martedì 25 settembre 2012
Atse Tewodros Project
giovedì 11 dicembre 2008
Contro la violenza sessista e razzista, contro vecchi e nuovi fascismi, tutte unite: rivolta!
ضد العنف الجنسي و العنصرية
ضد الفاشية الجديدة و القديمة
لنتحد جميعا : انتفاظة
Impotriva violentei sexiste si rasiste
impotriva fascismului vechi dar si a celui nou
toate unite: revolta!
contre les vieux et les nouveaux fascismes
toutes unies : révoltons-nous!
contra los viejos y los nuevos fascismos
unàmosnos todas: revuelta!
protiv starih i novih fasizama
Sve zajedno:pobuna!
TODAS UNIDAS: REBELIÃO
contro vecchi e nuovi fascismi
tutte unite: rivolta
MANIFESTAZIONE ANTIRAZZISTA, ANTISESSISTA E ANTIFASCISTA
BOLOGNA 13 DICEMBRE 2008
LABORATORIO FEMMINISTA KEBEDECH SEYOUM
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mercoledì 3 dicembre 2008
Toate unite: revolta! (Contro fascismo, sessismo, razzismo)
impotriva fascismului vechi dar si a celui nou
toate unite: revolta!
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venerdì 21 novembre 2008
لنتحد جميعا : انتفاظة
ضد العنف الجنسي و العنصرية
ضد الفاشية الجديدة و القديمة
لنتحد جميعا : انتفاظة
protiv starih i novih fasizama
Sve zajedno:pobuna!
contra los viejos y los nuevos fascismos
unàmosnos todas: revuelta!
contre les vieux et les nouveaux fascismes
toutes unies : révoltons-nous!
CONTRA VELHOS E NOVOS FASCISMOS
TODAS UNIDAS: REBELIÃO
contro vecchi e nuovi fascismi
tutte unite: rivolta!
ROMA 22 NOVEMBRE 2008
MANIFESTAZIONE NAZIONALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE
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venerdì 7 novembre 2008
Donne e lesbiche negli anni del nazifascismo tra resistenze, sopravvivenze e complesse complicità

Nel Quaderno abbiamo raccolto alcuni materiali relativi alla serata, delle brevi bio-biblio-videografie delle partecipanti (Paola Guazzo, Lidia Martin, Graziella Bertozzo e Alessia Proietti), gli abstract dei loro interventi , oltre che una presentazione della mostra fotografica Le SS ci guardavano: per loro eravamo come degli scarafaggi e una scheda del documentario Bandite. Per quant* non potranno esserci, posterò man mano qui i materiali di questo primo Quaderno. Per intanto ecco la presentazione del Laboratorio che abbiamo preparato per questa occasione.
Laboratorio Kebedeck Seyoum: una presentazione
Il Laboratorio è una rete translocale antifascista, antisessista e antirazzista, costituita da donne e lesbiche provenienti da pratiche, percorsi e “mondi” diversi, accomunate dalla consapevolezza che è quanto mai necessario oggi porre al centro della pratica teorica e politica le interrelazioni delle categorie (e dei rapporti) di classe, genere, “razza” e sessualità. Abbiamo cominciato a confrontarci da tempo attraversando spazi, momenti, luoghi ed esperienze molteplici: dalle riflessioni nate intorno al numero monografico Donne di mondo. Percorsi transnazionali dei femminismi (Zapruder, n. 13 2007) all'imponente manifestazione dello scorso novembre a Roma contro la violenza sulle donne, dalle discussioni all'interno del Sommovimento antirazzista e antisessista nato dal Tavolo razzismo del Flat romano nel febbraio di quest'anno all'adesione e partecipazione al grande corteo dei/delle migranti del 5 luglio qui a Bologna.
Il nostro confronto si si è anche nutrito (e si nutre) delle lotte passate di donne e lesbiche contro il fascismo, il sessismo, il razzismo coloniale e post-coloniale, delle relazioni con donne impegnate attivamente su queste questioni in Italia e altrove e soprattutto delle elaborazioni ed esperienze concrete sviluppatesi anche in altri contesti nazionali, grazie alla presa di parola di donne migranti o appartenenti alle cosiddette seconde e terze generazioni. Di qui, la convinzione che l'interrogarci sull'interrelazione tra sessismo e razzismo (nelle loro differenti forme e manifestazioni: dal femminicidio alla violenza omo-lesbo-transfobica, dalla deriva securitaria contro prostitute e altr* soggetti “fuori della norma”, dalla persistenza dell'antisemitismo e del razzismo antimeridionale fino all'attuale virulenza razzista contro rom e migranti) sia oggi condizione imprescindibile per instaurare uno scambio ed un rapporto tra donne “autoctone” e “migranti”, “bianche” e “non-bianche”, europee e non europee, postcoloniali e diasporiche, per agire insieme una reale pratica antisessista e antirazzista.
L'iniziativa che presentiamo stasera è un'ulteriore tappa – per noi fondamentale – di questo percorso. Riteniamo infatti che la privazione della memoria delle lotte passate e contemporanee sia una forma di dominazione che ha investito (ed investe) soprattutto le lotte delle donne, come dimostra la partecipazione delle donne italiane alla Resistenza, per lungo tempo disconosciuta o ridotta in termini di "aiuto" e di "contributo" al movimento di liberazione (“maschile”).
Noi vorremmo invece restituire l'importanza, la ricchezza e la specificità della lotta delle donne nella Resistenza e durante gli anni del nazifascismo, e del prezzo che esse hanno pagato: da quelle che hanno combattuto, anche armi in pugno, a quelle che sono state perseguitate, imprigionate, torturate, massacrate, violentate, deportate. Ma vorremmo farlo rifiutando sia le letture in termini meramente agiografici della Resistenza (che spesso si concentrano su alcune figure “esemplari” in termini fortemente retorici), sia il mito del “siamo (state) tutte resistenti”, ricordando invece anche le “zone d'ombra”, il consenso o la partecipazione di altre donne a gruppi e organizzazioni fasciste durante il ventennio. Ci sembra questa l'unica maniera per dare veramente valore a quante hanno pagato in prima persona il loro impegno militante e, più in generale, il loro anelito di libertà, e anche smarcarci con forza da quant* oggi propongono (nel quadro di un più vasto progetto di “pacificazione nazionale”) l'equiparazione tra chi ha resistito e chi no e, in ultima analisi, tra partigiani/e e fascisti/e. Questa chiave di lettura ci sembra inoltre proficua per affrontare – come ci proponiamo per il futuro – altre forme, passate e contemporanee, di lotta delle donne: lotte che hanno subito (e subiscono) un vero e proprio processo di rimozione, soprattutto quando mettono in crisi un certo immaginario sessista e razzista con il quale non si è ancora riuscit* a fare completamente i conti. In questo senso, la figura di Kebedech Seyoum – una delle tante indomite resistenti all'invasione coloniale italiana degli anni 30 – ci è sembrata emblematica.
La conoscenza della storia, di queste ed altre “resistenze”, di un passato e un presente di lotte, che come donne ci ha viste e ci vede protagoniste o comunque coinvolte è essenziale per mettere a punto nuove pratiche di resistenza e combattere il razzismo e il sessismo, fattori strutturali dei vecchi e nuovi fascismi.
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Durante la giornata (in piazza dell'Unità) e nel corso della serata a( XM24) sarà allestito un book shop a cura del Laboratorio con pubblicazioni su antisessismo, antirazzismo, antifascismo nonchè sull'interrelazione di classe, "razza", genere e sessualità (da Zapruder a Controstorie e oltre ...). Lo spazio è disponibile per l'esposizione/diffusione di materiali sul tema proposti da chi partecipa. Contattateci. Al book shop sarà anche possibile acquistare i biglietti per la manifestazione romana del 22/11 contro la violenza sulle donne ed aderire alla campagna Manette? No grazie, sto con Graziella.
lunedì 3 novembre 2008
R-esistenze femministe

Lidia Martin: Le poche feroci: donne in armi nella Resistenza
Paola Guazzo: Fuori e dentro la norma. Considerazioni sulla soggettività lesbica durante il nazifascismo
Graziella Bertozzo: presentazione della mostra Le SS ci guardavano: per loro eravamo come degli scarafaggi, a cura di Azione Gay e Lesbica Firenze
Proiezione di alcuni estratti del documentario di Alessia Proietti Bandite (2008). Sarà presente la regista
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giovedì 30 ottobre 2008
Kebedech Seyoum e le altre. Donne in guerra contro l'invasione coloniale italiana

Negli ultimi decenni il lavoro e la riflessione femminista (storica e non solo) ha invece messo in luce l'importanza del ruolo svolto dalle donne nella lotta contro il nazifascismo. Cercando di uscire dall'agiografia (dominante dal dopoguerra fino agli anni 60), la ricerca femminista ha mostrato come, al di là di alcune figure esemplari spesso restituite in termini fortemente retorici (pensiamo alla gappista Irma Bandiera "eroina purissima degna delle virtù delle italiche donne"), la partecipazione delle donne (lesbiche, ebree, jugoslave ...) alla Resistenza fu molto più massiccia di quanto si potesse comprendere attenendosi ai soli dati numerici che concernevano le donne impegnate in attività "organizzate" ( nei gruppi combattenti, nei Gruppi di difesa della donna ...), o le donne perseguite, imprigionate, torturate, massacrate o deportate.
Era necessario considerare non solo queste donne (la maggioranza delle quali non rientrava comunque nei criteri molto rigidi adottati alla Liberazione per il riconoscimento del titolo di resistente), ma anche la grande massa anonima delle donne che avevano aiutato i partigiani, i disertori, gli/le ebrei/e ... Del resto è chiaro che senza questo largo tessuto di sostegno, costituito principalmente da donne, la lotta partigiana stessa non sarebbe stata possibile. E' stata dunque incoraggiata l'introduzione della categoria di "resistenza civile" (elaborata da Jacques Sémelin in un contesto differente), uno strumento di analisi che ha permesso di comprendere la molteplicità delle condotte, non immediatamente riconducibili alla resistenza "armata" o "organizzata". Malgrado l'interesse di queste ricerche i rischi derivanti dall'assunzione di questa categoria non sono trascurabili, basti pensare a quel processo di estensione del concento di "resistenza civile" che ha portato all'inclusione nelle "pratiche di resistenza" di pratiche che potremmo definire di "sopravvivenza (tipo sfidare il coprifuoco per la ricerca di cibo). E' chiaro che in questo modo si finisce per "banalizzare" (o mettere in ombra) la lotta di quelle donne che, anche con armi in pugno, hanno fatto qualcosa di più che "sopravvivere", spesso anzi pagando con la vita il loro impegno militante. Ma si rischia anche di produrre una versione femminile del "siamo tutti resistenti ", altra faccia del mito "italiani, brava gente". Rischio che mi sembra tanto più reale, se si pensa al fatto che molte di queste ricerche, privilegiando il periodo 1943-1945, eludono una riflessione sul consenso, anche femminile, al fascismo durante il "ventennio" e sulla partecipazione delle donne a gruppi e organizzazioni fasciste.
Ma su queste questioni avremo modo di ritornare durante l'incontro promosso dal Laboratorio femminista Kebedech Seyoum a Bologna in occasione del 64 anniversario della battaglia di Porta Lame il 7 novembre (iniziativa di cui presto posterò qui il programma completo). Per intanto mi preme riprendere la questione che ponevo all'inizio di questo post, ovvero di come la privazione della memoria delle lotte passate e contemporanee è una forma di dominazione. E' chiaro che questo processo diviene vera e propria rimozione quando queste lotte riguardano donne di altri contesti nazionali, soprattutto se, come nel caso delle donne resistenti etiopi che lottarono contro l'invasione coloniale italiana, questa rimozione si intreccia con la smemoratezza (voluta e imposta) delle imprese coloniali fasciste e con l'immaginario sessista e razzista (tuttora operante, si pensi a molti dei discorsi sulle "migranti") che vuole le donne (in specie "non bianche") come vittime passive e consenzienti (e magari anche "felici").
La conoscenza del passato, della storia, di "questa" storia, che come sottolinea Gabriella Ghermandi nel suo Regina di fiori e di perle, "è anche la nostra", la conoscenza di queste ed altre "resistenze", di un passato di lotte che come donne ci ha viste protagoniste o comunque coinvolte, (pur se non sempre dallo stesso lato della "barricata"), ci sembra essenziale per mettere a punto nuove pratiche di resistenza per opporci efficacemente al fascismo, al razzismo e al sessismo nelle loro attuali articolazioni.
In molt* mi hanno chiesto negli ultimi mesi il perchè del nome Laboratorio femminista Kebedech Seyoum, spero di aver risposto almeno in parte. In molt* hanno anche lamentato la difficoltà di reperire foto e materiali sulla partecipazione delle donne etiopi nella lotta contro l'impresa coloniale italiana. Un ricco dossier è disponibile on line nel sito della Ossrea, con sede ad Addis Abeba. Ci sono molte informazioni su Kebedech Seyoum e su altre resistenti, sia per quanto riguarda il periodo dell'impresa coloniale fascista degli anni 30, che per la fase precedente culminata nella sconfitta dell'esercito italiano ad Adua. Ricchissima la bibliografia in appendice. Grazie ancora a Gabriella Ghermandi per la preziosa segnalazione.
La foto che illustra questo post è stata scattata nell'isola dell'Asinara. La donna che vi /ci guarda è Yodbar Gebru, musicista di fama internazionale. Nata il 12 dicembre 1923 ad Addis Abeba in un'agiata famiglia, all'età di sei anni si reca in Svizzera con la sorella , dove studia violino e pianoforte. Nel 33 torna in Etiopia, ma nel 37 - appena quattordicenne - , viene fatta prigioniera e poi deportata con il resto della famiglia prima sull'isola dell'Asinara poi a Mercogliano, vicino Napoli. Il destino di molte è stato molto più terribile.
Qui invece trovate la foto di un gruppo di veterane, scattata ad Addis Abeba nel 1973, durante una cerimonia di commemorazione della vittoria contro l'invasore italiano.
venerdì 17 ottobre 2008
Miti e smemoratezze del passato coloniale italiano

Di seguito trovate il mio articolo Miti e smemoratezze del passato coloniale italiano, da poco pubblicato nel primo numero della rivista ControStorie, Razzismo_Genere_Classe. Nei prossimi giorni comincerò a postare man mano qui in Marginalia gli altri articoli del n°1 di questa nuova rivista: un grazie alla redazione che offre a me l'opportunità di metterli on line e a voi di leggerli. Dovrebbe essere superfluo ricordarlo, ma il continuo saccheggio di quanto scrivo e pubblico mi obbliga a farlo: credere nella condivisone di pratiche e saperi ed essere sostenitori del free-copy (come Marginalia) non significa che tutti e tutte sono autorizzat* a scopiazzare senza indicazione di nomi e fonte ... Comme ça c'est clair?
Miti e smemoratezze del passato coloniale italiano
Come sottolinea Nicola Labanca1, è negli elenchi stradali italiani che permane il ricordo – altrove rimosso – delle imprese coloniali dell'Italia unita: una piazza Adua, un corso Tripoli o una via Mogadiscio, sono frequenti nella toponomastica non immemore delle nostre città. Più difficile sembra, invece, trovare qualcuno/a capace di spiegarcene il senso. Ai più sfugge, ad esempio, il legame tra una “via Libia” - che a Bologna costeggia un quartiere familiarmente detto “della Cirenaica”2 – e i ripetuti tentativi di “conquista” di queste terre da parte dell'Italia liberale prima e di quella fascista poi.
Chi ricorda la spietata rappresaglia italiana all'indomani della sconfitta subita a Sciara Sciat (villaggio alle porte di Tripoli) ad opera dei ribelli libici nel 1911, la “caccia all'arabo” che si scatenò tra le vie della capitale con impiccagioni collettive nella centrale Piazza del Pane e deportazioni di massa verso l'Italia che durarono almeno fino al 1916? Qui (nelle prigioni delle Isole Tremiti, di Favignana, di Gaeta, di Ponza, di Ustica...) coloro che non erano morti nella traversata, morirono in gran numero per le condizioni inumane di prigionia, le malattie non curate, il lavoro forzato e i maltrattamenti. A tutt'oggi, scrive Angelo Del Boca, “ci sono famiglie in Libia che vorrebbero almeno sapere dove sono sepolti i loro cari”3.
E chi ricorda – ancora –, durante la “riconquista” della Libia negli anni 30, le rappresaglie, le distruzioni sistematiche, le deportazioni di massa di civili (che causarono 60 000 morti nella sola Cirenaica, anche bambini/e), l'impiccagione, tra gli altri, il 16 settembre 1931 – in spregio ad ogni convenzione internazionale – di Omar el Mukhtar, uno dei capi della resistenza locale?
I responsabili di questi ed altri crimini dell'impresa coloniale italiana non hanno mai pagato. E credo non si possa più tollerare che a pagare siano – ancor oggi – le vittime, con un prezzo che si chiama oblio, cancellazione, rimozione. Si chiama mito degli “italiani, brava gente”.
Un mito secondo il quale il colonialismo italiano è stato, a confronto di altri colonialismi coevi, buono, umano e tollerante. Un colonialismo, come scrive efficacemente Paola Tabet, “all'acqua di rose”4. Un mito talmente persistente che neanche i puntuali studi storiografici – a partire dall'opera pioniera di Del Boca alle importanti ricerche degli ultimi decenni di giovani storici e storiche5 – , sono riusciti realmente a scalfire. Più facile, o forse comodo, introiettare un mito che è insieme tranquillizzante e autoassolutorio piuttosto che farsi carico della consapevolezza di questo ingombrante passato che getterebbe, certo, una luce troppo inquietante sul presente6.
Questo mito è frutto di un lungo processo di rimozione, perseguito tra l'altro con tenacia già all'indomani della firma del trattato di pace di Parigi il 10 febbraio 1947 che privava per sempre l'Italia delle colonie, quando lo stato italiano anziché avviare un dibattito sul colonialismo, cercò di occultare e distorcere con ogni mezzo la realtà. Ne è un esempio la pubblicazione in cinquanta volumi, a cura del ministero degli Affari Esteri, dell'opera L'Italia in Africa. Spacciata come una sintesi e un bilancio delle presenza italiana nelle colonie, si rivela invece come una colossale mistificazione atta a esaltare i meriti della colonizzazione italiana.7
Indubbiamente rispetto ad altri colonialismi coevi, il colonialismo italiano presenta alcune “diversità”. Anzitutto l'Italia era stata unificata da appena un ventennio quando – fra il 1882 e il 1885 – fece le sue prime esperienze coloniali, che ebbero la loro fase culminante in anni in cui altre imprese coloniali dovevano già fare i conti con il processo di decolonizzazione. Fu anche un'esperienza circoscritta nel tempo, poco più di 60 anni : dal 1982 in Eritrea, dal 1889 in Somalia, dal 1911 in Libia e dal 1935 in Etiopia e tutte potevano dirsi concluse nel 1943, come anche il “protettorato”in Albania e le colonie nelle Isole Sporadi meridionali (dette impropriamente Isole Egee), storia coloniale tra le più dimenticate8. Inoltre, rispetto ai ben più vasti imperi di altre potenze – si pensi all'Inghilterra o alla Francia – le colonie italiane erano anche circoscritte geograficamente, e più “povere”, quindi economicamente meno vantaggiose. Infine, fin dalle origini, il colonialismo italiano si caratterizzò per un'assoluta ignoranza del territorio e delle popolazioni che vi abitavano considerate barbare, inette e militarmente incapaci, sottovalutando di conseguenza anche le loro capacità di resistenza. Queste le ragioni che portarono, ad esempio, alla celebre sconfitta di Adua, quando l'esercito guidato dall'imperatore Menelik II e dall'imperatrice Taitù Zeetiopia Berean – figura mitica di donna guerriera, che anticipa altre celebri resistenti come Kebedech Seyoum9 – infligge agli italiani quella che è unanimemente considerata la più grande sconfitta mai subita dai colonizzatori “bianchi” in Africa, intaccando per sempre “i reticolati del più vasto campo di concentramento della terra”10 Ma queste diversità non hanno determinato una minore “brutalità” dell'impresa coloniale italiana, come il mito degli italiani brava gente vorrebbe farci credere.
Semmai l'Italia, giunta in ritardo sullo scacchiere coloniale, poteva vantare su una lunga tradizione di “razzismo interno”, che trovò il suo culmine nella cosiddetta “guerra al brigantaggio”, che come ci ricorda Del Boca “ fu anche 'una guerra coloniale', che anticipò, per le inaudite violenze e il disprezzo per gli avversari, quelle combattute in seguito in Africa. Non fu forse il generale d'armata Enrico Cialdini, luogotenente di re Vittorio Emanuele II a Napoli, a dichiarare: 'Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele'?”11.
Latte e miele che non impedirono certo i massacri e le deportazioni, gli inferni delle carceri eritree – e tra queste la famigerata Nocra – , il lavoro forzato in Somalia – chiamato dai Somali “schiavismo bianco” –, i campi di concentramento in Libia, l'uso massiccio di gas come fosgene e iprite – già vietati dalla Convenzione di Ginevra – per piegare la resistenza etiopica, la strage, tra le altre, di Debrà Libanòs o la feroce rappresaglia che si scatenò per le vie di Addis Abeba in seguito all'attentato, il 19 febbraio 1937 al viceré d'Etiopia maresciallo Rodolfo Graziani12. Senza dimenticare la politica di segregazione razziale e di “difesa del prestigio della razza” imposta dal regime fascista in Africa a partire dal 36, con la proibizione assoluta di rapporti sessuali interrazziali nella cosiddetta colonia per maschi”13. Un aspetto questo essenziale per un'analisi delle articolazioni – anche odierne – del sessismo e del razzismo.
L'immagine della donna “indigena”, esotica, disponibile e voluttuosa era stato uno dei cliché massicciamente diffusi nei primi anni della conquista coloniale italiana – anche attraverso una serie di cartoline che ebbero larga diffusione -, funzionando come una sorta di “richiamo erotico” per i colonizzatori, secondo la sovrapposizione simbolica della conquista sessuale con quella coloniale già collaudata in altri contesti nazionali. Per i primi quarant'anni il cosiddetto madamato viene largamente tollerato mentre la presenza delle donne “bianche” in colonia è generalmente scoraggiata . Ma a partire dalla proclamazione dell'Impero le “unioni miste” (sia nella forma del madamato che del matrimonio) cominceranno ad essere osteggiate fino ad essere proibite del tutto con il decreto dell'aprile 1937 e mentre la prostituzione subisce un'impennata la presenza delle donne “bianche” in colonia – come mogli, anche potenziali dei “cittadini bianchi” - comincia ad essere incoraggiata fortemente. In questo modo si realizza da una parte “l'ufficializzazione della percezione delle donne native come prostitute”14 e dall'altra la celebrazione ulteriore della donna “bianca” come moglie e madre. Del resto queste ultime sono le uniche a poter accedere allo statuto di “donna”, le altre sono “femmine”, come scrive un ex colono italiano nelle sue memorie: “Femmine ce ne sono in colonia, nere esuberanti e generose; mancano le donne, le quali non possono essere che bianche”15
1Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell'espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002, p. 7
2La Cirenaica, insieme alla Tripolitania, è stata una delle regioni libiche che ha maggiormente subito l'invasione coloniale italiana.
3Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005, p. 115.
4Paola Tabet, La pelle giusta, Einaudi, Torino 1997, p. VII.
5Impossibile fornire nel contesto di questo breve articolo, una bibliografia esaustiva. Mi limiterò a segnalare alcuni testi di Angelo del Boca, tra i quali i quattro volumi de Gli italiani in Africa orientale editi da Laterza (Dall'unità alla marcia su Roma, 1976; La conquista dell'impero, 1979; La caduta dell'Impero, 1981; Nostalgia delle colonie, 1984) e L'Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte, Laterza, Bari 1992; i testi di Giorgio Rochat, Il colonialismo italiano, Loescher, Torino 1973 e “L'impiego dei gas nella guerra d'Etiopia. 1935-1936”, in Rivista di storia contemporanea, n. 1, 1988, p. 74-109; il volume di Nicola Labanca, In marcia verso Adua, Einaudi, Torino 1993. Per quanto riguarda la lettura delle vicende coloniali italiane in una prospettiva di genere, ricordo il saggio di Gabriella Campassi, “Il madamato in A.O: relazioni tra italiani e indigene come forma di aggressione coloniale”, in Miscellanea di storia delle esplorazioni, XII (1987) e i volumi di Giulia Barrera, Dangerous liaisons. Colonial Concubinage in Eritrea, 1890-1941, Evanstone (Illinois), Northwestern University 1996 e Barbara Sòrgoni, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interraziali nella colonia Eritrea (1890-1941), Liguori, Napoli 1998. Vorrei inoltre ricordare, a quasi tre anni dalla morte, Riccardo Bonavita con il suo saggio “Lo sguardo dall'alto. Le forme della razzizzazione nei romanzi coloniali e nella narrativa esotica”, in Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza, Grafis, Bologna 1994.
6Mi sembra di poter cogliere un sintomo di questa rimozione anche nel linguaggio cosiddetto “critico” o “militante”, dove la tendenza – oramai consolidata – all'uso di metafore o immagini che rinviano al passato per descrivere o contestare il presente, solo in rare eccezioni trova nell'impresa coloniale italiana un utile serbatoio dal quale attingere. I recenti “rastrellamenti” di migranti sui mezzi pubblici in diverse città italiane come anche l'odioso atto di razzismo di un capotreno contro una passeggera migrante, hanno evocato il segregazionismo nell'America razzista del secolo scorso o l'aphartheid sudafricano, ma non la politica di segregazione razziale imposta dall'Italia fascista a partire dal 36 nelle sue colonie africane.
7Cfr. Angelo Del Boca, “Gli studi storici e il colonialismo italiano”, prefazione a Enrico Castelli ( a cura di), Immagini&colonie, Centro documentazione del museo etnografico Tamburo Parlante, Montone 1998, pp. 7-8.
8Nicholas Doumanis (1997), Una faccia, una razza. Le colonie italiane nell'Egeo, Bologna, Il Mulino, 2003
9A Kebedech Seyoum, splendida combattente durante l'occupazione fascista dell'Etiopia, Gabriella Ghermandi dedica una delle sue “storie” nel bellissimo Regina di fiori e di perle, Donzelli, Roma 2007.
10Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. Dall'unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 701.
11Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, op. cit., p. 57.
12Tre giorni di vera e propria “caccia all'uomo”(uomini, donne, bambini/e) che provocò, a seconda delle fonti, da un minimo di 1400 a un massimo di 30 mila morti.
13Giulietta Stefani, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, Ombre Corte, Verona 2007.
14 Barbara Sòrgoni, Parole e corpi, op. cit., p. 244.
15 Ibidem.
sabato 5 luglio 2008
La nostra lotta non ha confini

Un percorso cronologico in Marginalia:
Kebedech Seloyoum
Sommovimento antirazzista e antisessista
Razzismo: un nodo da districare
Chi ha paura del separatismo?
La différence sexuelle et les autres
Donne di mondo
Per la libertà e i diritti delle/dei migranti
Basta aspettare!
Scuole matrigne
"Ora la parola ai migranti. Basta giocare con le nostre vite!"
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giovedì 3 luglio 2008
Kebedech Seyoum
da Gabriella Ghermandi, Regina di fiori e di perle, Donzelli 2007
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Perché la lotta delle donne contro il fascismo, il sessismo e il razzismo non ha confini.