione che, con diversa valenza, caratterizzava la logica sessista del nazismo.[22]
Quando "l'insistente assenza di un tema a lungo sotterraneo"[23] si infrange e la storiografia femminista intraprende l'esame del periodo nazista prevale, con qualche importante eccezione[24], la tendenza ad inserire l'esperienza delle donne nel quadro dell'eroismo e del resistenzialismo - anche nelle sue versioni "silenziose" -, e/o a scagionarle in blocco con la tesi dell'innocenza, che declina al femminile il tema dell'innocenza degli oppressi e, nelle tendenze improntate al femminismo culturalista e differenzialista, sancisce l'innocenza per essenza. Le donne sono innocenti "in ragione non più della loro situazione di vittime e della loro oppressione (da parte del patriarcato), ma della loro essenza - la loro bontà, socievolezza e generosità 'naturali' (o 'naturalmente' legate al loro istinto materno ...), la loro capacità infinita di dedizione, coraggio, sacrificio".[25]
Se il tema delle donne tutte resistenti, giunge a banalizzare la resistenza (attiva) che pure vide protagoniste tantissime donne, quello dell'innocenza rimanda, in ultima analisi, ad un apparato discorsivo che insiste su una dimensione altra dell'essere donna[26], su una sua originaria differenza, grazie alla quale le donne risultano in virtù della loro condizione di oppresse più buone o più vittime di altre vittime.
Questo paradigma - che attraversa diagonalmente molti ambiti disciplinari trovando man mano nuove, inedite articolazioni - giunge a coprire tutti gli aspetti del problema, diventando una chiave universale che può rendere conto di tutto: le diverse angolature, da quelle che esaltano le capacità femminili di sopravvivenza, a quelle che identificano le donne come le vere vittime designate, sottendono un identico presupposto "è in quanto donne e perché donne che le une hanno potuto sopravvivere, e le altre sono state assassinate"[27]. Attraverso un uso sovente distorto di quasi trent'anni di ricerche femministe si giunge a dimostrare che "il vissuto, le esperienze delle donne prese nella macchina nazista, le strategie di sopravvivenza, le sofferenze subite, e perfino la morte stessa, erano radicalmente differenti da quelle degli uomini"[28].
Assunta, dichiaratamente o meno, come fondamento, la differenza sessuale subordina e tende inevitabilmente a diluire o cancellare altre forme di discriminazione, portando un contributo femminile all'appiattimento della storia. "Domani i giovani saranno vecchi; i bianchi e i neri saranno caffè e latte, ma domani le donne saranno sempre delle donne"[29]: esprimendo in forma di predizione una fissità prima, inalterabile dalle evenienze della storia, questa certezza non concerne i mondi futuribili ma l'eterno. Quando presupposti di questo tipo si estendono alla ricerca storica, pretendendo di governarla, costituiscono un ostacolo epistemologico. Non soltanto è preclusa la comprensione dell'effettività storica dello sterminio - se lo consideriamo, con Hilberg, un processo complesso che ha investito l'intera società[30] - ma è risparmiata così ogni riflessione, certo priva di rassicurazioni, sulla capacità "positiva" del nazionalsocialismo di riorganizzare e filtrare istanze femminili in un nuovo ordinamento corporativo. Quest'aspetto inquietante e troppo spesso evitato concerne una dimensione storica che investe il nostro presente e i suoi possibili sviluppi: un'organizzazione neocorporativa della società può assumere la "differenza innata delle donne" come elemento funzionale.
Più in generale - non al di là di, ma attraverso ogni specifico problema affrontato - l'importanza strategica di questo testo mi sembra risiedere nella capacità di sollecitare, a partire da ricerche determinate, un'interrogazione critica delle categorie di analisi e della loro sistematizzazione teorica. Nel suo saggio introduttivo a Féminismes et nazisme, Liliane Kandel sottolinea il paradosso del femminismo: la sovrapposizione di pratica della rottura e teoria della continuità. É questo scarto che il testo si propone di riaprire puntando su una nuova messa in movimento della teoria, sperimentando un deciso rovesciamento di prospettiva. Se, di fronte all'estremo, la categoria del genere, si mostra "talvolta inefficace, talvolta inesatta, spesso crudelmente inadeguata"[31] si tratterà, a partire dalle irriducibilità della storia e da una storia critica del femminismo, di esaminare le nostre teorie, i loro limiti ponendo il problema di forzarli.

* Recensione di Liliane Kandel (a cura di), Féminismes et nazisme, en hommage à Rita Thalmann, Colloque international Cedref - Université Paris 7, Publications de l'Université Paris 7-Denis Diderot, Paris 1997, pp. 300, 120 F. Una nuova edizione di questo volume è stata pubblicata da Odile Jacob nel 2004.


[1] Eleni Varikas ha efficacemente sintetizzato i rischi di tale operazione: "Ridurre il femminismo 'francese' a certe posizioni teoriche non significa soltanto occultare il fatto che la maggior parte delle lotte femministe sono state condotte al di fuori e talvolta contro queste posizioni, non soltanto occultare le posizioni teoriche più influenti nella riflessione femminista in Francia; significa per ciò stesso impedirsi di riflettere sulle condizioni in cui queste posizioni molteplici sono emerse, sul loro rapporto con una pratica politica delle donne, su ciò che definisce la loro accettabilità o inaccettabilità sociale e accademica, sulla loro dinamica sovversiva", E. Varikas, "Féminisme, modernité, postmodernisme: pour un dialogue des deux côtés de l'océan", in Féminismes au présent, supplemento a Futur antérieur, Paris, L'Harmattan, 1993, p. 63. Christine Delphy individua nell'invenzione del French Feminism negli Usa (che riduce il femminismo francese al trittico Luce Irigaray, Helen Cixus e Julia Kristeva) una precisa strategia politica, la cui posta in gioco più immediata è stata la neutralizzazione delle ultime sacche di resistenza del femminismo radicale statunitense. Cfr. C. Delphy, "L'invention du 'French Feminism': une démarche essentielle", in Nouvelles Questions Féministes, Vol. 17, n. 1, 1996, pp. 15-57. In relazione con queste operazioni, si è sviluppato in Italia un processo omologo, non privo di modalità e tratti specifici che restano in gran parte da analizzare.
[2]
Giovanissima durante l'occupazione, Rita Thalmann è l'unica sopravvissuta di una famiglia ebrea di origine tedesca sterminata dai nazisti. Autrice del fondamentale Etre femme sous le IIIème Reich, Paris, Laffont 1982, ha curato due volumi pubblicati da Tierce: Femmes et fascismes (1986) e La tentation nationaliste (1990). Oltre a numerosi saggi e articoli ricordo la rivista da lei diretta (nata a ridosso del seminario) Sexe et Race: discours et formes nouvelles d'exclusion au 20ème siècle.
[3] "Pour Rita Thalmann", introduzione a Féminismes et nazisme, p. 7. Per una messa a fuoco della categoria di "genere" in rapporto alle difficoltà, ma anche alle potenzialità, di una sua produttiva articolazione con altre categorie di analisi vedi Mariagrazia Rossilli, "Le sfide della storia delle donne e del genere negli Stati Uniti", Rivista di storia contemporanea, n. 1, gennaio 1993, pp. 57-88.
[4] Per una problematizzazione storica e teorica del termine "sessismo" e dei limiti della comparazione con "razzismo" si veda Marie-Josèphe Dhavernas e Liliane Kandel, "Le sexisme comme réalité et comme représentation", in Les Temps Modernes, n. 444, juillet 1983, p. 3-27 e, delle stesse autrici, la voce "Sexisme", in Encyclopédie philosophique universelle, tomo II, Paris, Puf, 1990. Indicativo della "originaria" sovrapposizione di sessismo e razzismo negli Stati Uniti, è un testo molto conosciuto anche in Italia : Shulamith Firestone, The Dialectic of Sex. The Case for Feminist Revolution, New York, William Morrow and Company, 1970, tr. it., La dialettica dei sessi. Autoritarismo maschile e società tardo capitalistica, Firenze, Guaraldi, 1971, in particolare il capitolo V: "Razzismo: il sessismo della famiglia dell'uomo", p. 117-128. Nel caso italiano può essere illuminante la copertina di un libro di importanza storica: Luisa Abbà, Gabriella Ferri, Giorgio Lazzaretto, Elena Medi, Silvia Motta, La coscienza di sfruttata, Milano, Mazzotta, (1972) 1977, che raffigura la silhouette di Angela Davis in manette. I temi dell'oppressione, discriminazione e sfruttamento delle donne nel sistema patriarcale, affrontati nel volume, sono presentati attraverso l'emblematica sovrapposizione di "donna" e "nera" (sesso e razza).
[5] Liliane Kandel, "Faurisson-'Détective': même combat?", in Liliane Crisp, Michel Cullin, Nicole Gabriel, Fritz Tauber (a cura di), Nationalismes, féminismes, exclusions. Mélanges en l'honneur de Rita Thalmann, Frankfurt/Main, Peter Lang, 1994, p. 401. Per le linee fondamentali di una critica del naturalismo e del biologismo come teorie "indigene" o "spontanee" dell'oppressione vedi Christine Delphy, L'ennemi principal, 1 / Économie politique du patriarcat, Paris, Syllepse, 1998, pp. 21-23.
[6] Molto è già stato scritto del sessismo presente nei movimenti antirazzisti e neri, come anche nell'estrema sinistra degli anni Settanta, e molto si dovrebbe ancora scrivere degli "aggregati alternativi" che ne sarebbero gli attuali eredi. Attualmente gli episodi del velo delle donne islamiche o dell'escissione-infibulazione hanno riproposto l'evidenza della presenza di elementi di sessismo nell'antirazzismo (e viceversa) "con il pretesto del rispetto delle tradizioni culturali e del rifiuto dell'imperialismo", Marie-Josèphe Dhavernas, "Référent et dominant", in Sexisme et exclusions, Cahiers du Cedref-Université Paris VII, n. 3, 1993. Étienne Balibar sottolinea che "il 'nodo negativo' del razzismo e del sessimo non implica affatto, in contropartita, una unità dell'antirazzismo e dell'antisessismo: sembra che qui si tocchi un limite dell'universalità delle 'liberazioni'". Cfr. É. Balibar, " Racisme et sexisme", in Sexe et race. Discours et formes nouvelles d'exclusion du XIXe au XXe siecle, 1989-90, p. 4.
[7] Su questi temi è ormai d'obbligo il riferimento a Pierre-André Taguieff, La force du préjugé, Paris, La Découverte, 1987, tr. it. La forza del pregiudizio, Bologna, Il Mulino, 1994. Per una problematizzazione dell'impianto teorico di Taguieff vedi Rudy Leonelli, "Le sventure della virtù. Per la critica del post-antirazzismo", Altreragioni, n. 4, 1995, pp. 189-201.
[8] Liliane Kandel, "Faurisson-'Détective': même combat?", cit., p. 402. Nello stesso testo Kandel sottolinea come una delle conseguenze politiche più disastrose di queste "evoluzioni" è la difficoltà di distinguere sovente tra tesi razziste e tesi antirazziste, tra teorie femministe e antifemminismo tradizionale.
[9] "Der stille Widerstand der Eva Braun" è il titolo originale dell'articolo, a cura delle redattrici di Emma, corredato dalla trascrizione di alcune pagine del presunto diario di Eva Braun e da un fumetto del 1983 di Franziska Becker (pp. 9-15). Nel numero successivo della rivista (p. 66) vengono pubblicate alcune lettere di lettrici e una breve nota di scusa della redazione, dove si dichiara che la rivista aveva inteso fare una parodia della recente pubblicazione dei falsi diari di Göbbels da parte dello Spiegel.
[10] Si veda Claudia Koonz, "Les femmes, le nazisme et la banalité du mal", in Féminismes et nazisme, cit., pp. 204-213.
[11] Kandel, "Femmes, féminismes, nazisme, ou: on ne naît pas innocent(e), on le devient", cit., p. 18.

[12] Alla figura di Gertrud Scholtz-Klink Claudia Koonz dedica il primo capitolo del suo Mothers in the Fatherland. Women, the Family and Nazi Politics, St. Martin's Press, New York, 1986, tr. it. Donne del Terzo Reich, Firenze, Giunti, 1996. L'edizione italiana, effettuata con una traduzione dall'edizione aggiornata in lingua tedesca (Mütter im Vaterland, Freiburg, Kore Verlag, 1991) presenta un numero di note notevolmente ridotto rispetto all'originale.

[13] Quest'ultima, per quel femminismo che alimenta il culto delle donne autorevoli, potrebbe esserre un istruttivo oggetto di indagine: una delle prime donne ammesse negli studi di medicina presso l'università di Zurigo, nel 1880 è tra le uniche tre donne in tutta la Germania ad esercitare come medico (ginecologa). Aderente dal 1905 alla Gesellschaft für Rassenhygiene (Società d'igiene razziale), e al Bund für Mutterschutz (Lega di protezione materna), una delle rarissime donne ammesse a collaborare agli Archiv für Rassen- und Gesellschaftsbiologie (Annali di biologia razziale e sociale), una delle rare donne reclutata, nel 1919, dall'Istituto Kaiser-Wilhelm. Prima donna, infine, a ricevere "dalle mani stesse del Führer, la medaglia Gœthe per le arti e le scienze" per il suo lavoro al servizio dell'"igiene razziale". Si veda Liliane Crips, "National-féminisme et 'hygiène raciale': l'itinéraire d'Agnes Bluhm (1862-1943)", in Féminismes et nazisme, cit., pp. 96-108.

[14] Per un sintetico e articolato quadro d'insieme si veda Rita Thalmann, "La condition féminine sous le nazisme: entre tradition, modernité et hiérarchisation raciale", in Christine Fauré, Encyclopédie politique et historique des femmes, Paris, Puf 1997, pp. 623-642.
15] Oltre al saggio di Paul Pasteur, "Les sociales-démocrates face à l'austrofascisme et au nazisme", in Féminismes et nazisme, cit., pp. 132-147, si vedano anche gli articoli dello stesso e di Rita Thalmann in Austriaca, n. 17, 1983.

[16] Relativamente alla distinzione tra storiografia e memoria collettiva, Rita Thalmann ha sottolineato che questa "non è che relativa, nella misura in cui gli specialisti subiscono - consciamente o inconsciamente - la pressione della congiuntura, dello spirito del tempo (Zeitgeist) delle correnti di pensiero dominanti. Senza parlare del peso della loro propria esperienza, vale a dire della loro soggettività", "La double mémoire du passé dans l'Allemagne après l'unification", Sex et race, t. 8, 1993, pp. 149-161, p. 149.

[17] Ibid.

[18] E' il caso nella Rdt della Demokratischer Frauenbund Deutschlands (Federazione democratica delle donne tedesche) costituita nel marzo 1947, fiore all'occhiello della "rivoluzione antifascista democratica", che viene ad inserirsi in un quadro ideologico che privilegia "i concetti di 'militarismo', 'fascismo' e 'reazione' per dimostrare che il nazionalsocialismo non è di fatto che il prolungamento e il parossismo dello sfruttamento capitalista, che ha isolato le donne e le ha private di coscienza politica escludendole dal mondo del lavoro e della produzione ... Per una sorta di rivolgimento dialettico, sono le donne che, poiché hanno più patito la guerra - hanno perso marito, bambino, alloggio, dunque tutto quello che, secondo le parole del presidente Wilhem Pieck, 'costituiva il senso della loro vita' - sono chiamate irresistibilmente a giocare un ruolo redentore: esse reintrodurranno nella politica maschile, generatrice di guerra, l'elemento compensatore materno". Corinne Bouillot, "La genèse du mouvement des femmes de Rda: les ambiguïtés de l''antifascisme' féminin (1945-1950), Féminismes et nazisme, pp.185-191, pp. 186 e 187-188. L'enfatizzazione posta sulla missione della donna tedesca, costruttrice di pace in virtù delle sue doti materne, presiede a una presunta "analisi" del nazismo che occulta il trattamento differenziale subito dai diversi gruppi di donne in ragione della loro "razza".

[19] Adam und Margarete Mitscherlich, Die Unfähigkeit zu trauern, München, Piper, 1967, tr. it., Germania senza lutto. Psicoanalisi del postnazismo, Firenze, Sansoni, 1970.
20] Liliane Kandel, "Femmes, féminismes, nazisme, ou: on ne naît pas innocent(e), on le devient", cit., p. 19. Sulle torsioni subite dall'originaria affermazione femminista "il personale è politico" si veda Liliane Kandel, "Du politique au personnell: le prix d'une illusion", in Crises de la société, féminisme et changemment, Colloque Gef, Paris, Tierce, 1991.
[21] Claudia Koonz, Les femmes, le nazisme et la banalité du mal, in Féminismes et nazisme, p. 209. Koonz sottolinea che un gran numero di film realizzati nella Rft (da cineasti uomini) rappresentano le donne come innocenti e non implicate nei crimini nazisti. Si veda la trilogia di Fassbinder, Lilli Marleen, Maria Braun e Veronika Voss che mette in scena donne non toccate né dall'ideologia nazista, né dalla politica in genere; così come taluni film di cineaste quali Deutschland bleiche Mutter (Germania pallida madre) di Helma Sanders-Brahms.
[22] Su questo aspetto del nazionalsocialismo si veda Rita Thalmann, "Le national-socialisme: logique extrême du monopole culturel masculin", Revue d'en face, n. 14, 1983, pp. 45-55.
[23] Liliane Kandel, "Une pensée empêchée: des usages du 'genre', et de quelques-unes de ses limites", Les Temps Modernes, n. 587, 1996, pp. 220-248, p. 221. Kandel fa qui riferimento al massiccio impiego in ambito femminista di metafore che rimandano al regime nazista (le nuove tecniche riproduttive costituiscono la "soluzione finale" alla questione delle donne, i processi per stregoneria un "ginocidio" etc.) Oltre il rischio della banalizzazione, su cui è il caso di riflettere in tempi di imperante revisionismo, l'uso di metafore improntate al periodo nazista è tristemente omologo a quello compiuto dagli oppositori all'aborto, nemici giurati dell'autodeterminazione delle donne: la pillola abortiva Ru 486 è "lo Zyklon B moderno", l'interruzione volontaria di gravidanza è "il nuovo olocausto", le Ntr "deportazioni contro natura". Il capostipite di questo stile può essere rinvenuto in William Brennan, The Abortion Holocaust. Today's final solution, Saint Louis, Landmark Press, 1983. Per una analisi di queste metafore nei gruppi antiabortisti in Francia si veda Fiammetta Venner, "'Hitler a tué seulement six milions de juifs'. Sur le discours des adversaires de l'avortement", Mots, n. 44, 1995, pp. 57-69. In Italia queste metafore sono state usate anche da alte cariche dello stato e da rappresentanti dei vertici della chiesa. Due esempi: Antonio Guidi, all'indomani della sua nomina a ministro della famiglia per il governo Berlusconi dichiara che "l'interruzione di gravidanza alla più piccola malformazione è l'anticamera della selezione nazista della razza", si veda Paola Tavella, "Guidi straparla", Il Manifesto, 19.5.94, p. 7; più recentemente l'arcivescovo di Bologna Biffi, nel celebrare "la giornata della vita" ha definito l'aborto "massima vergogna del '900 che pure ha conosciuto le più orrende infamie della storia, come i molti e diversi genocidi che sono stati perpetrati", si veda Andrea Chiarini, "L'aborto peggio dei lager. Il cardinal Biffi all'attacco", La Repubblica, 1.2.98, p. 25.
[24] Rinvio all'introduzione all'edizione italiana del già citato volume di Claudia Koonz per un esaustivo resoconto degli studi femministi pioneristici su queste questioni. La discussione femminista su questi temi ha recentemente dato luogo ad accese polemiche, tra le quali paradigmatica è quella che ha contrapposto Claudia Koonz e Gisela Bock, che trova ampio resoconto in Féminismes et nazisme, e quella che ha accompagnato l'uscita del film di Helke Sander BeFreier und BeFreite (1991), riguardo alla quale si veda il dossier "Femmes et guerres" in Cahier du Grif, "Chair et Viande", 1996, pp.111-140.

[25] Liliane Kandel, "Femmes, féminismes, nazisme, ou: on ne naît pas innocent(e), on le devient", cit., p. 18.
[26] Questa presunzione di alterità è forse una delle principali ragioni della generale assenza delle donne dall'Historikerstreit.
[27] Liliane Kandel, "Une pensée empêchée: des usages du 'genre', et de quelques-unes de ses limites", cit., p. 233.

[28] Ibid., p. 223.

[29] Antoinette Fouque, "La république des fils", Passages, n. 38, Mai 1991, pp. 91-97, p. 97.

[30] Cfr. Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, New York-London, Holmes & Meier, 1985, tr. it., La distruzione degli Ebrei d'Europa, Torino, Einaudi, 1995. Per osservazioni critiche sulla traduzione italiana si veda il saggio di Marina Cattaruzza, Passato e Presente, n. 41, Maggio-Agosto 1997.
[31] Liliane Kandel, "Femmes, féminismes, nazisme, ou: on ne naît pas innocent(e), on le devient", cit., p. 24.