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venerdì 3 aprile 2015

La cataratta del cardinale

"La cataratta dell'ideologia del gender che impedisce di vedere lo splendore della differenza sessuale" (il cardinal Caffarra rivolto "ai giovani" nell'omelia della Veglia delle Palme di qualche giorno fa nella cattedrale di San Petronio a Bologna)

sabato 11 maggio 2013

Contro / Versa

Contro versa è il titolo di un volume appena pubblicato da Sabbiarossa edizioni che non ho ancora letto ma che mi incuriosisce molto a dispetto della frase di Luce Irigaray scelta come esergo e della mia lontananza intellettuale e politica da madri simboliche, dimensione verticale della genealogia e fedeltà al (proprio) sesso che sembrano essere (almeno a leggere frammenti della prefazione) centrali nel libro. Nello stesso tempo però le "genealogie impreviste di nate negli anni 70 e dintorni" (così recita il sottotitolo del volume) e la centralità data a percorsi che si muovono da/verso sud (un sud, anche femminista, per molte ancora estraneo e/o "altro") mi fanno venir voglia di leggerlo. Senza contare che conosco (e stimo) una delle autrici, e di altre conosco il lavoro. Contro versa dunque, con saggi di: Doriana Righini, Denise Celentano, Giovanna Vingelli, Lucia Cardone, Ivana Pintadu, Loredana De Vitis, Pina Nuzzo, Angela Ammirati, Alessandra Pigliaru, Monia Andreani e Federica Timeto

sabato 23 febbraio 2013

Elezioni, donne, bambole e sante

Una noiosa influenza mi costringe in casa, il mal di testa mi impedisce di dedicarmi a letture più impegnative, quindi mi ritrovo a fare zapping davanti alla tv e al pc, aggiornandomi - in extremis - sul tema per me poco entusiasmate delle elezioni "al femminile". Passo in un crescendo di sgomento dalla lettura del manifesto Sono una donna non sono una bambola pubblicato a pagamento sul Corriere della Sera da un lungo elenco di "donne comuni" (parrucchiere e avvocate, pensionate e casalinghe, giovani e meno giovani ) che annunciano la loro volontà di votare Berlusconi "per la loro libertà" perché "le donne sono uguali e ciascuna è diversa ... ci rispettiamo e vogliamo rispetto", alla campagna sociale - che ha ottenuto il patrocinio di Pubblicità Progresso - Se crescono le donne, cresce il Paese di Snoq, affiancata dalla campagna di mobilitazione video Un paese per donne: le parole per dirlo, "una rappresentazione corale delle condizioni, delle idee e dei desideri delle donne, dal Sud al Nord". Anche qui infine le donne sono tutte diverse e tutte uguali: come sottolinea Simona De Simoni "C’è la studentessa, la professionista rientrata dall’estero, la vittima di tratta, la casalinga, la manager, l’operaia, la madre, la single", ma "tutte chiedono più lavoro, più riconoscimento, più merito (manco a dirlo), più conciliabilità con gli impegni famigliari. Tutte sognano la stessa vita e lo stesso tipo di realizzazione personale: dividersi equamente e serenamente tra il lavoro e il privato (generalmente nella forma della famiglia)". Sullo sfondo in entrambe le prese di posizione emerge la richiesta del riconoscimento di una "specificità femminile", che per le une "è di genere (le donne partoriscono, gli uomini fecondano) non sociale o culturale o politica" per le altre si materializza nei "temi delle donne" da inserire nell'agenda politica: "a cominciare dalla conciliazione dei tempi casa-lavoro, ai servizi, a una riforma del welfare che non faccia pagare solo alle donne il peso della crisi". Una lettura annichilente (Giorgia Meloni che condanna l'ultima trovata omofoba dei sui "fratelli" di partito meriterebbe discorso a parte, ma rinviamo a un post di qualche anno fa, ancora attuale), che ci da la misura del baratro in cui è sprofondato questo paese, ma anche di quanto sia importante continuare a lavorare, a valorizzare e dare visibilità a punti di vista femministi critici, che fortunatamente non mancano // Il video è la registrazione dell'esibizione di Rosanna Fratello a Canzonissima nel 1971, lo stesso anno della pubblicazione di La donna clitoridea e la donna vaginale nei Libretti Verdi di Carla Lonzi / Rivolta Femminile

martedì 27 novembre 2012

Lo schermo del potere al Torino Film Festival

In collaborazione con il Torino Film Festival, il Museo Nazionale del Cinema ospita, mercoledì 28 novembre, alle ore 17.00, nella sala eventi della Bibliomediateca, la presentazione del volume Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità di Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi. Ne discuteranno con le autrici Liliana Ellena e Alina Marazzi // L'immagine, tratta dalla copertina del libro, è - come avevamo già avuto modo di segnalarvi - un'opera di Birgit Jürgenssen, Gladiatorin, 1980

sabato 27 ottobre 2012

Gender Bender / Lo schermo del potere

Nel ricchissimo programma di Gender Bender 2012 - che si è inaugurato oggi con un flash mob in piazza Nettuno - anche la presentazione del volume di Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi Lo schermo del potere (Ombre corte, 2012). Per ulteriori dettagli sulla presentazione - che si terrà il 2 novembre presso la Libreria Ambasciatori - rinviamo alla pagina specifica sul sito del festival. Vi aspettiamo!

sabato 13 ottobre 2012

La differenza che cancella le differenze

Sul numero di ottobre di Alfabeta un inserto è dedicato al seminario di Uninomade del giugno scorso a Napoli, Per una lettura materialista di razza e genere. La differenza che cancella le differenze è il titolo di un breve contributo che riassume l'intervento al seminario di Alessandra Gribaldo, Giovanna Zapperi e la sottoscritta, intervento in cui ponevamo/poniamo alcune domande che spostano il fuoco dalla valorizzazione della differenza sessuale in quanto dimensione ontologica dell'umano alle modalità della sua produzione in termini di rapporti di potere e di conflitto: "Cosa conta come differenza, chi decide chi è differente e da chi, quali differenze sono più visibili o significative di altre, quali differenze costituiscono un problema, quali sono negate, quanto la nozione di differenza ingloba e rende invisibile la disuguaglianza, in che termini le differenze sono storicamente prodotte? [...] Agire le differenze come dimensione plurale e non come cornice naturalizzata permette di rimettere al centro le conflittualità che costituiscono la vitalità e l'attualità di una prospettiva femminista"

mercoledì 19 settembre 2012

Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità

Tra qualche ora sarà finalmente possibile precipitarsi in libreria per accaparrarsi una copia ancora fresca di stampa di Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità, l'ultima fatica di Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi, appena data alle stampe da Ombre Corte. L'immagine di copertina - un' opera del 1980 dell'artista Birgit Jürgenssen, Gladiatorin -, illustra efficacemente la chiave di lettura proposta dal volume sull'intreccio tra genere e cultura visiva: la necessità di cogliere "la complessità dei rapporti di potere che si esprimono attraverso le immagini senza cedere alla nostalgia di un femminile autentico" e guardando i corpi nella loro materialità che è anche "uno spazio attivo di resistenza, di lotta, di azione e di sfida". Poiché mancano alcune ore all'apertura dei negozi, nell'attesa vi proponiamo la lettura della premessa del volume, ringraziando autrici ed editore per la condivisione: "Questo testo è nato dalla necessità comune, teorica e politica insieme, di elaborare una riflessione femminista sull’intreccio tra genere e visualità a partire dal contesto italiano. Il tema dell’immagine femminile si è imposto in termini di emergenza in concomitanza con gli scandali sessuali che hanno accompagnato il declino berlusconiano, fortemente caratterizzato dalla rinnovata visibilità di immaginari e comportamenti sessisti. Il nostro contributo si riaggancia alla radicalità femminista come chiave di lettura del presente, nella possibilità di riconnettere elementi nodali della contemporaneità a partire dal genere. Invece di soffermarci sulla riduzione del genere femminile ad immagine erotizzata e asservita e sul suo rapporto più o meno diretto con la condizione delle donne in Italia, siamo partite da una critica della rappresentazione come ambito sessuato e dalle risposte date dai movimenti legati al femminismo. Si tratta infatti di tematizzare una serie di questioni sollevate dagli scandali, ma che sono state costantemente rimandate a tempi più opportuni, fuori dalla contingenza e da un’emergenza che sembrava richiedere una risposta senza scarti, immediata, compatta, condivisa. Da questo punto di vista la caduta di Berlusconi ha avuto un effetto ulteriore di chiusura nei confronti di posizioni critiche, in un contesto in cui l’unità viene presentata come condizione indispensabile per uscire dalla crisi politica ed economica che sta attraversando l’Italia. La questione della visualità si è affermata esclusivamente nei termini di un problema, poi rapidamente accantonato per dare spazio ad altre tematiche ritenute di maggiore rilevanza politica, con l’effetto di dare per scontato, lasciandolo indiscusso, un campo di analisi decisivo. A fronte dell’emergenza rappresentata dalla crisi economica, i temi relativi al genere sono infatti stati messi da parte come secondari, se non addirittura superflui, mentre il ribaltamento “d’immagine” ai vertici dello stato è stato funzionale al depotenziamento delle istanze più critiche interne al femminismo. Se da una parte è evidente come la produzione del genere funzioni all’interno di una serie di dispositivi di dominio che coinvolgono fortemente il campo visivo, dall’altra il problema identificato con l’immagine femminile è stato percepito nei termini di uno schermo, come qualcosa che blocca la visione, impedendo alla realtà – delle “donne” come categoria, della condizione femminile – di emergere in modo intelligibile. La “dignità delle donne” offesa dai modelli femminili veicolati dai media è stato l’oggetto attorno al quale si è cristallizzata l’attenzione dell’opinione pubblica. È proprio attraverso l’analisi della formazione di questo luogo produttivo di istanze sul genere che è possibile sciogliere ed evidenziare l’intreccio che lo costituisce. Un intreccio estremamente complesso e storicamente determinato, affatto scontato, attraverso il quale è possibile analizzare le modalità dello sguardo che costruisce l’alterità, dove la categoria di genere non può darsi da sola, ma va sempre articolata insieme a quelle di razza, sessualità, classe. La dimensione visiva costringe a confrontarsi con le tematiche dell’origine e dell’autenticità, dell’autorappresentazione, della soggettività, dell’agency.L’immagine del femminile appare dunque come un prisma che rifrange i rapporti tra le generazioni, il razzismo e l’omofobia dilaganti, lo scambio sessuo-economico, le nuove forme del lavoro. Si tratta di nodi attraversati dalla produzione del genere nell’Italia contemporanea, dove il genere emerge come una dimensione strutturalmente più complessa rispetto alla focalizzazione sulla donna e sulla sua immagine degradata. Il visuale è un ambito cruciale per la riflessione femminista a partire da una problematizzazione di questioni che coinvolgono una molteplicità di soggetti che non si identificano necessariamente con la categoria “donna”. L’immagine e le forme di assoggettamento nelle quali quest’ultima è coinvolta sono infatti inscindibili dalle molteplici articolazioni attraverso le quali vengono prodotte le differenze. L’immagine femminile come schermo del potere ha una duplice valenza: da una parte è ciò che nasconde le dinamiche di potere attraverso processi di naturalizzazione e legittimazione, dall’altra rappresenta anche un campo politico di negoziazione e di conflitto, prodotto e sito di produzione insieme. Un femminismo dell’emergenza, che risponde all’insofferenza collettiva nei confronti di rappresentazioni sessiste può solo rigenerarsi attraverso una teoria critica. L’inchiesta teorica e intellettuale non può non intrecciarsi con quella politica: la critica ha un ruolo fondamentale da svolgere in una situazione come quella dell’Italia contemporanea, dove l’esigenza di unità e le larghe convergenze vengono presentate come una necessità per fronteggiare l’emergenza, e dove di conseguenza ogni posizione critica tende ad essere bollata come superflua, se non addirittura dannosa. È necessario infatti superare risposte sostanzialmente difensive che vedono nell’espressione di un ripensamento delle categorie e nella rivendicazione di soggetti “dissonanti”, un mero ostacolo ad una politica condivisa. Teoria e politica non possono essere separate né contrapposte, come se la teoria fosse un elemento che può essere legittimato solo in contesti non “emergenziali”, etichettandolo come prematuro, untimely, fuori luogo: la teoria critica permette di contestare il senso stesso di un tempo legittimo che la esclude sistematicamente (Brown 2005, p. 4). Nel far emergere in modo sempre più evidente un’impossibilità di distinguere tra politico e privato, gli eventi politici italiani e globali danno ragione alle ragioni del femminismo. Se “il tempo è adesso”, non abbiamo bisogno di redenzione per fare posto ad un’immagine di donna integra e dignitosa, quanto piuttosto di reinvenzione. La critica dei processi di naturalizzazione dell’alterità, di cristalizzazione delle identità, di cooptazione di ogni diversità, di criminalizzazione e marginalizzazione del conflitto, di razzializzazione della società, è centrale per una politica femminista. Le tematiche relative alla femminilizzazione del lavoro, nel senso dell’estensione delle caratteristiche storicamente attribuite al lavoro femminile, di cura e riproduttivo a tutta la sfera lavorativa, l’intreccio tra identità, politica e rivendicazioni di posizioni situate, la violenza strutturale di un sistema produttivo, sono diventate snodi centrali a partire dai quali ripensare possibili politiche del comune. Contro la tentazione di mettere da parte posizioni critiche in nome di rivendicazioni focalizzate su un soggetto unitario, una riflessione femminista che faccia proprio il nodo che lega visualità, genere e produzione della differenza permette di cogliere alcuni aspetti cruciali del presente aprendo anche delle possibilità trasformative. Se infatti il campo del visivo è attraversato dai rapporti di dominio, nella sua componente più instabile e mutevole l’immagine può rappresentare anche un’apertura, una possibilità, le cui potenzialità sono nelle nostre mani".

domenica 17 giugno 2012

UniNomade / Composizione di classe e frammentazione nella crisi: per una lettura materialista di razza e genere

Composizione di classe e frammentazione nella crisi: per una lettura materialista di classe e genere è il titolo del prossimo seminario di UniNomade, che si terrà a Napoli il prossimo 23 e 24 giugno. Un seminario, come si legge nella presentazione, "per discutere di razza e genere nel capitalismo contemporaneo", per ripensare da una parte "la cassetta degli attrezzi dell’operaismo nel capitalismo globale e postcoloniale e dall’altra (e soprattutto) provare a dipanare l’intricata matassa del rapporto tra classe, comando e strutture di mediazione". Il seminario è strutturato in tre sessioni: Valorizzazione capitalistica delle differenze e produzione di soggettività (introduzione di Anna Curcio, interventi di Enrica Capussotti, Alfonso De Dito, Laboratorio Sguardi Sui Generis, discute Sandro Mezzadra), Identity Politics e critica dell’identità (introduzione di Giso Amendola, interventi di Judith Revel, Nina Ferrante, Alessandra Gribaldo, Vincenza Perilli, Giovanna Zapperi, discute Miguel Mellino) e Teoria/pratica del comune. Strumenti di inchiesta e pratiche di riappropriazione al di fuori dei modelli di welfare, famiglia e cittadinanza (introduzione di Roberta Pompili, interventi di Cristina Morini, Laboratorio Smaschieramenti, Francesco Festa, Giso Amendola). Sul sito di Uninomade il programma dettagliato e alcuni materiali di approfondimento

giovedì 10 maggio 2012

Colori, bandiere e permessi : il banco di prova della "differenza"


Colori, bandiere e permessi è il titolo del primo dei tre seminari (i successivi ci terranno l'1 e 15 giugno) organizzati a partire dalla pubblicazione del dizionario Femministe a parole. Grovigli da districare, a cura di Sabrina Marchetti, Jamila M.H Mascat e Vincenza Perilli. L'incontro - coordinato da Sabrina Marchetti - si terrà domani, venerdì 11 maggio, alle ore 18.30 presso il Caffè letterario della Casa Internazionale delle Donne a Roma, con la partecipazione di Silvia Cristofori,Valeria Ribeiro Corossacz, Sonia Sabelli, autrici di alcune delle voci di Femministe a parole

lunedì 5 marzo 2012

Corpi senza frontiere. Il sesso come questione politica

Corpi senza frontiere. Il sesso come questione politica è il titolo del volume, appena pubblicato da Dedalo di Caterina Rea, docente di filosofia all’Université de Louvain-la-Neuve in Belgio e autrice di numerosi articoli e volumi, tra i quali Dénaturaliser le corps. De l’opacité charnelle à l’énigme de la pulsion (2009). L'assunto di base che sostiene Corpi senza frontiere, è che il sesso è un prodotto storico, un’"invenzione" umana che traduce rapporti di dominio e si esprime in un particolare sistema di potere. Di seguito pubblichiamo alcuni stralci dell'introduzione, Dalla natura umana all’istituzione. "La tesi di questo libro, poco condivisa dal sentire comune, ma affermata dal costruttivismo sociale, è che il sesso sia un prodotto storico, un’invenzione umana che traduce rapporti di dominio e si esprime in un tipo particolare di sistema di potere. Le sfere del corpo e del sesso sono state a lungo considerate dalle scienze umane e sociali come una dimensione privata e intima, sottratta al divenire della storia, dell’istituzione sociale e della discussione politica. Così, una certa fenomenologia del corpo ha preteso di rivelarne la dimensione eidetica, intesa come un in sé, un proprio che precede ogni produzione sociale e storica. Allo stesso modo, la psicoanalisi ha elaborato norme universali (il complesso di Edipo, l’ordine simbolico e talvolta perfino una comprensione biologizzante della pulsione) che pretendono di definire lo sviluppo psico-sessuale dell’individuo. In maniera analoga, benché ciò possa apparire a prima vista sorprendente, persino talune prospettive socio-antropologiche e giuridiche hanno posto al centro delle loro analisi la distinzione tra naturale e social-culturale, ma anche tra privato e pubblico, distinzione che non è stata senza conseguenze nell’ambito delle accese discussioni e decisioni politiche riguardanti i moderni cambiamenti socio-familiari. Per chiarezza desidero precisare che questo libro non si richiama volutamente al femminismo storico italiano e non si inscrive nella continuità con il pensiero della differenza sessuale che questo incarna, soprattutto attraverso la Comunità filosofica femminile Diotima a Verona. Due parole per motivare questa presa di distanza: pur affermando la necessità di una pratica che conduca alla politicizzazione del sesso, il femminismo differenzialista non fa propria la lettura denaturalizzata del mondo e dei rapporti sociali che è per noi la sola possibile premessa di una visione politica laica, libera dal peso di ogni riferimento metafisico, da ogni appello a un presunto originario o, più generalmente, da ogni riferimento meta-storico. Che cos’è infatti questa «donna», questo «femminile» a cui il pensiero della differenza fa riferimento? Si tratta di qualcosa che esiste prima dei rapporti sociali di potere propri del patriarcato e della sua organizzazione del mondo in dominatori e dominati? Insomma la differenza sessuale incarna un ordine ontologico, un senso in sé inscritto nelle cose oppure una configurazione universale dello psichismo umano? Un passo di Luisa Muraro ci sembra illustrare come la pratica di questo femminismo presupponga la pretesa di raggiungere un «senso vero dell’esperienza femminile». Questa pratica consiste infatti nel «risalire alle origini seguendo una genealogia femminile, così da trovarvi la fonte della propria forza originale, della propria originalità». Gli accenti naturalistici del femminismo della differenza si fanno ancora più forti nella produzione della psicoanalista Silvia Vegetti-Finzi che, in un testo pubblicato nel 1992, riprende il paradigma, già affermato da Freud, di una vicinanza originaria del femminile alla natura. Se così la relazione madre-figlia, come afferma lo stesso Freud, precede il linguaggio e il simbolico in quanto creazione storico-sociale, l’emancipazione femminile non potrà prescindere da un ripensamento del legame della donna con la natura. Si tratterebbe allora di riconoscere il ciclo biologico e il posto che, in esso, hanno le donne, al fine di elaborare una soggettività femminile capace di opporsi all’impresa maschile di dominio e di sfruttamento della natura. La via dell’emancipazione femminile passerebbe dunque, secondo la Vegetti-Finzi, per "Il compito di volgere al femminile il discorso sul femminile, cioè di avere il coraggio di ritrascrivere, ritradurre in un codice femminile (assumendo la soggettività femminile) il discorso che l’uomo ha elaborato su di noi e con il quale ci siamo così profondamente identificate". Siamo al nodo di questo mio libro che ha per obiettivo proprio la ricerca di un senso originario delle cose, l’idea che esistano modelli universali cui richiamarsi, fatta propria da chi postula una differenza intima, ontologica, essenziale e persino simbolica della donna. Questa differenza è invece solo e soltanto il prodotto della storia ispirata dalle logiche del patriarcato e dalla violenza della dominazione maschile. Quando si reclama il diritto alla differenza, afferma la sociologa francese Colette Guillaumin, da una prospettiva apertamente anti-naturalista, non si tiene conto del fatto che nessuno vorrà negarla, questa differenza, ai gruppi dominati, in quanto essa è il marchio stesso dello sfruttamento. «Reclamare la differenza come qualcosa di mirabile significa accettare la perennità del rapporto di sfruttamento. Significa pensare, a nostra volta, in termini di eternità». Nel corso di questo saggio, riprenderemo il pensiero di quelle femministe materialiste che affermano che i gruppi sociali non sono identità originarie, naturali o comunque precedenti l’organizzazione istituita, ma il prodotto di rapporti storici di potere e che il sesso, come la razza, deve essere considerato «come un marchio biologizzato che segnala e stigmatizza una “categoria alterizzata”». In Italia, come del resto negli Stati Uniti, il femminismo materialista francese è pressoché sconosciuto. Il cosiddetto French Feminism è identificato esclusivamente con le posizioni di Luce Irigaray, di Julia Kristeva e di Hélène Cixous che sono fautrici di un pensiero differenzialista ispirato a una rielaborazione della psicoanalisi lacaniana. Nel femminismo differenzialista manca, a nostro avviso, un’analisi compiuta della dominazione maschile, cioè la consapevolezza del fatto che è proprio del potere il qualificare come differente l’altro/a, il/la dominato/a. Com’è possibile infatti sostituire all’ordine simbolico patriarcale ciò che viene chiamato l’ordine simbolico della madre (genealogia femminile) se tale passaggio non tocca in profondità i rapporti effettivi di potere? Mi riferisco alla diversità, stabilita dalla stessa Muraro, tra ordine simbolico e ordine sociale. Una diversità che impedisce di vedere come l’ordine simbolico, centrato sulla differenza dei sessi, incarni, di per sé, l’apparato discorsivo e di sapere insito nel patriarcato in quanto insieme di rapporti sociali di sesso. Se l’ordine simbolico della differenza costituisce la dimensione discorsiva, linguistica e di sapere propria di una cultura, esso sostiene, veicola ed è al contempo l’espressione di un dispositivo di potere, di una certa strutturazione della trama delle relazioni sociali. In breve, l’ordine simbolico centrato sulla differenza non sfugge all’ordinamento patriarcale. Non a caso, forse, il differenzialismo rifiuta di far proprie le rivendicazioni di eguaglianza di diritti e di parità affermate dalla corrente del femminismomaterialista e radicale, ritenendo che esse portano a cancellare la specificità di quella differenza femminile ritenuta centrale.Alla base del rifiuto della rivendicazione di eguaglianza vi è dunque il timore dell’omologazione, il timore che, attraverso le pratiche emancipatorie, le donne siano costrette ad adeguarsi ai modelli maschili vigenti.Ma questo timore non ha ragion d’essere, come ha giustamente mostrato la critica di Christine Delphy; la paura dell’indifferenziazione vuole evitare "Che tutti si allineino al modello maschile attuale. Sarebbe, si dice spesso, il prezzo da pagare per l’eguaglianza, un prezzo troppo alto. Questa paura proviene da una concezione statica, dunque essenzialista, degli uomini e delle donne, corollario della credenza secondo la quale la gerarchia sarebbe in qualche modo sovrapposta a questa dicotomia essenziale. Ma, nella prospettiva del genere, questa paura è semplicemente incomprensibile. Se le donne fossero uguali agli uomini, gli uomini non sarebbero più eguali a se stessi. Perché allora le donne dovrebbero farsi simili agli uomini in ciò che essi avrebbero cessato di essere?". Sarebbe infatti impossibile assomigliare agli uomini in quanto dominatori e violenti dal momento in cui sono stati eliminati i pilastri stessi dell’ordine della dominazione e della sopraffazione. Una volta soppressa una della due categorie – dominatori/dominati –, è la logica stessa della dominazione, che sottende l’ordine patriarcale, a essere come tale eliminata. A questo punto si impongono alcune domande. Perché l’Italia ha storicamente prodotto in prevalenza un femminismo della differenza? Perché la nozione di differenza, in quanto effetto di rapporti di dominazione, è restata così a lungo un impensato e forse un impensabile? Perché in questa prospettiva il genere non figura se non come espressione linguistica che si fonda su una differenza di sesso pre-data e non come quell’apparato di potere che pone e stabilisce la differenza?. L’Italia sembra pagare, anche in questo caso, l’alto prezzo della presenza invadente del Vaticano e del potere della Chiesa Cattolica che limita ogni forma di pensiero critico, portatore di una visione denaturalizzata, costringendo gran parte dello stesso femminismo a una visione teologico-politica del mondo. Finisce qui almeno per il momento il mio incipit polemico. Si cercherà d’ora in poi di disegnare le diverse forme in cui si esprime la naturalizzazione dell’umano per smascherarne la portata, non solo teorica, ma soprattutto sociale e politica. Beninteso, tali forme di naturalizzazione non si riportano tutte a quel riduzionismo biologico e cognitivo che oggi si estende innegabilmente sempre più dall’ambito delle neuroscienze a quello delle scienze umane e sociali. Tra queste diverse espressioni di una lettura naturalizzata dell’umano, della sua vita corporea, sessuale e persino socio-affettiva o familire, includiamo ogni tentativo di sottrarre queste stesse sfere al divenire politico, ai mutamenti sociali e storici dell’istituzione. Si tratterà allora, ogni volta, di rovesciare le pretese di certezza avanzate da queste prospettive. Passeremo, in questo modo, attraverso la fenomenologia del corpo, ridefinita come fenomenologia dell’opacità, per indicarne lo scacco nella pretesa di pervenire a un’auto-donazione del senso. Analizzeremo, seppur in breve, il riduzionismo neuroscientifico, per denunciarne il rilancio della nozione di natura umana. Attraverseremo, quindi, la teoria freudiana della sessualità per rovesciarne la dimensione ancora biologizzante in una lettura defunzionalizzata della pulsione. Infine, cercheremo di sovvertire quel granitico monolite che è l’ordine simbolico, dietro al quale si trincerano oggi quelle posizioni conservatrici che vorrebbero frenare i cambiamenti sociali. Particolarmente quei cambiamenti che investono sempre più l’ordine sessuale che fissa i rapporti di potere tra i sessi e struttura l’ordine familiare centrato sul primato della legge fallica e paterna. Il ricorso alla naturalizzazione e all’essenzializzazione delle differenze non risponde proprio alla logica politica della dominazione, così come ci insegnano recentemente gli studi di genere e post-coloniali? Se non esiste un senso univoco, immediato e universalmente dato, se la nozione di natura umana, cara alla tradizione metafisica e reinvestita dalle attuali neuroscienze, si rivela come priva di valore, quella sfera del senso, entro la quale l’umano si muove, ci apparirà ben più incerta, senza garanzie, problematica. Essa non è infatti manifestazione di un ordine trascendente e immutabile, ma il prodotto di una creazione umana, una produzione della storia e delle istituzioni, sempre anche attraversate da rapporti di potere, da gerarchie e interessi che si tratterà di volta in volta di ritrovare. In queste pagine si avverte una duplice tensione: quella che lega la riflessione sull’istituzione storico-sociale, propria di Cornelius Castoriadis, e quella che mette in luce le logiche dei rapporti di potere, delle forme di dominazione e di esclusione elaborate dal filone foucaultiano degli studi di genere e degli studi post-coloniali. Attraverso questi molteplici riferimenti, cercheremo quindi di mettere a confronto queste due tradizioni – castoriadiana e foucaultiana – che fino ad ora sono rimaste spesso separate, ma il cui confronto ci appare essenziale per l’elaborazione di una critica sociale radicale. La nostra corporeità, così come noi ne abbiamo esperienza, non precede il processo della sua materializzazione, cioè la sua produzione attraverso la trama simbolica delle significazioni sociali e storiche, di regole e norme, pratiche ed espressioni culturali che la costituiscono e la producono come umana. In questa direzione, discuteremo l’idea di base naturale che non è da intendere come un prima rispetto alla produzione sociale: in quanto in sé inaccessibile, poiché non trasparente e immediatamente data, essa è incessantemente elaborata e persino prodotta dalle forme culturali e linguistiche, dalle pratiche discorsive e normative, cioè dalla storia. In questo senso, come afferma chiaramente la filosofa americana Judith Butler, la materia stessa del nostro corpo è storica, deposito di sedimentazioni dei discorsi e delle pratiche che di volta in volta l’hanno istituita. Più in generale, mostrare che il corpo non è subordinato a un senso primario e naturale che esso dovrebbe riprodurre fedelmente significa affermare che ogni scarto o differenza rispetto a questo «modello» supposto originario non è riconducibile a uno scacco, a una forma devalorizzata di esistenza in quanto contraria ai dettami della natura umana. Ciò cui siamo ogni volta confrontati è piuttosto una delle svariate modulazioni e possibilità non riducibili a un’identità prima, è una produzione o copia senza modello o, per dirlo con la Butler, «un’imitazione senza originale». La nozione di genere introdotta dai Gender Studies americani, ma anche dal femminismo materialista francese ci sembra a questo proposito di primaria importanza. In quanto non fondato su una presunta anteriorità ontologica e naturale del sesso, essa ci appare come l’esempio di ciò che intendiamo per denaturalizzazione. In questo senso, il genere è proprio una produzione senza originario, una categoria critica che permette di leggere i rapporti di potere istituiti come rapporti non necessari e aperti a possibili contestazioni e trasformazioni. Non si tratta di riprendere semplicemente la versione corrente della teoria della performance come se essa fosse l’espressione di un soggetto volontaristico e individualistico capace di modificare il genere a suo piacimento quasi come si indossa ogni giorno un abito diverso. Ciò che intendiamo elaborare è una nozione di performatività come avvenimento storico e temporale, dunque come atto socialmente istitutito e istituente che forgia e plasma quelle differenze che venivano prima considerate come stabili, essenziali e originarie. Benché esso agisca sul piano del linguaggio, il performativo veicola pratiche normative e rapporti di forza. In questo senso, possiamo parlare di un’esplosione del soggetto storico del femminismo, cioè del fatto che esso non può essere circoscritto a una qualche differenza femminile chiusa in se stessa, alla figura quasi ipostatizzata di un «significante Donna» inteso come una realtà in sé, appartata rispetto al problema politico posto oggi sempre più dalle altre minoranze, da tutti quei gruppi resi subalterni e discriminati in funzione di criteri di sessualità, di razzializzazione o di classe sociale. Solo considerando questa condizione denaturalizzata dell’esistenza umana e del suo essere corporeo, già fin dall’inizio implicato in un mondo di significati sociali, linguistici e culturali, possiamo comprendere il valore della creazione immaginaria. Essa non conosce strade pre-tracciate, modelli eterni e immutabili ai quali attenersi nell’impeto incessante e sempre innovatore del suo produrre. Questo è anche il senso dell’istituzione in quanto cammino sempre aperto e senza garanzie, poiché si costruisce proprio mentre lo si percorre. Se noi cerchiamo di allontanarci da ogni visione essenzialista e naturalista del corpo e dell’umano, la nostra riflessione non giunge al suo termine se la corporeità, sottratta all’ordine naturale, è poi assegnata a un ordine simbolico concepito come trascendente e metastorico. Il gesto che mira a denaturalizzare e a de-ontologizzare il corpo non può realizzarsi senza sottoporre a critica anche la sfera dei significati, l’ordine simbolico appunto, al quale il corpo denaturalizzato è riassegnato. Come risignificare allora questa sfera simbolica non più come una struttura universale e permanente ma come una realtà contingente e mutevole, aperta alle svariate possibilità di trasformazione che la storia e il movimento stesso dell’istituzione potranno imprimerle? Si tratta di dare alla politica, in quanto creazione sociale, produzione di nuove norme, deliberazione e contestazione, un ruolo di primaria importanza per definire lo statuto stesso dell’umano e della sua corporeità. La recente politicizzazione delle questioni legate alla sfera corporea, sessuale e familiare (dall’evoluzione dei rapporti socio-familiari e di genere, alle nuove forme di legame parentale e di filiazione, dall’affermazione dei diritti sessuali e (non) riproduttivi alle possibilità aperte dalla procreazione medicalmente assistita) mostra l’irruzione dirompente sulla scena pubblica di quella sfera fino a poco tempo fa considerata come privata, sfera dell’intimo indipendente e avulsa dai cambiamenti della storia e dalle sue molteplici variazioni. Anzi, proprio sul terreno di queste questioni, alle quali il panorama socio-politico italiano si affaccia ancora timidamente ma non senza controversie e sussulti, si gioca oggi la tenuta stessa della democrazia e della laicità, intese come mancanza di ogni riferimento trascendente e sovrasociale, di ogni garanzia ultima che dovrebbe guidare e orientare le decisioni collettive. Se la sfera corporea e sessuale costituiva – e costituisce ancora in parte – l’ultima frontiera di una visione naturalizzata o comunque sacralizzata dell’umano, di un ordine considerato come ontologicamente estraneo alla contingenza delle vicende politiche, oggi questa sfera diviene sempre più oggetto di dibattito, di negoziazioni e di deliberazioni collettive, diviene cioè parte di quell’orizzonte della doxa che non conosce verità stabili e predefinite. Il concetto di democrazia sessuale utilizzato dal sociologo francese Eric Fassin ci aiuterà infine a precisare le poste in gioco politiche della denaturalizzazione e di una concezione della corporeità che la sottragga alla pretesa di accedere a un senso ultimo e immediato. Come vedremo, con questo termine si intende «l’estensione del dominio democratico, con la politicizzazione crescente delle questioni di genere e di sessualità che rivelano e incoraggiano le molteplici controversie pubbliche attuali» mostrando che questi ambiti non si sottraggono alle tensioni e alle trasformazioni che attraversano la sfera sociale(dal libro di Caterina Rea, Corpi senza frontiere. Il sesso come questione politica, pubblicato dalle Edizioni Dedalo).

mercoledì 25 novembre 2009

Stupri non denunciabili e cariche poliziesche durante la "giornata internazionale contro la violenza sulle donne"

Sappiamo che ci sono stupri non denunciabili, quelli cioè commessi da coloro che dovrebbero (secondo una certa retorica sessista e razzista) garantire la nostra "sicurezza". Lo sappiamo da tempo e da tempo abbiamo affermato che noi non siamo complici di quest'altra forma di omertà. Vogliamo denunciare la violenza esercitata sulle donne, migranti e non, tra le cosiddette pareti domestiche, i luoghi di lavoro e le parrocchie, come anche le questure, i carceri e soprattutto i Centri di identificazione ed espulsione. Per questo oggi, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, siamo state in tante, in diverse città, a scendere in strada con presidi itineranti, volantinaggi, scorribande contro-informative e striscioni che denunciavano quello che in tanti/e non vogliono vedere e cioè che (anche) nei Cie si stupra. E che a stuprare è la polizia, quella che mandano nelle strade per "difenderci". Non ci stupisce allora che sia stata proprio l'apertura di uno striscione che affermava questa scomoda verità a provocare una violenta reazione poliziesca a Milano. Poche ore fa, infatti, in Piazzale Cadorna, durante il presidio promosso dalle compagne milanesi che avevano aderito all'appello Noi non siamo complici!, presidio che aveva riunito diverse realtà femministe e antirazziste, alcune donne hanno aperto uno striscione: "Nei centri di detenzione per immigrati la polizia stupra". Immediata la reazione della polizia, la richiesta di chiudere lo striscione, il sacrosanto rifiuto. Partono le cariche, violente. Le/i contuse/i sono diverse/i. Intanto, a poche fermate di metro, in quelle stesse ore le femministe dette "storiche" della Libreria delle donne di Milano festeggiavano a loro modo la giornata internazionale contro la violenza sulle donne con un iniziativa dal titolo Diritti e castighi. Non avendo in questo momento energia e lucidità a sufficienza riprendo dal lancio di stampa dell'iniziativa: (e ad ognuna le proprie riflessioni): "Dal 2002 Lucia Castellano dirige la Seconda Casa di Reclusione di Milano-Bollate - un esempio di civiltà e innovazione unico in Italia -, affiancata da altre due donne: la Vice Direttora Cosima Buccoliero e la Comandante della Polizia Penitenziaria Alessandra Uscidda. Nel suo lavoro si orienta mettendo al centro l'attenzione e il rispetto per l'altro/a, considerando il potere come un'opportunità per poter fare, attraverso una capacità progettuale e trasformativa in grado di produrre cambiamenti significativi nel contesto in cui opera e in chi lo abita, rifiutando "la gelida cultura autoritaria e burocratica che domina il mondo del carcere», improntata «al machismo, alla prepotenza e alla vessazione". Doppia solidarietà alle compagne e alle/ai antirazziste/i di Milano.
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venerdì 15 agosto 2008

Différence, différences, disparités : pour une généalogie du pensiero della differenza sessuale

Continua da qui:

Suivre l’historicité des catégorisations et de la mise en comparaison des deux systèmes (sexisme et racisme) parallèlement aux développements de la notion de « différence » n’est pas une opération anodine, car cette notion est devenue mobilisatrice autour des années 1965-67 précisément dans les mouvements antiracistes, avec le mot d’ordre du « droit à la différence ». Si « une certaine réticence, un recul, vis-à-vis de cette notion » (Guillaumin, 1988 : 4) s’exprime très tôt dans les mouvements féministes et les mouvements antiracistes les plus attentifs à la reprise du terme de manière quasi-simultanée par des mouvements culturels de droite, il est indubitable que la notion de « différence » a été fondamentale dans l’élaboration théorique et la pratique de lutte des groupes et des mouvements qui, dans les années 70, avaient un projet de « libération » et, par-delà la diversité des approches, des méthodes, des outils théoriques, des contextes nationaux, jusqu’à la rhétorique du « respect des différences » qui, ces dernières années, a accompagné une certaine version banalisée du projet multiculturaliste.
Il est donc presque obligatoire, pour qui veut s’interroger sur les catégories de « sexe » et de « race » de considérer aussi le concept de « différence ».Le féminisme italien, « phénomène non seulement social et culturel mais aussi et surtout politique » (Rossi-Doria, 2005 : 5), a privilégié le thème de la différence, depuis les années 70 jusqu’à l’élaboration du concept de « différence sexuelle », visiblement « omniprésent » (Varikas, 2003 : 200) dans le débat féministe italien des années 80 et 90. Mais il serait erroné d’identifier rétrospectivement la « différence » des années 70 au concept actuel de « différence sexuelle » : déclinée souvent au pluriel comme le témoigne le nom d’une des revues de la période, Differenze [1], la « différence » a longtemps recouvert un ensemble de significations très large, relativement mouvant et hétérogène qui, sur la base de rapports non hiérarchisés, a aussi pu amener à la recherche de la différence entre femmes. Le féminisme italien des années 70, par la critique du concept de sororité (Womanhood is Sisterhood) et d’une conception simplificatrice de la « femme opprimée » — concepts qui, par delà leur importance stratégique dans la phase de constitution d’un sujet de lutte, pouvaient faire obstacle à l’émergence des différences entre femmes – semblait indiquer, même confusément, que cette émergence aurait pu permettre la prise en compte des autres « différences » (de classe, d’orientation sexuelle, d’âge, de « race » etc.). Certains usages de la notion même, là où il serait possible de succomber à « la tentation de donner à cette ‘différence’ le sens d’une ‘identité’ reconnue » (Melandri, 2005 : 93) comme dans les écrits de Carla Lonzi, peuvent être interprétés comme une simplification nécessaire à la phase de constitution d’un sujet de lutte, et non comme la découverte ou la manifestation d’une essence marquée par la « différence » [2]. Par contre, dans les années 80-90, et en particulier avec la publication de « Più donne che uomini » [3], de « Non credere di avere dei diritti » [4] par la Libreria delle donne et de « Diotima. Il pensiero della differenza sessuale » [5] par la Comunità filosofica Diotima, – certains usages, encore contradictoires, se cristallisent en une conception « rigide » de la « différence », qui a concouru à occulter d’autres « différences » et notamment celle de « race ». À travers ces livres, il est possible repérer un processus de sédimentation de la pensée de la différence. Le premier texte, « Più donne che uomini » – traduit en français à la même année – offre une première formulation du terme d’affidamento, entendu comme une relation privilégiée entre femmes basée sur des rapports duels d’allégeance entre deux femmes, où la femme la plus jeune, la plus faible et moins douée, « si affida » [6] à l’autre femme, qui est en position sociale, culturelle et/ou économique supérieure. En déplaçant la lutte du terrain de la « discrimination » à celui de la nécessité de créer les conditions pour vivre avec « agio » (« aise ») l’existence sociale, les auteures affirment la nécessité de tisser « une trame de rapports préférentiels entre femmes […], le monde commun des femmes » (Collectif n° 4, 1983 : 78). Mais la solidarité et les rapports non hiérarchisés, qui caractérisaient les relations entre les femmes dans la pratique de l’autoconscience des collectifs féministes des années 70, sont remplacés par la pratique de la disparité entre femmes :

« Nous avons compris que la disparité entre femmes est praticable et que sa pratique est précieuse. Reconnaître qu’une semblable vaut plus, brise la règle de la société masculine selon laquelle, en dehors de la mère, les femmes sont toutes pareilles en définitive […]. Il faut rompre un régime de parité entre femmes, qui est basé sur l’absence de valeur de l’être femme […]. Le plus de valeur ouvre une différence entre femmes, laisse place à un rapport où circulent amour et estime : ensemble » (Collectif n° 4, 1983 : 78-79).

Signé par le Gruppo n° 4 [7] de la Libreria delle donne, « Più donne che uomini » est publié en 1983 dans Sottosopra, une des revues historiques du mouvement, née dans les premières années 70 à l’initiative de plusieurs groupes féministes de Milan [8]. Le Gruppo n° 4 était constitué de femmes –dont Luisa Muraro, Lia Cigarini et Luisa Abbà – qui, après les expériences les plus diverses9, avaient animé certains des premiers groupes féministes italiens (respectivement le Demau et Il cerchio spezzato), et joué un rôle important dans l’expérience de Sottosopra ou la constitution de la Libreria delle donne [10]. Le rapport avec le groupe Psychanalyse et Politique – établi dès le début des années 70 à l’occasion de plusieurs rencontres internationales en France et en Italie – et la pensée de Luce Irigaray, dont Muraro avait traduit en 1975 Speculum, sont déterminants dans leur formation théorique et politique. Les discours sur l’affidamento et sur la différence comme disparité relationnelle sont repris et mieux articulés en 1987 par « Non credere di avere dei diritti », un texte qui met totalement en discussion les parcours féministes des années 70 inassimilables au principe de la différence sexuelle, désormais érigé en a priori du féminisme comme tel. Par une simplification drastique historique et politique, le champ des positions féministes est réduit à l’opposition de deux principes : différence versus égalité, où l’égalité est de plus en plus identifiée à la politique d’émancipation, c’est-à-dire à la stratégie réformiste de la gauche historique qui était largement critiquée et rejetée par la majorité des féminismes des années 60-70. De sorte que tout parcours féministe qui ne se réfère ni aux postulats de la pensée de la différence ni à la stratégie émancipationniste soutenue par les femmes liées aux partis [11], est effacé. Le choix de publier « Più donne che uomini » dans une revue du mouvement qui ne paraît pas depuis plusieurs années (le dernier numéro de Sottosopra était paru en 1976) ou encore de signer le texte par un nom collectif se référant à une autre expérience historique du mouvement, celle de la Libreria, est le signe d’une revendication de continuité directe avec l’expérience des années précédentes, en dépit du contenu du texte qui manifeste une rupture décisive avec une certaine pratique théorique et politique. Cette appropriation-ré-écriture de l’histoire devient toutefois explicite dans Non credere di avere dei diritti. Ce n’est pas un hasard si la signature collective devient tout simplement « Libreria delle donne di Milano » —ce qui suscite d’ailleurs la prise de distance de certaines femmes de la même Libreria qui, qualifiant « déconcertante » la publication de ce livre, contestent la proposition de l’affidamento en soulignant que :

« Il faut savoir – mais comment pourrait le savoir la lectrice si rien dans le livre ne l’en avertit – que la Libreria delle donne di Milano est le lieu où cette proposition s’est le plus heurtée à des oppositions et des perplexités » (Lepetit et al., 1987 : 5).

Cela démontre que les principes de la « verticalité entre femmes » et de l’« autorité féminine » sur lesquelles se fonde la pratique de l’affidamento ont trouvé une première application dans la publication du livre qui, par l’appropriation- réduction du nom d’une expérience collective et plurielle, investit les tenantes de la pensée de la différence de l’entièreté de l’héritage du mouvement féministe italien [12].
La Pensiero della differenza sessuale trouve une systématisation théorique ultérieure dans le premier ouvrage collectif de la Comunità filosofica Diotima, groupe né à l’initiative de Muraro en 1983 à l’université de Vérone et qui se propose d’effectuer une sorte d’épochè de la pensée masculine pour vérifier la possibilité épistémique d’une constitution alternative du monde et de l’« autre ». Le débat théorique et politique ouvert par les deux ouvrages précédents est repris par Diotima. Il pensiero della differenza sessuale en des termes plus strictement philosophiques, où la référence à la pensée d’Irigaray – notamment l’idée de la nécessité de la constitution d'un féminin symbolique et de la reconnaissance d’une généalogie féminine – reste déterminante. L’accent est mis sur des questions clés, qui feront aussi l’objet des réflexions postérieures : l’image symbolique de la mère, l'autorité féminine et la pratique de l’affidamento qui est enfin configurée comme une sorte de reconnaissance de la dette originelle envers la mère. En s’opposant à la culture occidentale qui, en particulier dans les domaines des savoirs philosophiques et scientifiques, n’a pas élaboré en « savoir » la réalité de la sexuation de l’espèce humaine, cette pensée postule la « différence sexuelle » comme « différence originelle», ontologique, à laquelle toutes les autres différences sont subordonnées :

« Cette pensée, en démasquant la logique occultante selon laquelle le mâle s’absolutise comme sujet unique et universel, reconnaît comme originelle la différence des sexes et postule la nécessité que la femme se comprenne et se représente à partir de cette différence concrète et essentielle » (Cavarero, 1987 :180)

Naître de sexe masculin ou féminin est une donnée, un a priori dont on ne peut faire abstraction : le « sexe » de l’être humain marque un dualisme qui ne doit pas être annulé mais analysé et nommé par le symbolique et le langage. Cela donnerait lieu à un « monde symbolique commun des femmes » (opposé à un monde symbolique commun des hommes). A l’intérieur de ce monde, chaque femme est différente de l’autre, avec de nombreuses différences qui doivent être reconnues et valorisées par la pratique de la disparité. La relation dite de l’affidamento peut aussi se concrétiser entre femmes, où la femme la plus jeune, la plus faible, moins douée, si affida à l’autre femme, qui est en position sociale, culturelle et/ou économique supérieure. C’est cette dernière, la soi-disant mère symbolique, qui autorise l’autre à agir dans le monde et l’aide à obtenir ce qu’elle désire. Il s’agit selon cette théorie d’un procédé essentiel à la transformation de la femme d’objet en sujet. La recherche de la « différence entre femmes », typique des années 1970 glisse vers la notion de disparità [13] au cours d’un processus complexe qui commence au tout début des années 80.

« Alors que le terme « différence » ne dit pas tout, la « disparité » exprime une différence en plus ou en moins. En menant à la Librairie une recherche sur les femmes écrivains, on avait trouvé le moyen d’exprimer et de vivre de façon positive le fait de la disparité, en reconnaissant à une autre femme la valeur de guide. On a théorisé à partir de là : il n’est pas possible de construire un monde des femmes si nous sommes toutes égales » [14].

Un des mérites de la pensée de la « différence sexuelle » serait : « de soustraire les femmes au dénominateur commun de l’oppression – qui les avait assimilées aux Noirs d’Amérique, aux Juifs et aux opprimés en général –[...] Ne plus reléguer les femmes dans le champ des affligés et des exploités [...] signifiait établir que la liberté féminine était une question qualitativement différente du besoin de rachat des opprimés. Les raisons de son oppression ne résidaient pas tant en des données sociaux, politiques ou culturels, que dans la nature même de sa diversité » [diversità en italien] (Ribero, 1999 : 197).
Mais cette observation reste enfermée dans un paradigme naturaliste propre aux théories de la différence sexuelle : plutôt que de voir le « sexe » – l’infériorisation de la femme en tant que sexe – comme le produit de dynamiques de domination et d’exploitation — et ne préexistant donc pas à l’instauration de ces rapports—, ces théories font découler ces rapports du sexe lui-même. En faisant tabula rasa de l’historicité de toute formation sociale, une telle position postule que l’oppression repose sur la nature même de la différence et non sur la différenciation inhérente aux rapports sociaux. La critique nécessaire de l’amalgame de la condition des femmes à l’univers indifférencié de « l’oppression » n’a pas donné lieu à une analyse des caractères spécifiques des formes diverses de domination et d’exploitation, mais à une naturalisation de ces rapports. De manière complémentaire, la notion de « femme opprimée » est rejetée au nom de la « différence entre femmes », mais cette référence, loin de conduire à une critique des diverses formes de discrimination et de domination, débouche sur la reconnaissance de l’inégalité entre les femmes, censée en tant que telle ouvrir un espace de liberté féminine. Ce n’est pas un hasard si cette nouvelle mise en valeur des hiérarchies de status et de savoir a été en particulier rejetée par les femmes « minorisées » : les lesbiennes (Cli, 1983) mais aussi les femmes migrantes, dont les rapports avec le mouvement féministe italien ne sont pas toujours simples et les portent souvent à critiquer soit certains modèles émancipationnistes, soit les modèles d’« absolutisation » de la « différence » proposés par les Italiennes (Campani, 1994).
[continua ...]

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1 Différences.
2 Sur la notion de « simplifications nécessaires » voir Foucault (1977 : 265).
3 Plus femmes qu’hommes.
4 Ne crois pas avoir de droits.
5 Diotima. La pensée de la différence sexuelle.
6 Se confie.
7 Collectif n° 4.
8 Ceux-ci ne se posaient pas comme groupe rédactionnel mais comme un temps de coordination d’une sorte de rédaction décentrée ouverte à tous les groupes féministes italiens de la période. Seuls requis : l’autonomie – c’est à dire la non-appartenance à des groupes d’extrême gauche ou partis – et la non-mixitè. Voir Fraire et al. (1978).
9 Notamment la Fgci (Fédération de la jeunesse communiste italienne) dirigée au début des années 60 par Cigarini (Cf. Rossanda, 2005) et la revue L’erba voglio (fondée par le psychanalyste Elvio Fachinelli) à la rédaction de laquelle avait participé Muraro (Cf. Schiavo, 2002). Sur le mouvement féministe milanais, Cf. Calabrò et Grasso (1985).
10 Connue aussi comme Libreria di via Dogana, du nom de la rue de Milan où celle-ci était née en octobre 1975.
11 Notamment l’UDI (Union des femmes italiennes).
12 Il est frappant de constater l’analogie avec le cas du dépôt du sigle MLF, en France, par le groupe Psychanalyse et politique Cf. Picq, 1993.
13 Disparité.
14 Entretien avec Luisa Muraro, in Veauvy, 1983 :127.
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venerdì 23 novembre 2007

A che cosa miriamo? Per uno spostamento delle lotte dei/nei femminismi


Scrivo queste note a qualche ora dall'inizio della manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne. La manifestazione nasce grazie all' iniziativa di alcune militanti romane [1] che ai primi di ottobre fanno girare un appello dove si sottolinea l'urgenza di organizzare una manifestazione nazionale “dove tutte le donne possano scendere di nuovo in piazza a fianco delle donne vittime di violenza e per i diritti delle donne“.
Le adesioni all'appello sono migliaia [2]. Viene aperto il sito ControViolenzaDonne.org (che ha tra le sue sezioni anche un blog), per permettere una migliore circolazione delle notizie e una partecipazione il più allargata possibile all'organizzazione della manifestazione.

Una prima assemblea pubblica si tiene a Roma il 21 ottobre. Vi partecipano circa un centinaio di donne, militanti femministe e lesbiche provenienti da varie regioni italiane. Dall'assemblea esce un primo documento che – oltre che nel sito – circola anche in varie mailing list permettendo in questo modo a quante non erano fisicamente presenti a Roma – e che magari sono anche delle “singole”, non legate cioè a nessun gruppo o associazione – di intervenire attivamente ed anche criticamente sul testo. Non tutte le questioni sollevate nella discussione sono state ritenute nel documento finale, ma nella loro varietà tendono a "complicare" il discorso e fanno emergere la molteplicità di soggettività, posizioni e prospettive delle donne impegnate nella costruzione della manifestazione e che si riconosco in questo "processo politico collettivo". E' grazie anche a queste discussioni, ad esempio, che viene riformulato, radicalizzandolo, il rifiuto delle strumentalizzazioni in chiave securitaria e contro gli "stranieri" della violenza contro le donne. O ancora la necesità di nominare le lesbiche e la specifica violenza che subiscono. Da parte mia, avevo avanzato, tra l'altro, dubbi sull'uso della categoria "aggressività maschile" e soprattutto sul fatto che mettere in primo piano che la maggioranza delle violenze avvengono in famiglia da parte di padri, mariti, conviventi, ex o semplicemente conoscenti, se da una parte risponde efficacemente ai tentativi di spiegare la violenza sulle donne come opera di sconosciuti preferibilmente migranti e rompe l'apologia e l'idealizzazione della famiglia molto forte in Italia [2], dall'altra lascia nell'ombra altre violenze che si consumano tra "le pareti domestiche", ad esempio quelle inflitte alle donne migranti da parte non solo di familiari (come avviene per le italiane, familiari che possono essere anche italiani), ma anche dai "datori di lavoro", si pensi solo alle tante "colf", "badanti" e baby-sitter presenti nelle "nostre" case. Queste violenze fisiche (a volte esercitate anche dalle "padrone", cosa che veramente complica il quadro), che possono andare dalle molestie allo stupro, spesso non vengono denunciate perché la mancanza di un permesso di soggiorno rende spesso clandestine non solo le persone ma anche le violenze che subiscono [3].
Una seconda assemblea si tiene, sempre a Roma il 27 ottobre. Il documento, ridiscusso e modificato anche in base alle osservazioni e ai contributi emersi nei giorni precedenti, convoca una manifestazione nazionale “contro la violenza maschile sulle donne” per il 24 novembre a Roma. In questa occasione si afferma la volontà di caratterizzare l'iniziativa come una manifestazione di sole donne.
Questa scelta “separatista” provoca un'accesa discussione sia nel blog di controviolenzadonne.org (in particolare i commenti ai post Sommovimento femminista e Tutte a Roma il 24 novembre) che in siti e mailing list (come ad esempio quella di Facciamo Breccia). Alcune donne (ed in seguito anche alcuni uomini, fino a quel momento assenti dalla discussione [4]) si oppongono a una decisione che giudicano “discriminatoria” verso gli uomini, in particolare verso quelli che la violenza la subiscono e/o la combattono in prima persona, come i gay, i trans FtM o gli uomini impegnati in una critica della “mascolinità”. La decisione di promuovere una manifestazione di sole donne viene vista come prevaricatrice o peggio, imposta dall'alto o da una sorta di “comitato centrale”. Le donne che sostengono la scelta separatista (alcune delle quali impegnate tra l'altro in organizzazione "miste" ma che ritengono importante una manifestazione di sole donne contro la violenza), vengono tacciate di veterofemminismo (creando, tra l'altro una fittizia contrapposizione tra "giovani" e "vecchie"[5]) e di essere portatrici di un discorso di tipo identitario o essenzialista. Per le sostenitrici di un corteo "misto", attuare la scelta separatista significa buttare "via anni e anni di contaminazioni queer e critica trans [6].
Viene sottolineato, ad esempio, come "individuare nell’appartenenza 'biologica' a un genere la legittimità di partecipazione e mobilitazione e’ un arretramento pericoloso. O qualcuna di noi magari scoprira’ di non essere poi cosi’ distante da chi, cattolici e non, vincolano elementi anatomici a caratteristiche di genere, il genere al ruolo sociale, la fruizione di diritti alla supposta naturalità di ruoli e progetti affettivi e di vita… [...] La signora Santanche’, che usa strumentalmente la violenza contro le donne per la peggiore propaganda razzista ed eurocentrica, sostenendo la superiorita’ della civilta’ occidentale - laddove nella civilissima Italia sappiamo bene dove e chi agisce prevalentemente violenza sessuale, sara’ + bene accetta di realta’ associative come Maschile Plurale o il Mit?"[6].
A queste osservazioni risponde, tra le altre, una militante che ribadisce l'importanza che, in questa specifica occasione, riveste il carattere separatista del corteo "perché il messaggio che va dato all’esterno è quello di donne autorganizzate, autodeterminate e incazzatissime [...] Le riflessioni sui generi che ci facciamo tra noi sono, ovviamente, mille anni luce più avanti di questa società di merda, ma siccome è a questa società di merda e alle donne che la abitano che dobbiamo dare un messaggio forte (se no che andiamo in piazza a fare? a parlarci addosso?) dobbiamo muoverci su coordinate comprensibili. Questo non significa abbassare i toni, anzi! Mi viene in mente un concetto che Teresa De Lauretis cita sempre riprendendolo da Spivak: l’essenzialismo strategico. Ecco, penso che il separatismo in questo corteo vada letto consapevolmente in questi termini e non come controllo di ciò che ciascuno/a/*/°/# ha nelle mutande; cioè, usare strategicamente e consapevolmente l’essenzialismo, senza quindi cadere in biologismi o altre schifezze che ci hanno già ammorbate a sufficienza" [7].
Il 18 novembre l'inserto domenicale di Liberazione, Queer, dedicato alla manifestazione del 24, pubblica due articoli che dovrebbero illustrare le due posizioni separatismo si/separatismo no verso le quali si è rapidamente polarizzata – e, forse, cristalizzata – la discussione. L'articolo che contesta la scelta separatista, di Gaia Maqi Giuliani, Solo donne? Così ribadiamo i ruoli che generano violenza [8], riprende il concetto di essenzialismo strategico ma ritenendolo "controproducente" in questa specifica situazione: "l’essenzialismo potrebbe essere “strategico” solo qualora la sua decostruzione, critica e superamento fosse patrimonio di molti/e e dell’immaginario comune. Il problema è che non lo è. La stessa espressione di “violenza di genere” come strumento concettuale in grado di aprire la riflessione sulla natura e sulle conseguenze di una violenza che è culturalmente maschile ed eterosessista, allargando e complicando una concezione della violenza “fisica” “maschile” stereotipata e miope, non è entrata nel linguaggio comune tanto da poter essere messa nel cassetto e “strategicamente” sostituita con un semplificatorio essenzialismo “binario” (uomo-donna)".
La discussione su "separatismo si/separatismo no" cresce in maniera esponenziale man mano che la data della manifestazione si avvicina. Continua nelle mailing list, in siti e blog, come anche nei gruppi e associazioni coinvolte nell'organizzazione della manifestazione.
L'irrigidimento di questa contrapposizione ha, a mio avviso, indotto una semplificazione drastica e riduttiva delle ragioni e dei problemi in campo, oltre a un pericoloso allontanamento da quello che era l'obiettivo primario della manifestazione (ma che sarà bellissima :-) ...).
Nell'intreccio dei commenti, il tentativo di comprendere anche criticamente posizioni diverse e/o divergenti dalla propria, è stato soppiantato dall'istanza di incasellare i diversi punti di vista nell'uno o nell'altro lato della dicotomia “separatismo sì /separatismo no”. Una volta innescata, questa dinamica sembra vivere di vita propria, credo (spero?) anche al di là delle intenzioni di molt*.
In questo scenario non posso che rivendicare la mia "dissonanza", la mia postura marginale. Non sarò a Roma per cause di forza maggiore, ma, nel caso, sarei stata sicuramente nelle spezzone "separatista", eppure rifiuto di essere incasellata nella gabbietta "separatismo si" che annulla la mia specificità come quella di altre, che ci mette tutte insieme sotto un'etichetta, omologandoci (mentre eravamo tutte insieme, con le nostre differenze di percorsi e posizioni, per un progetto politico comune: lottare contro la violenza sulle donne).
Mi chiedo (non retoricamente: vorrei proprio saperlo) perché è intorno alla scelta di un corteo separato che si danno fuoco alle polveri, perché è intorno a questa scelta (e solo intorno a questa scelta in maniera così accesa e quasi "feroce") che ci si pone il problema dell'essenzialismo veicolato dai nostri discorsi e dalle nostre pratiche. Mi chiedo perché non lo si è fatto prima e su altre questioni ( che tranquillamente si possono - strategicamente - "mettere nel cassetto" senza suscitare contrapposizioni infuocate), perché si è voluto suscitare il "fantasma" degli anni 70, di cui il separatismo è uno degli "emblemi", essendo stato "l'atto fondatore e mitico" del femminismo di quel tempo. Come se ci si potesse permettere ancor oggi il lusso di ignorare quanto questo tipo di esorcismo della storia (accompagnato dalla vana apologia del "nuovo", e spesso sotto lo schermo di comodo del presunto "conflitto generazionale" di turno) è ormai da anni una delle armi preferite di tutti i processi di normalizzazione e di restaurazione; dell'aggressione e dello svuotamento di ogni esperienza che miri oltre questo presente. Mi sembra troppo facile e mistificante mettere sul conto dell'opzione in favore di una manifestazione separata, in una certa circostanza, "un" certo giorno, i guasti prodotti da un essenzialismo che, in Italia, ha nutrito una lunga egemonia del "pensiero della differenza sessuale" e che ancora pervade pratiche e discorsi di diversi femminismi. E' su questo che, da tempo, avrebbe dovuto concentrarsi la critica, come anche sulle difficoltà di molti femminismi di interrogarsi sul nodo cruciale sessismo e razzismo, che ha assunto con troppo ritardo - e solo "grazie" alla campagna ignobile montata da politici e media dopo l'omicidio di Giovanna Reggiani - una posizione centrale nel dibattito pubblico. Senza peraltro, e mi sembra sintomatico, suscitare una riflessione sul razzismo "interno" alle stesse teorie e pratiche femministe.
E così "chi ha paura del separatismo?" sarà il titolo di un post che leggerete presto qui. Cercherò di rispondere ripercorrendo la storia del separatismo, delle diverse forme che ha assunto (a seconda dei contesti nazionali, dei momenti storici eccetera) nel movimento femminile/femminista (e non solo). Sarà l'occasione per parlare di differenzialismo e di sessismo e razzismo (nelle loro molteplici espressioni: lesbofobia, razzismo contro i migranti, antisemitismo, omofobia, razzismo anti rom, transfobia ...). E, intanto rinvio qui.

Chi ha paura del separatismo? Prossimamente su questi schermi...

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NOTE:

[1] Angela Azzaro, Beatrice Busi, Roberta Corbo,Annalisa D'Urbano, Olivia Fiorilli, Chiara Giorgi, Mariarosaria LaPorta, Maria Tiziana Lemme, Luciana Licitra, Aurelia Longo, Valentina Mangano, Ilaria Moroni, Monica Pepe, Elena Petricola, Valeria Ribeiro Corossacz, Barbara Romagnoli, Laura Ronchetti, Maria Russo, Marzia Saldan, Ornella Serpa, Marina Turi. La rete Controviolenzadonne.org che si costituisce in seguito a questo appello (e che promuoverà la manifestazione) comprende diversi collettivi : A/matrix, Assemblea femminista via dei volsci 22,Centro Donna L.i.s.a., Feramenta, Infinite voglie, La mela di Eva, Luna e le Altre, Martedì autogestito da femministe e lesbiche, Ribellule, donne CSOA-EXSNIA.
[2] Donne singole, collettivi, associazioni. Impossibile nominarle tutte: dalle Maistat@zitte di Milano alle Fuoricampo Lesbian Group di Bologna ... Per tutte le adesioni pervenute si veda qui. Alcune adesioni sono state rifiutate: "rifiutiamo l’adesione alla manifestazione del 24 novembre e la strumentalizzazione di questa giornata da parte dell’UGL e degli altri soggetti politici che hanno aderito al Family Day, che disconoscono l’autodeterminazione delle donne e sostengono le politiche razziste, familiste e ostili al riconoscimento dei diritti e della libertà di lesbiche, gay e trans della destra reazionaria, rilanciate in grande stile anche da un governo che si definisce di sinistra ", si legge in un comunicato della rete di controviolenzadonne.org.
[3] Non solo da parte del Vaticano. Si pensi all'istituzione nel nostro paese, di un Ministero della famiglia nel 1994, e al fatto che tanto nel centrodestra quanto nel centrosinistra le politiche economiche e sociali anche di carattere generale sono proposte all'insegna dei bisogni, del sostengno o dell'aiuto "alla famiglia", dove ovviamente la famiglia in oggetto è essenzialmente italiana, eterosessuale, con figli e possibilmente cattolica. E' uno dei motivi per cui proporrei di limitare nei nostri discorsi l'uso del termine "famiglia" soltanto per designare la cultura e i discorsi dominanti (magari ponendolo tra virgolette?), senza assumere noi stess* questo termine come qualcosa che va da sé.
[4] Del resto avevo sollevato le stesse questioni a proposito delle migranti in una mailing list bolognese in occasione della manifestazione cittadina contro la violenza sulle donne dello scorso anno.
[5] Ci sono ovviamente anche commenti di uomini che rispettando la decisione delle donne "accettano la sfida" di cominciare un percorso "tra uomini" contro la violenza sulle donne (per esempio il commento di Jacopo in
Sommovimento femminista ).
[6Non intendo negare l'estistenza di conflitti generazionali nei femminismi, ma non mi sembra che a proposito della scelta separatista della manifestazione ci sia stato disaccordo tra "vecchie" e "giovani", come si può evincere, tra gli altri, dal commento di Claudia, 11 ottobre, in
Sommovimento femminista.
[7] Commento di Maia, 30 ottobre, in Sommovimento femminista.
[8] Commento di Nic, ibid.
[9] Per chi si fosse perso questo interessantissimo numero di Queer, tutto dedicato alla manifestazione del 24, segnalo che tra qualche giorno dovrebbe essere consultabile on-line nel sito di Liberazione. Per intanto trovate l'articolo di Gaia Maqi Giuliani nel post Contro il separatismo di Femminismo a Sud.


giovedì 27 settembre 2007

Donne di mondo: una presentazione

La critica all'universalismo del femminismo bianco occidentale mossa dal Black Feminism, dalle femministe diasporiche e dalle teoriche lesbiche ha inscritto nel dibattito pubblico e storiografico l'intersezione dei rapporti di potere di genere con quelli di "razza", di orientamento sessuale, di classe e di generazione. Come declinare sul piano storico la complessità del dibattito teorico sulle soggettività femministe? Da questa domanda ha preso forma questo numero, con l'obiettivo di indagare gli elementi relazionali della storia dei movimenti delle donne attraverso uno sguardo che esplora la porosità dei confini tra culture politiche diverse e privilegia i percorsi e le traiettorie trasversali.


Giovedì 27 settembre 2007 alle ore 18.30, all' Horus Occupato (piazza Sempione 4, Roma), il collettivo InfiniteVoglie presenta:


DONNE DI MONDO. PERCORSI TRANSNAZIONALI DEI FEMMINISMI
Zapruder, n. 13 (maggio-agosto 2007)

Intervengono le curatrici Liliana Ellena e Elena Petricola.
A seguire reading di Danila Bellino & proiezioni, aperitivo & dj set di eva contro eva.

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Su Donne di mondo vedi la recensione di Luisa Passerini in Liberazione e qui per il sommario.

martedì 11 settembre 2007

Nuovo? No, lavato con Perlana ...

Rudy M. Leonelli e Vincenza Perilli, Nuovo? No, lavato con Perlana. Delle procedure di riciclaggio nel paese del trasversalismo reale, in Invarianti, n. 35, 2001


La contestazione della globalizzazione economica, una volta svincolata dall’ideologismo, è l’occasione per un rompete le righe tra destra e sinistra. In apparenza, è il contrario: e la sinistra più conservatrice può compiacersi di trovarvi un cambio d’abito, in extremis. Ma le schermaglie più immediate non contano molto. La destra non ammette la Tobin Tax, la sinistra ne fa la propria bandiera. Del resto, non è facile immaginare come il governo di centrosinistra, se fosse durato, avrebbe affrontato la gestione del G8: meno o più dialogo, meno o più polizia? La destra politica non è meno prigioniera della sinistra, oltre che di interessi materiali costituiti, di pregiudizi ideologici e riflessi condizionati. Il “trasversalismo” che l’annuncio ecologista si era ripromesso, e non ha saputo mantenere, è oggi alla portata di una politica fattiva, tanto più quanto meno in soggezione a pensieri e abitudini ereditate.


Adriano Sofri, “Se la povertà fa scandalo”, La Repubblica, 17 luglio 2001.


e mite un sentimento…[1]


Nel dicembre 2000, a pochi giorni dall’esplosione di un ordigno tra le mani del terrorista neofascista Andrea Insabato davanti alla redazione romana de il manifesto, usciva sulle pagine di questo quotidiano un toccante articolo in forma di lettera aperta allo stragista mancato, dal titolo “Caro Andrea, pensaci…”:


Ma c’è una cosa che mi ha fatto scattare un meccanismo di vicinanza, che mi ha preoccupato e intrigato insieme: il discorso delle varie etnie sfigurate che vediamo vivere male nelle metropoli e campagne occidentali. Gli schiavi che seguono il trionfo di Cesare sono oggi extracomunitari, ma anche le varie etnie sfigurate delle nostre regioni. Odio la globalizzazione anche per questo […] Anch’io amo la purezza, ma non quella delle razze umane. Mi sono sentito una pena dentro quando ho visto la tua faccia sui giornali. Un isolato, un cane sciolto di destra. Una pena scandalosa. Molti isolati e cani sciolti di sinistra come te, quando a Nizza combattono la globalizzazione, muovono da sentimenti, bada solo sentimenti molto simili ai tuoi. Su quei sentimenti ha lavorato la cultura, una cultura diversa dalla tua, che è legata all’istinto ed è imbevuta di idealismo. Hai creduto che il manifesto sia un simbolo di tutto quello che non ti piace che esista. E ti sei sbagliato di grosso. L’attenzione da sempre alla multietnicità di quel giornale non va nella direzione dell’impuro[2].


Che il cosiddetto movimento antiglobalizzazione fosse una grande occasione per il superamento della dicotomia destra /sinistra è, come si vede, idea che precede i “fatti di Genova”, al punto che già la ricerca di un trait d’union tra l’autore e il bersaglio di un attentato trovava proprio nel “no global” lo spazio di un incontro possibile sulla base di un comune sentire.

Il sermone indirizzato al presunto cane sciolto Insabato[3], piuttosto che nel clima natalizio ‑ che, come si impara da bambini, rende tutti più buoni ‑ si inscrive in un paradigma di pacificazione che ha per assiomi l’etica dell’intenzione e l’imperativo di comunicazione. Il celebre discorso di Luciano Violante sulle motivazioni ideali dei “ragazzi di Salò”[4] non è che la punta di un iceberg la cui massa, al di sotto della schiuma delle dichiarazioni di circostanza, disegna un corpo frastagliato ma omogeneo. La “trasversalità” è, per nascita e vocazione, senza confini: passa dentro e fuori le istituzioni, nel “politico” e nel “sociale”, nell’amministrativo e nel “creativo”.

A tratti, il flusso trasversale sembra subire una brusca interruzione e l’archiviata opposizione destra/sinistra, fascismo/antifascismo, è improvvisamente ripescata. Così nel ’94, prima vittoria elettorale della destra, così nel finale della campagna elettorale 2001 e di nuovo, con toni più accesi, dopo Genova, quando D’Alema parla di “clima cileno” e, di seguito, l’uomo immagine delle Tute bianche di “nazistelli in divisa[5]. Di regola questi ritorni “storici” si caratterizzano per l’elusione dello spessore della storia: metafore inarticolate il cui orizzonte non oltrepassa l’effetto del momento. Aperture di dialogo e risvegli intermittenti scandiscono il moto oscillatorio della lingua costitutivamente biforcuta delle sinistre “post”.

Quando eventi di particolare gravità impongono riflessioni sottratte all’orizzonte ridotto della cronaca, vengono prodotte “analisi” che, come i duplicati di armi descritti da Debord, mancano sempre del percussore[6].

Un'intervista al capogruppo dei senatori Ds – rilasciata a il manifesto all'indomani dell'attentato al quotidiano – può illustrare questa tipologia. La domanda di rito: “I fatti di questi giorni ci obbligano a ritornare sull’analisi della destra italiana. Non c’è stato troppo ottimismo, nel centrosinistra, sulla sua costituzionalizzazione e troppa facilità nella sua legittimazione?” riceve la risposta appropriata: “Autocriticamente ritengo di sì. Tutti, la sinistra e l’insieme delle forze democratiche, abbiamo sottovalutato quel che negli ultimi mesi è avvenuto nella destra italiana”. Le “sottovalutazioni” in questione concernono quattro punti: il separatismo della Lega, il peso dell’alleanza elettorale del centrodestra col Msi-Fiamma tricolore di Pino Rauti, la politica del Vaticano (dalla lettera pastorale di Biffi alla visita di Haider) e, infine:


Quarto ma non ultimo: abbiamo sottovalutato la campagna sul revisionismo storico. Che ha tenacemente e meditatamente messo in discussione tre momenti cruciali della costruzione dello Stato nazionale e della Repubblica: l’unità d’Italia, col processo al Risorgimento allestito in agosto al meeting di Rimini; la Resistenza, col rovesciamento del valore fondativo dell’antifascismo nel “dovere morale” dell’anticomunismo; la Costituzione, con la volontà della destra non di riformarla ma di stracciarla, a partire dalla sua concezione del federalismo[7].


“Un’analisi tutta da rifare”, commenta l’intervistatrice. Ma è una conclusione esorbitante in rapporto alla pochezza della diagnosi che, riducendo il problema a una sorta di svista, per di più limitata a pochi mesi, opera una duplice minimizzazione: della portata del pericolo di destra, in particolare dell’offensiva revisionista, e delle responsabilità delle sinistre che, da ormai più di un decennio, non si sono limitate a “sottovalutare”, ma si sono adoprate a rivalutare e valorizzare.

È il progetto di costituzione di un paese normale, elaborato alle origini della Nuova Destra tedesca, che sintetizza la strategia adottata dalla sinistra di governo italiana nel corso degli anni Novanta. Condizione essenziale di questo progetto è l’opera di revisione della storia efficacemente criticata da Klinkhammer:


in Italia negli ultimi anni è stata fortemente auspicata una “conciliazione nazionale”, considerata un elemento fondamentale per una società “postfascista”. Il “superamento” del passato fascista da parte di una presunta società postfascista presuppone però l’offuscamento dei lati negativi di questo passato[8].


Il processo di pacificazione, abbellimento e “armonizzazione” della storia si è necessariamente articolato nel Grande Dialogo[9] tra destra e sinistra, promosso da quest’ultima come elemento innovatore al di là della “residua” pregiudiziale antifascista, nella ripresa più o meno consapevole della strategia da tempo messa a punto dalla Nuova Destra.

Di qui il vizio congenito delle “mobilitazioni” periodiche e dei relativi rituali autocritici, che devono correggere i singoli “guasti” prodotti da questa strategia senza mai metterne in discussione i presupposti. La figura dell’impostore inverosimile[10], capace di svolgere, alternativamente o simultaneamente, i ruoli di agitatore e imbonitore, è un ingranaggio indispensabile di questo marchingegno e riceve immancabilmente la meritata promozione mediatica. In contropartita ogni critica radicale di questo impianto incontra una censura non dichiarata e tanto più efficace.

Ritornando al fatidico 1994, e più precisamente al periodo successivo alla vittoria elettorale di Fini-Berlusconi-Bossi, si può ricordare una lettera aperta al quotidiano il manifesto, all’epoca impegnato nella promozione della manifestazione nazionale del 25 aprile a Milano. La lettera, non pubblicata dal quotidiano, sollevava la stridente contraddizione tra la volontà di riattivazione di una scadenza antifascista e la presenza, nel novero dei collaboratori de il manifesto ‑ e del suo supplemento Suq – di figure che si erano distinte nella collaborazione a iniziative e pubblicazioni della destra nuova ed estrema:


Crediamo che un giornale che ha tra i suoi redattori Rossana Rossanda, la quale ha lanciato, insieme con diversi intellettuali europei, un appello contro le collaborazioni con la nuova destra[11], dovrebbe scegliere con maggiore attenzione i propri collaboratori e interlocutori, soprattutto nel momento in cui si fa promotore di una manifestazione antifascista importante come quella del prossimo 25 aprile.

Vi invitiamo a non compensare la solerzia con cui avete denunciato le collusioni tra sinistra francese e estrema destra, con l’inerzia per quanto concerne il caso italiano: qui la situazione è ancor più grave, dato il clima di generale omertà che, salvo rare eccezioni, attanaglia la sinistra istituzionale e non[12].


Il fatto che, nel variopinto coro di comunicati, prese di posizione e lettere che il quotidiano ha diffusamente pubblicato per giorni e giorni, su pagine e pagine, in preparazione del 25 aprile, un testo di questo tipo non abbia trovato spazio, manifesta bene la presenza di un confine invalicabile alle cicliche (ri)animazioni del conflitto.

Al di qua di questo confine, la distribuzione dei ruoli prevede, ad ogni avanzata del dialogo, il contrappunto di quello che si potrebbe chiamare l’intransigente improbabile, il cui dissenso testimoniale completa il quadro, piuttosto che scardinarlo.


Marco Tarchi, politologo ex missino, va al Festival dell’Unità e pubblica un saggio su una rivista del Pds. Dice: “Vorrei far parte di un’area che non ha etichette”. Sul suo periodico lancia un appello al Manifesto. Ma il quotidiano replica: “noi coi fascisti non parliamo”[13]


Ciò che non impedirà a Le Monde Diplomatique – il manifesto di pubblicare, senza un minimo cenno di critica, l’appello del comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila” che comprende, tra le adesioni internazionali, la firma del maître à penser della Nouvelle Droite Alain de Benoist[14].


Lather Blister” e altri spot


Ma sarebbe illusorio contrapporre un universo della sinistra “ufficiale” ormai avviata sulla strada del revisionismo e uno spazio “altro” che si porrebbe, nel suo insieme, in controtendenza. Nell’ambito dell’ex-estrema sinistra, almeno dalla prima metà degli anni Novanta, gli operatori impegnati alla distruzione delle “vecchie identità” hanno varato da più parti un insieme di grandi manovre comprendenti, tra i propri bersagli principali, “l’antifascismo residuale”. Sono così spuntati un insieme di “esperimenti” tesi a provocare, “stanare”, cortocircuitare e neutralizzare i focolai di resistenza al nuovo corso revisionistico patrocinato, con sfumature e motivazioni diverse, tanto dalle destre riemergenti quanto dalla sinistra di governo.

Tra questi, la “provocazione revisionista” imbastita dal collettivo Transmaniacon di Bologna è stata certamente una delle più apprezzate dall’estrema destra e delle più insabbiate dalla sinistra istituzionale e non[15].

È questo collettivo che, nel novembre 1992, immette nella rete telematica Ecn il file “La provocazione revisionista”[16]. Il testo è la trascrizione di un intervento transmaniaco trasmesso dall’allora neonata Radio K Centrale, una delle emittenti che, durante le giornate anti-G8 di Genova, ha animato Radio Gap (The Global Audio Project), un nome che – riferisce uno degli immancabili instant book – “comunque giocava provocatoriamente col nome di uno dei gruppi che hanno (sic) sono stati parte attiva nel processo di liberazione dall’occupazione nazifascista durante la guerra”[17].

Nel file, il primo di una lunga serie, spicca la lapidaria frase di Faurisson:


Le pretese camere a gas hitleriane e il preteso genocidio degli ebrei formano una sola e medesima menzogna storica, che ha aperto la via ad una gigantesca truffa politico-finanziaria, i cui principali beneficiari sono lo stato d’Israele e il sionismo internazionale, e le cui principali vittime sono il popolo tedesco, ma non i suoi dirigenti, il popolo palestinese tutto intero e, infine, le giovani generazioni ebraiche che la religione dell’Olocausto chiude sempre di più in un ghetto psicologico e morale.


Non limitandosi alla dimensione delle “idee” (spericolate arditezze teoriche che spaziavano tra “l’uso anticapitalistico di Faurisson” e un untuoso “garantismo” verso i carnefici nazisti) questa operazione rivelava connessioni meno eteree, che hanno permesso ai transmaniaci di preannunciare trionfalmente in Ecn iniziative più tardi realizzate dall’editrice negazionista Graphos[18].

Consumata la “provocazione revisionista”, il collettivo Transmaniacon troverà nella clonazione del Luther Blissett nostrano ‑ con cui condivide diversi nomi e qualche pseudonimo -‑ un’opportuna occasione di riciclaggio in un anonimato posticcio che, tanto per gli avversari quanto per i nuovi e vecchi compari, è stato fin dall’inizio un segreto di Pulcinella.

Leonardo Lippolis, nello scorso numero di Invarianti, ha mostrato come una lettura interna delle tracce vere e/o false che i Luther Blissett hanno copiosamente distribuito nella produzione del proprio mito commerciale e mediatico, permetta uno smontaggio del dispositivo mitopoietico stesso, e ha ricostruito gli intrecci che precedono il “lancio” della tardiva copia italiana di Luther Blissett:


Nel maggio 1993, mentre Stewart Home fonda la Neoist Alliance, Healy ha la folgorazione, il nuovo nome multiplo: Luther Blissett. Dall’accordo tra Coleman Healy, Kipper/Cooper e Stewart Home nasce adesso, nel maggio 1993, il Luther Blissett Project. Nel luglio successivo Healy, tornato negli Stati Uniti, sottopone l’idea al vecchio Ray Johnson […] il quale l’accoglie con entusiasmo e scrive per l’occasione il primo Luther Blissett Manifesto, inviandone uno, tra gli altri, anche a Vittore Baroni […]. La svolta avviene durante l’estate quando Kipper/Blissett/Cooper compie un viaggio-vacanza in bicicletta in Italia e si mette in contatto con Baroni e Ciani; il suo soggiorno trova il clou a Bologna, dove la gioventù alternativa, sempre assetata di novità “controculturali” (a Bologna ci sono centri sociali “all’avanguardia” come il Link e il Livello 57) accoglie con entusiasmo il suo progetto[19].


La considerazione della “provocazione revisionista” ‑ che, come altre “provocazioni”[20], non viene ovviamente mai ricordata in modo esplicito nelle variegate ricostruzioni blissettiane del proprio mitico passato ‑ come antecedente forte della duplicazione italiota della “creatura una e multipla”, può a nostro avviso contribuire alla proposta di aiutare i Luther Blissett “a recuperare la memoria delle proprie origini[21]. L’aggiunta di questo tassello mancante al mosaico presenta il vantaggio di restituire al termine “revisionismo” ‑ impiegato da Lippolis in relazione alla riscrittura blissettiana dei percorsi dell’Internazionale Situazionista ‑ il significato specifico che esso assume in relazione alla negazione dello sterminio nazionalsocialista. La peculiarità dell’innesto italiano può essere meglio focalizzata, in quanto alcune direttrici delle posteriori metamorfosi sono chiaramente intravedibili nel funzionamento del ripescaggio transmaniaco del negazionismo sinistrorso:


La cifra ideologica dell’intera operazione è l’uso del materiale negazionista ai fini di uno smantellamento – da un punto di vista “rivoluzionario e di classe” – dell’antifascismo. Ma la critica dell’antifascismo consensuale e celebrativo sviluppata dai movimenti di estrema sinistra nel dopoguerra subisce una torsione verso un anti-antifascismo che ne altera violentemente la valenza e la cui pretesa efficacia “sovversiva” diviene sempre più inverosimile, a fronte delle trasformazioni postfasciste in atto nella cultura e nella costituzione italiana.

Questo carattere improbabile è accentuato dal fatto che la sequenza dei messaggi disegna un’oscillazione tra il richiamo a matrici di ultrasinistra e una cultura del disincanto (“fine della Storia” e delle “ideologie”, estraneità alla dicotomia destra/sinistra, etc.). Si potrebbe parlare, da questo punto di vista, di un revisionismo commutatore, o “di cerniera”, che riversa relitti di ideologie rivoluzionarie e scampoli di fraseologia marxista sulle spiagge piatte del “dopo-storia”[22].


Dopo l’impiego all’introduzione del “nuovo”, il vecchio arnese negazionista si dissolverà, almeno apparentemente, nella creazione di “una mitologia dell’improbabile e dell’ubiquo” e di “situazioni al cui interno non esista responsabilità individuale”[23] e, archiviato come “provocazione”, riaffiorerà tra le notti e nebbie del no name attraverso variegate forme di implicitazione (ripresa di pseudonimi, sigle e altri orpelli impiegati nell’operazione).

Del resto, persino Q, polpettone blissettiano lanciato nel 1999 come best seller dalla berlusconiana Einaudi che dichiara copiose ristampe (ma non quantifica il numero di copie-omaggio di quest’ennesimo miracolo italiano inviate a destra e a manca), non fa che riprendere il titolo della traduzione italiana di Ich will spaβ, terza fatica letteraria – si stenta a crederlo – di Falko Blask, collaboratore di Play Boy nonché della rivista tedesca di destra Focus.

Q come caos annuncia l’emergere di un’ennesima “nuova tendenza giovanile”. L’evento epocale consisterebbe nel fatto che, a detta del prolifico autore, “i giovani”, nella “solita crisi di senso di fine secolo”, abbandonate “le tradizionali reazioni: protesta caparbia o incondizionato adeguamento”,


cavalcano il fattore Q. Q, il semidio che vive nel Continuum, l’universo parallelo di Star Trek, fa da padrino a questo nuovo principio di piacere: un buffone cosmico, fantasioso ed egocentrico, che rappresenta l’incarnazione ideale del mascalzone privo di principi, ma equanime, al di là del bene e del male.

Negli anni Novanta non usa più tirare bilanci morali, ci si dedica piuttosto a perfezionare il piacere egocentrico dell’avventura[24].


L’elenco degli “indizi del fattore Q nella società del caos” (dal fenomeno dei serial killer alle fantasie di onnipotenza individuale e al culto dell’Io) comprende le “teorie del complotto”, accomunate dall’idea “che tutto è assolutamente diverso da come sembra”. Tra questi modi di “creare per se stessi un mondo più drammatico, che va oltre la banalità dell’universo quotidiano”[25], l’autore annovera “il revisionismo storico sulla Shoah[26].


Chi si attiene a una concezione diversa da come viene intesa la realtà non è soltanto, come spesso si asserisce, un visionario pericoloso, ma anche una persona che adotta una tecnica creativa per sfuggire alla deprimente insensatezza e causalità dell’esistenza. Si tratta del tentativo di rafforzare ciò che potrebbe essere a discapito di ciò che effettivamente è. Le teorie del complotto, pertanto, non sono un tormento o un peso per i loro fautori. Rendono la vita più eccitante, se si è in grado di coltivarle con un minimo di senso dell’umorismo e autoironia[27].


Un inesorabile scetticismo verso i goffi tentativi di restaurazione dei bei tempi andati in cui l’Autore impartiva ai lettori lezioni sul “significato politico-ideologico” della propria opera, conduce a cercare fuori dalle autointerpretazioni smerciate a seguito del “romanzo storico-attuale” Q qualche chiave di lettura. Forse, piuttosto che ad inverosimili Nemici dello Stato[28], occorre riandare ai “sociopatici” eroi incensati da Ich will spaβ con un’euforia che ricorda, certo involontariamente, la festante allegrezza dei passeggeri del Titanic:


Nella società postideologica non dovrebbe più esistere alcun tabù che non si possa trascinare nel fango del divertimento. In definitiva, abbiamo appena superato la fase dell’orgia dei grandi ideali e dei valori fededegni […] I sociopatici edonisti fomentano la confusione proprio là dove si impongono le verità assolute; vivono secondo il principio situazionista di fare con ogni mezzo di ogni circostanza una realtà assurda che valga la pena essere vissuta”[29]


Il resto è cronaca recente. Ribattezzatosi Wu-Ming, l’“individuo multiplo” si adopra a confondere le proprie sorti con quelle dei “nuovi movimenti”: Tute bianche, “no global” e – perché no? – un poco del deprecato antifascismo debitamente rivisitato… Quale che sia la corrente, la funzione della schiuma è restare a galla.


Dall’ammorbidente postideologico alle ricette non violente della nonna


Una radiografia delle attuali strategie delle destre permette di cogliere nella lotta alla globalizzazione e all’“omologazione” condotta in nome della difesa delle identità locali, il principale operatore delle sinergie tra destre di governo (in particolare An e Lega), Nuova Destra e neofascisti “militanti” (Fiamma Tricolore, Forza Nuova e diversi gruppi naziskin)[30]. Questa intelligente rottura delle classificazioni correnti basate sulla giustapposizione di destre “rinnovate” ed “ultra” rischia però di suggerire, come per contraccolpo, l’esistenza di un sicuro discrimine tra destre e sinistre, come se la rivendicazione delle identità locali contro l’“omologazione” fosse esclusivo retaggio delle prime, mentre troppi elementi mostrano che in realtà le cose non sono così semplici.

Sulla copertina del numero di settembre 2001 di Diorama letterario, periodico della Nuova Destra diretto da Marco Tarchi, campeggia una fotografia. Sullo sfondo persone in tunica e kefiah, in primo piano un manifestante dal volto coperto, una mano levata in segno di vittoria e l’altra che regge un cartello: “Resist Corporate Tyranny. Wto- Just say no! The people have spoken”. L’uomo indossa una sorta di mantella bianca con cappuccio, che – a prima vista – è facile confondere con le Tute bianche che hanno popolato i media soprattutto negli ultimi mesi. Un effetto ambivalente, tra mistificazione e ammiccamento. Sotto la foto, il titolo del fascicolo: “Globalismo e dovere di resistenza”.

Il pezzo di apertura si accolla la difesa delle ragioni del “movimento no global” dalle infondate imputazioni giornalistiche di “marxismo”:


che nel pulviscolo di organizzazioni che hanno fatto del no global la loro bandiera ve ne siano un buon numero – a partire dalla costellazione dei “centri sociali” – in cui allignano, sia pure a livello più simbolico che dottrinario, reminescenze di marxismo, classismo, operaismo e altri detriti delle effervescenze politico-sociali degli scorsi tre decenni, è senz’altro vero. Ma lo è altrettanto che né questi materiali si sono condensati in una piattaforma ideologica monolitica, né essi sono le uniche fonti di ispirazione di un movimento che, come spesso succede nei fenomeni di protesta, convoglia forme di antagonismo molto eterogenee e caratterizzate assai più in negativo, per i bersagli polemici che si scelgono, che in positivo, per una proposta organica di soluzione dei problemi che indicano[31].


Celebrando i progressi del “superamento” dell’opposizione destra/sinistra, che ha aperto nuove possibilità a temi un tempo squalificati come “la difesa delle identità territoriali e delle ‘piccole patrie’” e a “istanze potenzialmente trasversali” come il pacifismo, il localismo e il comunitarismo, il testo riserva un apprezzamento degno di attenzione alla “crisi della sinistra già comunista” che ha “confuso le carte in tavola”:


Quelle componenti che non si sono riciclate in appendice progressista del fronte liberale solo in parte si sono accontentate di tener duro attorno a posizioni ortodosse. Molti di coloro che si sentivano di sinistra per un generico desiderio di equità o per disgusto dell’ordine sociale e culturale esistente hanno aperto le proprie inquietudini ad altre influenze, fra le quali il rifiuto dell’omologazione all’american way of life e dell’occidentalizzazione planetaria ha assunto, pur tra molte contraddizioni, un ruolo rilevante[32].


Per chi voglia mantenere una distanza critica dalla doxa autocelebrativa che ha caratterizzato il “dopo Genova”, non è difficile reperire nella formazione della versione italiana del “popolo di Seattle”, pesanti tracce delle altre influenze guardate con tanto comprensibile interesse dalla Nuova Destra. Scegliamo, a titolo di semplice campione tra i molti possibili una tappa rilevante di questa formazione: le giornate del vertice Ocse del giugno 2000 a Bologna e le relative contestazioni.

Rinnovando i fasti della mediazione riedificata sulle ceneri del ’77, questa scadenza si era conclusa nella soddisfazione generale: “tutti hanno dichiarato di aver vinto come fosse stata un’elezione politica”[33], dal leader delle Tute bianche: “Bologna è stata come Seattle, in piccolo”, al questore: “Bologna non è stata Seattle”[34]. Soddisfazione “bipartisan” (in anticipo sulla diffusione massiccia del termine): dal sindaco della nuova maggioranza di centrodestra che, nel suo saluto al vertice, “ha sottolineato come Bologna difenda le radici, ma guardi al nuovo”[35], al premier di centrosinistra Amato, che blandiva i dimostranti dichiarando: “Le loro preoccupazioni sono le nostre”[36].

Queste valutazioni ‑ certo sfasate rispetto ai segmenti critici della protesta (che, come ogni realtà refrattaria al cretinismo creativo, sono autoritariamente identificati con le “ideologie residuali” e/o la “violenza”) ‑ rapportate alla gestione e alla regia dell’immagine del “movimento” mostrano una certa pertinenza. La bolognesissima coniugazione della tradizione e del “nuovo” esaltata dal sindaco Guazzaloca, la valorizzazione della piccola e media impresa in agenda del vertice Ocse, risultavano in effetti largamente componibili con la grottesca sagra paesana spacciata per contestazione, entusiasticamente ritratta nelle cronache locali di Repubblica:


Il tortellino No Ocse diventa il piatto forte della contestazione. La tradizione fresca di giornata contro l’hamburger fritto del gigante multinazionale. Il cibo bolognese doc contro la blanquette di coniglio proposta ai ministri nella cena di gala esterofila di stasera. Se protesta dev’essere, a Bologna, allora lo sia fino in fondo. A tavola. L’anima contestatrice, quella dei centri sociali cittadini, usa la fantasia come più volte promesso. E le ricette non violente della nonna. Livello 57, Teatro polivalente occupato e Atlantide, alla globalizzazione da BigMac rispondono con un’arma neanche tanto segreta: il little tortellino. Le Tute bianche della rete No Ocse, in versione ‘chef&camerieri’ […] hanno fatto un blitz a Mc Donald’s di via Rizzoli. Una manifestazione in nome e per conto del più tipico dei prodotti nostrani, acquistato per l’occasione nel tempio gastronomico di Tamburini, ormai emblema della resistenza anti transgenica in un Quadrilatero blindato da polizia e carabinieri. Lì, tra i tavolini del fast food, i centri sociali hanno distribuito a passanti e clienti spaghetti al sugo e vini ‘genuini’ (oltre ai simbolici tortellini made in Bologna) [37].


La critica delle connotazioni etniciste e campanilistiche della politica del sindacato, del Pci e delle amministrazioni locali “rosse” ‑ che nel ’77 si era tradotta in slogan provocatòri come “La rivolta nel paradiso della mortadella” – si è così platealmente rovesciata, per opera dei perenni “rappresentanti”, dal rilancio del tortellino doc al recupero del dialetto bolognese come linguaggio “di lotta”[38]. Un penoso riciclaggio in chiave alternativa (?) dello storico impiego della lingua nella produzione di etnicità fittizia[39]. Ma nel tempo in cui il leader della Lega nord, incoronato ministro, si presenta in televisione per recitare poesie in napoletano[40], le potenzialità “sovversive” dei dialetti, l’apologia delle “comunità” e delle “culture” locali, dovrebbero ormai destare qualche pur tardivo sospetto anche tra i più sprovveduti “contestatori”.

La contestazione dei Mc Donald’s, ormai divenuta per metonimia un cliché della lotta al nemico “globale”, ha subito una gamma di declinazioni fin troppo ampia, in cui il confine tra “popolarità” e populismo si è pericolosamente stemperato. Al di là della cronaca, il duello tortellino-hamburger può assumere una paradossale valenza simbolica, sintetizzando il disastroso smottamento dalla lotta al capitale multinazionale allo scontro tra “culture”. Del resto, solo una smisurata fantasia creativa può pretendere di opporsi a Mc Donald’s in nome di una regionalizzazione alimentare ormai già operativa nelle più avanzate strategie di rinnovamento del colosso della ristorazione rapida[41].


Un altro mondo è possibile?


Curiosamente, il “nuovo movimento” non sfugge alla rituale inibizione della critica, che correda “spontaneamente” l’acuirsi del pericolo. Come per incanto, le più squalificate formule di contabilità velleitaria presiedono ai “bilanci”: la repressione come “prova” della radicalità del “movimento”, lo “smascheramento” della repressione come vittoria e, dulcis in fundo, l’unanimismo di fronte all’emergenza.

Così, la violenta (ri)scoperta del nocciolo duro degli apparati di Stato e il complementare trionfalismo per l’“esserci in tanti, e diversi” sono per ora riusciti a esorcizzare una seria disamina del funzionamento delle macchine organizzative e pubblicitarie deputate alla produzione di “eventi”.

Ma l’arcano della contraddizione tra il preteso carattere di assoluta novità del “movimento” e la riproduzione di vecchi vizi che presentano tutta l’inerzia delle storie di lunga durata potrebbe rivelarsi come la semplice differenza strutturale tra le due facce di una stessa medaglia. Si pensi alla ricorrente denegazione del rapporto con gli anni Settanta che, come un vero e proprio lapsus, tradisce, in forma negativa, una relazione costitutiva con i nodi non sciolti – cioè illusoriamente recisi – di una storia.

Il mito di una generazione “giovane”, finalmente liberata dagli opprimenti fardelli del passato e il culto dell’innocenza sono d’altra parte gli immancabili ingredienti di ogni revisionismo: dalla matrice negazionista alle più diverse forme di relativizzazione e pacificazione della storia. Si spiega forse anche così la sorprendente tolleranza che discorsi quali la “provocazione revisionista” hanno, a loro tempo, incontrato proprio nei settori più protesi al “nuovo” e al “rinnovamento”.

Un soggetto assolutamente nuovo è aprioristicamente garantito dell’alterità di ciascuno dei propri atti, essendo dotato del potere taumaturgico di trasmettere la propria novità a tutto ciò che tocca: una volta, può trasformare il vecchio armamentario negazionista in un’interessante provocazione, un’altra, può scodellare le “ricette della nonna” come l’ultima e più aggiornata trovata, e così via. La possibilità stessa della critica è preclusa: come si potrebbe scandagliare uno spessore dove non c’è che pura superficie? E quale parametro potrebbe far fronte a cotanta novità senza risultare, per ciò stesso, “vecchio” e “superato”?

In questo quadro, elementi di invenzione delle tradizioni comunitarie ‑ dal conio degli “autonomi padani” (in nome di un “federalismo dal basso” quale improbabile alternativa strategica alla Lega) che, nel nordest, precede le Tute bianche, alla kermesse anti-Ocse – sono stati impiantati senza traumi significativi nel campo delle “nuove forme di opposizione”.

Alla foce di un processo ormai più che decennale di “sperimentazioni” disperse, riscontriamo oggi le prime avvisaglie del formarsi di una neolingua, attraverso la circolazione in ambito alternativo di neologismi come glocalizzaione (o il condensato anglicizzante glocal) che, contemporaneamente, figurano nel lessico delle destre più aggiornate. Il programma declamato da un dirigente “postfascista” in occasione di una manifestazione della destra antiglobal a Roma nel luglio 2001, può sintomaticamente evidenziare lo stadio di avanzata con-fusione dei gerghi nei “nuovi movimenti”:


Il nostro nemico è l’omologazione. Accettiamo la sfida della globalizzazione economica ma vogliamo che le identità dei popoli vengano salvaguardate, che il mercato rispetti tradizioni e culture. Con il neologismo “glocalizzazione” intendiamo rappresentare una vera e propria apologia della differenza rispetto all’annullamento delle culture nazionali. È una posizione che viene da lontano, lungamente elaborata negli anni ’80 all’interno del Fronte della Gioventù e che ha come riferimenti culturali Alain de Benoist e gli esponenti del differenzialismo francese[42].


Da tempo la più attenta riflessione sulle trasformazioni del discorso razzista (dalla biologia alla “cultura”, dall’affermazione della gerarchia tra le razze all’elogio della differenza etnica e culturale) ha richiamato l’attenzione sulle preoccupanti omologie tra le varie forme di elogio della differenza diffuse nella sinistra e il differenzialismo elaborato dalla Nuova destra[43]. Ma la potente sollecitazione critica impressa dalla messa a fuoco dell’inquietante emergenza di un neorazzismo dedito alla ritorsione di concetti e parole d’ordine in un investimento politico di segno inverso centrato sulla difesa delle “identità”, richiederà nuovi spostamenti a fronte di un’ulteriore rotazione della scena in cui i contendenti intraprendono, su bordi opposti, il collaudo di una lingua comune.

Al di là delle marce, resta molta strada da fare per dare un senso desiderabile all’affermazione che “un altro mondo è possibile”.



[1] Giosue Carducci, Il bove (1872), in Rime nuove, 1877.

[2] Renzo Paris, “Caro Andrea, pensaci…”, il manifesto, 27 dicembre 2000.

[3] Relativamente ai rapporti tra Insabato e i neofascisti di Forza nuova, e tra questi ultimi e la destra di governo, rinviamo a Anubi D’Avossa Lussurgiu, “Insabato e i suoi amici”, Liberazione, 30 dicembre 2000 e Guido Caldiron, “Un’area inquietante. Tutti i ‘link’ tra il presidente della regione Lazio e gli eredi del neofascismo estremo”, il manifesto, 28 dicembre 2000. Le interpretazioni psicologizzanti o psichiatrizzanti del gesto di Insabato da più parti suggerite sembrano confermare le osservazioni di Debord sulla distanza che separa il nostro tempo da quello dell’attentato a Jaurès. Vedi Guy Debord, Commentaires sur la Société du spectacle, Éditions Gérard Lebovici, Paris 1988, § XXV.

[4] Per una lucida contestualizzazione critica del discorso di Violante alla Camera del 10 maggio 1996 (e di analoghe dichiarazioni del presidente Scalfaro) rinviamo a Cesare Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), Odradek, Roma, 1997, in particolare pp. 74-80. L’esigenza di una rinnovata unità nazionale, nel quadro dell’adesione alla guerra all’Afghanistan, è stata recentemente rilanciata, nel solco aperto da Violante, dal presidente della repubblica “bipartisan”, con un discorso sui “ragazzi di Salò” variamente riportato e commentato dai principali quotidiani italiani del 15 ottobre 2001 e dei giorni seguenti.

[5] Per queste dichiarazioni di Massimo D’Alema e Luca Casarini rinviamo ai maggiori quotidiani italiani del periodo.

[6] Guy Debord, Commentaires sur la Société du spectacle, cit., § XXVIII.

[7] Ida Dominijanni, “Quella destra rimossa”, intervista a Gavino Angius, il manifesto, 28 dicembre 2001.

[8] Lutz Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Donzelli, Roma 1997, p. VIII. Sul transito da destra a sinistra del concetto di “paese normale” rinviamo a Rudy M. Leonelli, “Un revisionismo normale”, Arcipelago, n. 4, 1999.

[9] Rudy M. Leonelli, “Il Grande Dialogo”, Atti del convegno Anni ’70-Anni ’90, Bologna 1994, in Vis-a-vis, n. 3, 1995, poi ripubblicato in formato “millelire” da FreePress, Bologna 1995.

[10] Jorge Luis Borges, “Tom Castro, l’impostore inverosimile”, in Storia universale dell’infamia (1935).

[11] Riferimento all’appello contro la legittimazione dell’estrema e nuova destra pubblicato da Le Monde, 13 luglio 1993, e ripreso, lo stesso giorno, da L’Unità, il manifesto e altri quotidiani italiani.

[12] Lettera aperta a il manifesto promossa da un’assemblea all’aula magna di Lettere e filosofia dell’università di Bologna. Mai pubblicata dal quotidiano, la lettera può essere richiesta alla redazione di Invarianti.

[13] Francesco Erbani, “La Nuova Destra? A sinistra”, La Repubblica, 2 settembre 1994.

[14] “Per non dimenticare Sabra e Chatila”, Le Monde Diplomatique - il manifesto, settembre 2000, p. 13.

[15] Financo l’ideologo del “revisionismo olocaustico”, Carlo Mattogno, cita come positiva testimonianza del successo del negazionismo a sinistra, la “provocazione revisionista” di Transmaniacon in una lettera di precisazioni a Marxismo oggi, n. 3, 1996.

[16] Per una ricostruzione critica di queste vicende rinviamo a Rudy M. Leonelli, Luca Muscatello, Vincenza Perilli, Leonardo Tomasetta, “Negazionismo virtuale: prove tecniche di trasmissione”, Altreragioni, n. 7, 1998; Guido Caldiron, “Liaisons romaines”, in A. Bihr et al., Négationnistes: les chiffonniers de l’histoire, Golias- Syllepse, Villeurbanne-Paris, 1997; Centro di comunicazione autonomo di Bologna, “Contro il revisionismo storico di ‘sinistra’”, La Comune-Progetto Memoria, n. 15, 1994.

[17] Angelo Quattrocchi, La battaglia di Genova, Malatempora, Roma, 2001, p. 103. Sarebbe troppo chiedere a quest’opuscolo, capace di concludere che la “tre giorni” di Genova è stata “una battaglia psichica, una battaglia metaforica” (p. 104), un minimo di informazione storica sull’esistenza di una certa Radio Gap che, nella primavera 1970, realizzò proprio a Genova le sue prime interferenze sui Tg-Rai. Il libello mostra del resto fin troppo bene come lo svuotamento della storia effettiva per mezzo dell’inflazionata “provocazione” parodistica possa estendersi alla “teoria” generando un pastiche in cui Raul Vanheigem e Hakim Bay (sic) figurano come “i Marx ed Engels contemporanei” (p. 90). Nessun chiarimento è invece fornito da Quattrocchi sulla voce (forse una leggenda metropolitana?) che, probabilmente sulla base del gran parlare di felpe e cappucci nel dopo Genova, riconduce l’attuale uso della sigla “Gap”, a una sponsorizzazione ufficiosa dell’omonimo marchio di abbigliamento giovanile.

[18] Segnatamente la nuova traduzione italiana de Le mensonge d’Ulysse di Paul Rassinier, sfornata dall’editrice genovese nel 1996, a trent’anni da quella realizzata dalla neonazista Le Rune, dedicata “a Giovanni Preziosi eroe e martire della verità”. La produzione editoriale di Graphos, che mixa una copiosa produzione negazionista ad opere della sinistra rivoluzionaria, ha trovato – difficile dire se per ignoranza, indifferenza o connivenza – una certa diffusione in alcuni ambiti di estrema sinistra.

[19] Leonardo Lippolis, “‘Togliti i baffi, ti abbiamo riconosciuto’. La vera storia di un bluff (il Luther Blissett Project e i suoi padrini) e della sua cattiva coscienza (l’Internazionale Situazionista)”, Invarianti, n. 34, 2000, pp. 20-21.

[20] Per una ricostruzione delle “provocazioni” transmaniache nel contesto alternativo bolognese, riproduciamo ampi stralci dal volantone Diamoci un taglio, diffuso a Bologna nel marzo 1997 da un ironico “Centro studi femministi Lorena Bobbit”, un testo che ricompone diversi frammenti critici circolati in numerosi scritti e volantini negli anni precedenti:

[…] Nel '92 i Lion Horse Posse (LHP) - un gruppo rap italiano già attaccato da femministe a Roma e Milano per i testi sessisti - vengono pesantemente contestati da alcune compagne a Bologna durante un concerto sulla questione del carcerario per la liberazione dei detenuti politici comunisti. Durante lo scontro (verbale e non) che ne segue, le compagne femministe vengono accusate di avere un atteggiamento “non politico”, di porre questioni “moralistiche” su problemi in quel contesto meno importanti e, naturalmente, di essere portatrici di un atteggiamento “censorio” […]

In seguito alla contestazione bolognese degli LHP, alcune compagne tedesche, informate dell'accaduto, bloccano una serie di concerti del gruppo in Germania. Dall'ambiente rap bolognese, dominato da uno spirito di solidarietà di corpo e di corporazione con i compari LHP, nel febbraio ‘93 parte una provocazione contro alcune compagne femministe e lesbiche (coll. Artemide e le Furie) che si riunivano in una sede “separata” nelle case occupate di via del Pratello. Un componente dell'Isola Gay Posse (IGP), attraverso una finestra, scatta fotografie durante una riunione delle compagne che reagiscono inseguendolo e pretendendo la restituzione del rullino. Lo scontro, provocato ad arte, e la legittima autodifesa delle compagne, che non avrebbe scandalizzato nessuno in qualsiasi altro ambito politico, fa da pretesto per scatenare una vera e propria “caccia alle streghe” contro femministe e lesbiche “intolleranti e settarie”.

L'attacco alle compagne raggiunge l’apice in una trasmissione di Radio Kappa Centrale, condotta dal collettivo Transmaniacon e con “ospiti in studio”, Isola gay posse, ex Isola nel Kantiere (una parte di questi ultimi si é di lì a poco riciclata nel neonato progetto Link) e alcuni personaggi dell'ambiente “alternativo” bolognese quali Hélena Velena e Pina D’Aria. Da questa trasmissione partono minacce contro le compagne e vengono date informazioni false e faziose sui fatti. Gli IGP & CO, indicono una “festa” all'interno del cortile di via del Pratello, festa che viene annunciata con i toni di un vero e proprio "regolamento di conti". I compagni interni al progetto radio non prendono una decisa posizione contro il collettivo dei transmaniaci, nascondendosi dietro la foglia di fico della “libertà d'opinione” e del rifiuto di atteggiamenti censori. Le trasmissioni del collettivo Trasmaniacon continuano infatti come se niente fosse.

Pochi giorni dopo, il 17 febbraio '93, le compagne lesbiche e femministe - coll. Artemide e le Furie e coll. Siam Tornate (eravamo a far la spesa) - occupano RKC nelle ore destinate alla trasmissione Trasmaniacon.[…] Nei giorni seguenti il transmaniaco R. B. (che di lì a poco indosserà la nuova non-identità di Luther Blissett) preleva i nastri registrati della trasmissione “incriminata” e li ripulisce opportunamente regalandone copie a destra e manca. In questo modo si prepara a passare da aggressore a calunniato. Contemporaneamente diffonde un comunicato dove attribuisce alle compagne rivendicazioni di tipo identitario e differenzialista, come dire: neorazzista.

Ai primi di Marzo dello stesso anno, immediatamente dopo una festa femminista e lesbica organizzata dal coll. Siam Tornate al Circolo Berneri (Cassero di Porta S. Stefano), la banda di RKC e i loro collaboratori della libreria di "movimento" Grafton 9 (che ancora non avevano “occupato” il Livello 113), lanciano l'ennesima provocazione chiedendo i locali del Berneri per una propria festa. Le compagne del collettivo – che da circa un anno utilizzavano, nel pieno rispetto della propria autonomia, quegli spazi per i loro incontri –, chiedono agli anarchici di assumere una precisa posizione rispetto ai fatti, ma tra questi prevale “un atteggiamento più liberale che libertario” e i transmaniaci & Co ottengono i locali. Le compagne femministe, giudicando oramai inaccettabile la condivisione di quello spazio, abbandonano il Cassero. Per non ridurre il fatto ad un caso isolato, basti ricordare che gli anarchici di Porta S. Stefano qualche mese fa hanno messo a disposizione i locali del Berneri per una tre giorni organizzata da tal Caffè Acratico: tra gli eventi un incontro con Hélena Velena, già “ospite” di Trasmaniacon, già organizzatore/trice di varie edizioni della manifestazione “Erotica” e già autore/autrice di Dal cybersex al transgender. Tecnologie, identità e politiche di liberazione, dove, dopo aver ringraziato l’amico Luther Blissett, l’avvelenata Velena per spiegare come “liberarsi” tramite il sesso mediatico (dove sì “le donne la fanno vedere” ma “mica gliela danno”), a p. 36 sentenzia: “le vetero femministe continueranno a parlare di sfruttamento del corpo femminile... autoproducendo la propria condizione di subalternità e schiavitù” (detto altrimenti: la colpa è nostra!).

Il testo di Hélena Velena è stato pubblicato nel '95 da Castelvecchi, casa editrice già tristemente nota per pubblicazioni che celebrano le delizie della “contaminazione” con la Nuova Destra, tra cui Come si cura il nazi di monsieur Bifo […]

Da questa prima panoramica, oltretutto lacunosa, emergono alcuni fili e snodi di una fitta rete di scambi e relazioni. È proprio questa struttura reticolare ad essere significativa […] Al di là dei meri “dati” (che comunque servono e auspicheremmo un lavoro di mappatura di eventi e situazioni più articolato) su un piano più “teorico” assistiamo […] all’emergere di una cultura fortemente reazionaria dietro la maschera movimentista. Soprattutto vorremmo attirare l’attenzione da una parte sulle “accuse” che nella maggioranza dei casi vengono mosse alle compagne – settarie, censorie, presunte portatrici di discorsi identitari e differenzialisti –, dall'altra su discorsi quali il meticciato, la contaminazione e l'anti-identitarismo, ormai moneta corrente in ambito “alternativo”. Questi discorsi, nella loro “banalizzazionemovimentista sono molto più vicini ai discorsi del femminismo differenzialista […] e ai discorsi della Nuova Destra di quanto, apparentemente, non possa sembrare o vogliano far credere. Qui si aprono nuovi problemi. Non basta, anche se è indispensabile, denunciare singoli episodi, e neppure - come abbiamo cercato di fare qui - vedere i legami, le sequenze, le reti che li collegano, ma occorre cercare di capire come si stia formando (o si sia già formata) una nuova cultura. E' una cultura nemica della nostra autonomia che è fatta di comportamenti, piccoli enunciati di ogni giorno, ma anche di vere e proprie “linee” e indirizzi teorici che collegano in diagonale la cultura “alta” e le sottoculture (dalla musica alle radio, dalle fanzine alle scritte sui muri, anche quelle sulle pareti dei cessi del 36, ecc.) […].

[21] L. Lippolis, “‘Togliti i baffi, ti abbiamo riconosciuto’, cit., p. 31.

[22] R. M. Leonelli, L. Muscatello, V. Perilli, L. Tomasetta, “Negazionismo virtuale: prove tecniche di trasmissione”, cit., p. 178.

[23] Gilberto Centi, Luther Blissett. L’impossibilità di possedere la creatura una e multipla, Synergon, Bologna 1995, p. 61.

[24] Falko Blask, Q come caos. Un’etica dell’incoscienza per le giovani generazioni, Marco Tropea Editore, Milano 1997, pp. 9-10.

[25] Ibid., p. 27.

[26] Ibid, p. 29.

[27] Ibid., p. 31.

[28] Sul supplemento politico al romanzo blissettiano rinviamo al citato saggio di L. Lippolis (pp. 30-31).

[29] F. Blask, Q come caos, cit., p. 159.

[30] Guido Caldiron, “Antiglobalismo razzista”, Liberazione, 21 luglio 2001.

[31] Marco Tarchi, “La cultura dell’intimidazione e il dovere di resistenza”, Diorama Letterario, n. 247, settembre 2001, p. 3.

[32] Ibid., p. 4.

[33] Luigi Spezia, “Dopo le botte i sorrisi, l’Ocse fa tutti contenti”, La Repubblica – Bologna, 16 giugno 2000.

[34] Si vedano i trafiletti dedicati a “I contestatori” e “Il questore”, che corredano l’articolo sopraccitato. Il bilancio del questore è del resto in perfetto accordo coi guru della contestazione virtuale: “Bologna non è stata Seattle. Forse lo è stata nella dimensione virtuale, attraverso Internet. Ma, tutto sommato, c’è stata una manifestazione composta”.

[35] Valerio Varesi, “Guazza: disagi limitati. Soddisfatto date le attese della vigilia”, La Repubblica – Bologna, 15 giugno 2000.

[36] “L’impresa emiliana”, il manifesto, 15 giugno 2000.

[37] Andrea Chiarini, “La protesta nuda con i tortellini. Bifo & company si spogliano in piazza”, La Repubblica – Bologna, 14 giugno 2000.

[38] Il cronista può così incontrare, “in una improvvisata conferenza stampa, Valerio Monteventi […], che gira con una originale scritta sulla maglietta, “C’at vegna un Ocse” (che ti venga un Ocse, come fosse una malattia incurabile)”; Luigi Spezia, “No-Ocse blocca il centro per bersi il contro-aperitivo”, La Repubblica ‑ Bologna, 13 giugno 2000.

La proverbiale giovialità petroniana si prestava, del resto, straordinariamente bene a classificare ogni tensione divergente come “violenza”(?) estranea all’anima profonda – si direbbe quasi alle “viscere” – della città conviviale per eccellenza. Una volta (re)introdotto, il discorso potrà essere ripreso altrove, in circostanze più drammatiche – pensiamo a Genova – dove si cercherà di addebitare, come alle origini dell’“emergenza”, ogni insubordinazione alla violenza di Stato ai “violenti”: estranei, meglio ancora “stranieri”, “venuti da fuori”. Ben prima delle uscite di Agnoletto, rilanciate da giornalisti e politici della sinistra, a proposito degli insufficienti controlli della polizia alle frontiere che non avrebbero impedito l’entrata in Italia dei violenti , Paola Ferraris ha sottolineato gli analoghi distinguo messi i campo in occasione del World Economic Found di Melbourne: “Ma il movimento, salvo marginali ‘disgraziati’ violenti e perciò ‘non australiani’ per il paterno primo ministro, resta saldo nella resistenza pacifica e così ottiene perfino la solidarietà dei delegati del Forum […]”; P. Ferraris, “’Movimento di libertà’? Fra Seattle e Praga, la rappresentazione unificata di eventi imprevisti e di incidenti preparati”, Invarianti, n. 34, 2000, p. 64.

[39] Sulla produzione di etnicità fittizia rinviamo ai saggi di Étienne Balibar, in É. Balibar – I. Wallerstein, Razza nazione classe. Le identità ambigue, Edizioni Associate, Roma, 1990.

[40] Leandro Palestini, “Bossi, una voce per Eduardo. In tv da Ranieri, il leader della lega recita in napoletano”, La Repubblica, 3 ottobre 2001. L’articolo riferisce con sorpresa approvazione le dichiarazioni di Bossi, del resto perfettamente conformi alle dottrine etnopluraliste della Nuova Destra: “La canzone napoletana emerge da un dialetto popolare, io preferisco un potere che viene dal basso e un federalismo culturale. Non credo che il mondo vada regolato dall’alto, dai banchieri […] È sbagliato dire d’essere superiori […] io penso che nessuna civiltà sia veramente superiore a un’altra. Sarei cauto. Diciamo che siamo diversi rispetto all’Islam e dovremmo accettare la diversità”.

[41] Come spiega una responsabile di MacDonald’s France in un’intervista a un settimanale a massiccia diffusione gratuita nella metropolitana parigina, la multinazionale si è lanciata da tempo nella “battaglia del gusto” con una serie di campagne improntate alla logica della “prossimità culturale”, culminate quest’estate nell’operazione “Une touche de région” (“MacDo se met au goût du jour”, A nous Paris!, n. 113, 13-18 novembre 2001).

[42] Basilio Catanoso, responsabile nazionale di Azione Giovani e deputato di An, intervistato da G. Caldiron, “Antiglobalismo razzista”, cit.

[43] Su questi temi, un testo di referenza, sebbene di impianto teorico criticabile (cfr. Rudy M. Leonelli, “Le sventure della virtù. Per la critica del post-antirazzismo”, Altreragioni, n. 4, 1995) è Pierre-André Taguieff, La force du préjugé, La Découverte, Paris 1987, tr. it. La forza del pregiudizio, Il Mulino, Bologna 1994. Riteniamo altresì fondamentale, oltre al già ricordato libro di É. Balibar e I. Wallerstein, il lavoro di Colette Guillaumin e in particolare i saggi raccolti in Sexe, race et pratique du pouvoir. L'idée de nature, Côté-Femmes Editions, Paris 1992. Per una problematizzazione degli inquietanti esiti dell’applicazione del paradigma differenzialista (nella sua versione femminista) alla storiografia del nazionalsocialismo rimandiamo a Liliane Kandel, (a cura di) Féminismes et nazisme, en hommage à Rita Thalmann, Publications de l'Université Paris 7-Denis Diderot, Paris 1997 (cfr. Vincenza Perilli, “L’innocenza di Eva”, Altreragioni, n. 8, 1999).