Con crescente sconcerto Marginalia ha registrato, negli ultimi mesi, le manifestazioni di violento razzismo e sessismo di cui è stata fatta oggetto Cécile Kyenge da parte di diversi esponenti della Lega Nord e di altri partiti e gruppuscoli di destra ed estrema destra, così come le reazioni della stampa mainstream e di personalità politiche e non che questi episodi hanno suscitato. A mio avviso queste reazioni "indignate" come pure le espressioni bipartisan di solidarietà alla ministra hanno rischiato continuamente di consolidare e confermare l'idea che il nostro non è un paese strutturalmente razzista e sessista. Episodi quali l'invito allo stupro, l'uso di epiteti come orango e bonga-bonga o ancora il lancio di banane sono stati infatti spesso letti come l'espressione dell'imbecillità di una minoranza ignorante, come gesti nati dal nulla, senza significato e conseguenze, senza storia, senza nessun legame con leggi quali la Bossi-Fini, con i centri di identificazione ed espulsione, con lo sfruttamento del lavoro e gli accordi per il controllo delle frontiere fuori e dentro l'Europa ... La valanga di messaggi di solidarietà e prese di distanza indignate da chi si è reso colpevole di gesti definiti più che razzisti gesti "incivili", tende in questa maniera anche a riconfermare in un certo qual senso il mito degli/delle italiani/e brava gente, di un popolo compattamente antirazzista e antisessista. Ma intanto ieri sera, in prima serata su Rai1, mi è capitato di vedere per caso l'ultima mezz'ora di una serie televisiva (scopro poi dal titolo Una grande famiglia) che ruota intorno alle vicende di una ricchissima famiglia lombarda, con azienda, villa e servitù. La servitù è composta precisamente da cameriera e autista con la "pelle nera" ... Scrivevamo tempo fa che Cécile Kyenge raccoglie così tanti insulti anche perché si trova in un posto dove «quelle come lei» non dovrebbero stare. Ora la mancanza di reazioni (indignate?) all'immaginario neocoloniale trasmesso dalla televisione italiana con la "servitù nera" di Una grande famiglia sembra confermarlo: gli insulti a Cécile Kyenge da una parte e la rigida linea del colore (e di classe) che si esprime in questa serie televisiva dall'altra, ci dicono qual è il posto «giusto» per ognuno/a nel nostro paese e quanto un certo immaginario (e sistema razzista/sessista) sia consolidato, operante e soprattutto condiviso .
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lunedì 5 agosto 2013
giovedì 9 maggio 2013
L'integrazione è un campo di battaglia
Ancora a proposito della nomina di Cécile Kyenge, riprendiamo da Connessioni Precarie un articolo che ci sembra non solo approfondire ed esplicitare alcune delle questioni dibattute in Chi ha paura della donna nera? ma anche proporre alcuni spunti per una lettura critica del concetto di integrazione, tema che riteniamo cruciale fin dai tempi de La straniera, con il saggio di Sara Farris La retorica dell'integrazione (e rinviamo anche a Integrazione. Passione, tecnica, dovere, la "voce" curata da da Silvia Cristofori in Femministe a parole . Buona lettura e riflessioni // La nomina della ministra Cécile Kyenge ha suscitato alcune reazioni prevedibili, altre meno. Alla volgarità leghista siamo ormai abituati, così come agli insulti razzisti che hanno come bersaglio non solo i migranti tutti, ma direttamente e indubbiamente i «negri». Usiamo questa parola fuori da ogni politically correct che ha coperto d’ipocrisia l’istituzionalizzazione di un razzismo di lungo corso che attraversa l’Italia e fa parte della sua gloriosa storia. L’Italia unita ha avuto le sue colonie e la sua teoria della razza, fatta propria dal regime fascista e mai veramente discussa e cancellata. «Non ci sono italiani negri», è stato detto dopo il primo gol di Balotelli, oggi chiamato in causa come testimonial. Ma mentre un gol fa godere tutti, lo stesso non si può dire quando arriva una ministra «negra». Tolto il dispregiativo, è stata lei stessa a togliere di mezzo anche le formule vaghe definendosi «nera» e non «di colore». Oltre al nero c’è però di più: c’è il fatto che Cécile Kyenge, con la sua stessa presenza, spezza il velo del silenzio calato sulla condizione di ormai oltre cinque milioni di persone che vivono e lavorano in Italia, delle centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi delle nuove generazioni in movimento, di bambini e bambine marchiati a fuoco dallo stigma dell’alterità e per i quali già si pensano esami di una presunta italianità. Sarebbe perciò sbagliato e ingenuo pensare che solo di integrazione e convivenza si debba parlare. Lo ripetiamo oggi a Cécile Kyenge, mentre le esprimiamo solidarietà e appoggio. Lo diciamo sicuri di interpretare anche il sentimento di tanti e tante migranti con cui ha saputo lottare negli anni scorsi, anche uscendo dagli angusti spazi della retorica del suo stesso partito. Un partito che mentre parla a mezza voce di una società meticcia, proprio dove lei vive, ha costruito e mantenuto due dei tredici centri di reclusione per i migranti. I famigerati Centri di identificazione ed espulsione, un tempo Centri di permanenza temporanea, sono stati infatti istituiti dal suo partito, oggi PD, con una legge che porta il nome di una persona che ha speso la vita per l’integrazione, Livia Turco, e dell’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Siamo sicuri che, nella disattenzione generale, tra le cose di cui il suo nome è garanzia in Europa vi sia anche il mantenimento di quell’apartheid democratico che vede nei CIE delle strutture simbolicamente necessarie. La «scimmia congolese», come è stata amabilmente etichettata la ministra, dovrebbe secondo alcuni andare a «lavare i cessi» in quanto «negra». Seppur ancora troppo timide, le reazioni di condanna non mancano, compresa quella della presidente della Camera Boldrini, prima che altre urgenze prendessero il sopravvento. Quelli che si scandalizzano, però, sanno che per una donna nera qualsiasi «lavare i cessi» è una possibilità molto più concreta di quanto questi insulti possano far pensare? Siamo sicuri che il ministro Giovannini, che conosce le statistiche del mercato del lavoro italiano, potrà confermare che in questi anni l’integrazione ha voluto proprio questo: riservare ai migranti e alle migranti i lavori peggiori, peggio pagati, più pesanti, secondo una rigida divisione del colore. In questa rigida divisione, le donne nere devono soprattutto lavare i cessi, magari degli ospedali, oppure prostituirsi mettendo d’accordo i maschi neri e quelli bianchi, il cui piacere continua a nutrirsi degli stereotipi coloniali alimentati dal mito della patria. Il lavoro domestico e di cura è invece sempre più riservato, in condizioni non sempre migliori, ad asiatiche o migranti dalla pelle bianca che provengono dall’Est Europa se si tratta di badare gli anziani. L’integrazione, ben oltre le feste in costume, la ‘cultura’ che tanto interessa certi giornalisti embedded di sinistra e le vuote parole sulle pari opportunità, è l’integrazione nella precarietà e nello sfruttamento garantiti dall’apartheid democratico e dall’arroganza della discrezionalità amministrativa. Ci sono poi altri silenzi e altri commenti che lasciano esterrefatti. Lo abbiamo già detto segnalando la novità di questo ministra, ma con il passare delle ore sono sempre più chiari la miopia e l’infantilismo politico di chi, dopo magari averne fatto per anni una bandiera, oggi banalizza questo attraversamento della linea del colore. Non stiamo celebrando una vittoria e neppure un’acritica apertura di credito a una neominstra, e questo tocca pure dirlo per non essere volutamente fraintesi dai più duri e puri. Mentre segnaliamo la novità, ci colpisce invece la non novità di certi commenti imbarazzati, infastiditi, quasi irritati. Ci ricordano gli stessi toni di chi nel 2010 ha storto il naso di fronte allo sciopero del lavoro migrante contro la Bossi-Fini. Nel 2010 lo sciopero è stato fatto lottando duramente contro chi non lo voleva: i grandi e piccoli sindacati e molti gruppi di movimento impauriti di perdere la centralità delle forme di militanza più rassicuranti. Una lotta che è stata più difficile con loro che con lei, che come noto era presente. I commenti imbarazzati di questi giorni ricordano anche chi il 23 marzo scorso si è ben guardato dal sostenere pubblicamente la manifestazione di Bologna, nella quale oltre tremila migranti chiedevano a ogni futuro governo di cancellare la legge Bossi-Fini e denunciavano il razzismo, la segregazione lavorativa, lo sfruttamento cui sono sottoposti. Se ne sono accorti migranti di mezza Italia, non altri. Il fatto che la neoministra fosse presente in queste occasioni non significa certo che sono assicurati risultati eclatanti, ma non è del tutto indifferente per spiegare le reazioni scomposte che si stanno sentendo. Il contenuto politico che apre questa nomina pare sia ben chiaro soprattutto ai gruppi più razzisti di questo paese. Basta leggere i commenti per accorgersi che dietro al «ministro bonga bonga» c’è infatti la difesa strenua di quel razzismo istituzionale che si fonda sulle leggi tanto italiane quanto dell’Unione Europea, non su qualche gruppo nazistoide. Si tratta di un razzismo istituzionale ormai da tempo uscito dalle priorità del cosiddetto movimento, vale la pena ripeterlo in questa occasione. Capiamo perciò che dia molto fastidio essere superati da sinistra, anche solo sul piano dell’involontaria segnalazione del problema, dal governo che si è appena formato. Difficilmente Cécile Kyenge potrà cambiare qualcosa da un ministero che non ha competenze in materia e senza portafoglio. Non sappiamo nemmeno se vorrà davvero farlo. Eppure non ci sembra questo il punto di fronte alla novità che rappresenta. Guardiamo piuttosto dentro le case dei milioni di migranti che vivono, lavorano e crescono in questo paese, ai loro sorrisi nel vedere una ‘come loro’ giurare in un governo. Loro sanno che questo non vorrà dire la fine delle sofferenze e dello sfruttamento, l’uguaglianza di opportunità, la cancellazione del razzismo istituzionalizzato. Loro sanno che questo andrà conquistato con il tempo e con la lotta. Sanno però con certezza che è una lotta da fare. Sarebbe il caso che anziché ignorare questa lotta quotidiana riducendola alle sterili tattiche di movimento, lo capissero anche tutti quelli che si professano antirazzisti e antirazziste. Sarebbe bene anche che le tante persone di buona volontà che credono che la parola integrazione sia il bene, capissero che l’integrazione è un campo di battaglia che, mentre ricopre di belle parole, miete ogni giorno le sue vittime imponendo un prezzo da pagare. Le prime reazioni alla proposta di una modifica della legge sulla cittadinanza nella direzione dello ius soli parlano da sole. Le esternazioni del presidente del Senato ed ex-magistrato Pietro Grasso, che già paventa, in perfetta linea con leghisti e fascisti, l’invasione di donne migranti pronte a scaricare il loro imbarazzante fardello in suolo italico, sono emblematiche e significative. Il concetto di «ius soli temperato dallo ius culturae», formulazione ripresa dall’ex ministro per la cooperazione e per l’integrazione Riccardi, la dice lunga sul grado di violenza di questa battaglia, e ribadisce che l’unica integrazione ammessa senza condizioni è quella nello sfruttamento. Di fronte al silenzio quasi tombale che aleggia su queste questioni decisive del nostro tempo, intervallato dalla sterile esaltazione della diversità, da piccoli momenti d’irritazione e dalle offese razziste, la nomina di Cécile Kyenge segnala anche ai distratti che qualcosa nel mondo e in Italia è cambiato. E, probabilmente inseguendo lo scopo contrario, ricorda una dura lotta da fare
domenica 5 maggio 2013
Cècile Kyenge / Chi ha paura della donna nera?
Chi ha paura della donna nera ? -, un articolo discusso e scritto con le compagne di Migranda a proposito di Cécile Kyenge, la nuova ministra dell'integrazione e le reazioni che ne hanno accompagnato la nomina. Ogni commento è il benvenuto, buona lettura // "Se i piccini sono stati abituati ad avere paura dell’uomo nero, oggi i grandi hanno paura di una donna nera, Cécile Kyenge, appena nominata ministra dell’integrazione. Cécile Kyenge non fa paura perché è una donna. I governi hanno sempre saputo come tenere al loro posto le donne ambiziose, e alcune al loro posto ci sono anche rimaste con piacere. Del resto, nessuno di quelli che hanno accolto l’incarico di Kyenge con insulti razzisti e maschilisti ha avuto nulla da ridire sulla nomina al Ministero della salute di Beatrice Lorenzin, che d’altra parte ha avviato la sua attività istituzionale annunciando una campagna «a favore della vita» di cui certo le donne non potevano fare a meno. Cécile Kyenge, dunque, non fa paura perché è una donna. Cécile Kyenge, però, non fa paura neppure solo per il fatto di essere nera. È vero che, per il più profondo ventre razzista italiano, ogni messa in discussione delle cosiddetta linea del colore è un’eresia da combattere. Negli ultimi anni, però, anche nelle fila di quella Lega Nord che oggi insulta la nuova ministra sono state elette donne nere come Sandy Cane, convinta sostenitrice di maggiori controlli per evitare l’ingresso di «clandestini». Cécile Kyenge, quindi, non fa paura nemmeno perché è nera. A fare paura sembrerebbe piuttosto il fatto che si tratta di una «donna-nera», come lei stessa si è orgogliosamente definita, senza possibilità di tenere questi due termini separati o distinti, e senza poterli separare neanche dal fatto che questa donna-nera sta almeno in parte mettendo in discussione la legge Bossi-Fini. Il razzismo becero del governatore del Veneto, che pochi giorni fa ha intimato alla «ministra nera» di andare a visitare la donna austriaca stuprata da due «extra-comunitari», sembra cogliere questo punto con incredibile precisione. In nome di quella presunta «cultura veneta per cui il rispetto dell’identità della donna è un pilastro fondamentale», Zaia ha cercato di togliere a Cécile Kyenge il fatto di essere donna, identificando la violenza sessuale con la «razza» e dimenticando volutamente, come peraltro Cécile Kyenge gli ha ricordato, che la violenza sulle donne non ha razza né classe, ma solo un sesso. A dimostrazione della difficoltà di guardare alla «ministra nera» come donna e come nera, Zaia ha cancellato il primo aspetto e ha usato l’equazione razza-violenza per identificarla con i neri come lei, facendone su questa base una sorta di rappresentante istituzionale di migranti che, secondo quelli come lui, per natura stuprano, rubano, ammazzano. Come sempre accade, la violenza sulle donne viene trattata dai nostri solerti ministri per fini che con le donne nulla hanno a che fare, e come sempre accade si trascura il fatto che essa in Italia continua a essere perpetrata per la maggior parte per mano di padri, fratelli, mariti, amici di famiglia e compagni. Ma la famiglia non si tocca! Quella si che è un vero pilastro della cultura veneta, e persino italiana.
Con lo scopo di denigrarla, Cécile Kyenge è così chiamata a dare conto dei crimini di «quelli come lei», diventando la rappresentante di quanti alla rappresentanza non hanno alcun diritto. Si sa che sono qui, qui lavorano, qui versano contributi che non rivedranno mai, qui vivono sotto il ricatto di un permesso di soggiorno che pagano profumatamente finché lavorano, per essere poi detenuti nei Cie ed espulsi, senza contributi, quando il lavoro lo perdono. E di questi migranti molti sono donne, che stanno al servizio dei «nostri» anziani finché sono anziane anche loro, ma non hanno neppure la cittadinanza da offrire per i loro figli. Ad alcune è concesso di non lavorare, ma solo al prezzo di restare in Italia come «ricongiunte», le mogli dei mariti, senza permesso di soggiorno autonomo. Loro forse non sono donne come le venete, o come le austriache. O forse, come accade per le venete e le mitteleuropee per cui Borghezio ha un’«innegabile preferenza», anche loro possono essere calpestate in nome della famiglia, di quel ricongiungimento familiare che consente loro di restare a prezzo di una parte della loro autonomia. Il fatto è che, come donna-nera, Cécile Kyenge non è tanto la rappresentante di qualcuno, ma è colei che mostra che «quelle come lei» sono del tutto fuori posto nel luogo in cui lei si trova, proprio perché non possono essere rappresentate. Le donne «come lei» dovrebbero stare ben chiuse e nascoste nelle case dei cittadini e delle cittadine di questo paese, dovrebbero accettare di avere un destino segnato – se non come casalinghe, come pretenderebbe il degno compagno di Zaia, Borghezio – almeno come badanti, operatrici delle pulizie, prostitute, mogli, operaie. Se Cécile Kyenge raccoglie così tanti insulti è perché si trova in un posto dove «quelle come lei» non dovrebbero stare. Eppure, Cécile Kyenge si trova in quel posto, e non ci sta come una bambolina che, passivamente, con la sua sola presenza e il suo corpo nero dovrebbe risolvere il problema di un partito alla ricerca di una legittimità antirazzista perduta. Ci sta con la sua pretesa – fin troppo cauta – di inceppare l’ingranaggio del razzismo istituzionale di cui sta facendo esperienza sulla propria pelle, e che per tutti quelli «come lei» prende il nome di legge Bossi-Fini. Noi non sappiamo cosa Cécile Kyenge riuscirà a ottenere nel suo ruolo, anche se siamo certe che non avrà vita facile. Crediamo che la sua presenza fuori luogo, come dimostra la paura che suscita, segnali un cambiamento di non poco conto. Sappiamo anche, però, che non tutte «quelle come lei» hanno la stessa possibilità di essere fuori posto come lei. Che in questo paese la battaglia delle donne-nere, delle donne-migranti, per uscire dalle case, sottrarsi agli obblighi riproduttivi, al comando del salario o alla dipendenza dai loro mariti è ancora tutta da giocare e in tutti i casi, che non sono pochi, parte da loro con coraggio e determinazione. E sappiamo che questa battaglia difficilmente si giocherà tra i volti bianchi di un ministero, ma piuttosto nelle case, nelle piazze dove da tempo i migranti e le migranti stanno lottando contro la legge Bossi-Fini, in tutti quei luoghi dove essere donne, donne-nere e donne-migranti fa, può fare, deve fare la differenza"
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martedì 19 marzo 2013
Contro la Bossi-Fini: questo è il momento!
Contro la Bossi-Fin: questo è il momento! è lo slogan che riassume lo spirito della manifestazione dei/delle migranti che - decisa nella scorsa assemblea dei/delle migranti del 17 febbraio - si svolgerà sabato prossimo - 23 marzo 2013 - a Bologna. Rinviamo al sito del Coordinamento migranti e a Migranda per materiali, volantini, spot e ultime adesioni
venerdì 1 marzo 2013
Un affare di donne: crisi e divisione sessuale del lavoro
Di/da Migranda un contributo su crisi e divisione sessuale del lavoro che vi invitiamo a leggere, commentare e far girare anche in vista della manifestazione delle/dei migranti del 23 marzo. Noi ci saremo. Buona lettura! // Secondo recenti studi statistici, dopo una relativa tenuta dei livelli occupazionali rispetto ad altri settori, a partire dal 2009 anche quello del lavoro domestico – almeno se si guarda al lavoro regolare – ha conosciuto un calo significativo, che tuttavia non corrisponde a una riduzione della domanda di assistenza familiare. Si tratta di un cambiamento che si compie all’interno del quadro sostanzialmente immutato della divisione sessuale del lavoro: le cosiddette «badanti» continuano a essere donne. Queste costituiscono l’80% dei migranti che svolgono lavori domestici e di cura, ma la percentuale è probabilmente maggiore se si considera che molto uomini hanno potuto regolarizzare la propria posizione solo attraverso le «sanatorie» e i flussi destinati a «colf e badanti». Non è un caso che, se si prendono in considerazione anche i migranti comunitari, che in quanto tali non sono stati coinvolti nelle recenti «sanatorie», la quota delle donne impiegate nel lavoro domestico arriva al 96%. I numeri cambiano poco se si guarda alle italiane, che costituiscono il 94,1% dell’insieme di coloro che svolgono lavori domestici e di cura. Le cifre parlano delle trasformazioni innescate dalla crisi economica, il cui portato non è possibile valutare con chiarezza. Si può considerare la riduzione complessiva dell’occupazione regolare nell’ambito del lavoro di cura in relazione ai più recenti movimenti dei migranti finora residenti in Italia: nel 2011 ci sono state 32.000 cancellazioni dall’anagrafe, il 15,9% rispetto al 2010, e molte meno iscrizioni. Le lavoratrici domestiche migranti sono diminuite del 5,2% nel 2011. Non sembra possibile, però, interpretare le statistiche nel senso di un «ritorno di massa» delle donne migranti nei paesi di provenienza: da considerare è innanzitutto l’incidenza del lavoro nero in questo specifico settore. La rilevanza del lavoro nero emerge se si considera che la rilevazione Istat registra, per quanto riguarda la provincia di Bologna, un incremento delle lavoratrici domestiche simile al decremento evidenziato dalla banca-dati Inps, indicando così un divario tra quanto si dichiara e mondo reale, cioè appunto un aumento del lavoro nero. Per quanto riguarda le migranti, ciò non dipende solo dalla mancanza di documenti ma anche dal fatto che spesso scelgono di ricevere il salario per intero, senza versare contributi che non rivedranno mai, o perché i padroni quei contributi non intendono versarli. Se si considerano poi le migranti comunitarie, come le donne rumene, il gruppo più cospicuo sia di badanti sia di donne che stanno abbandonando il Paese anche perché sono più libere di spostarsi all’interno dell’Europa, il fatto che non siano sottoposte al ricatto quotidiano del permesso di soggiorno rende più facile rinunciare a un contratto di lavoro in regola per un salario globale complessivamente più alto, cosa che vale ovviamente anche per le donne italiane. Questo insieme di trasformazioni deve essere considerato in relazione all’aumento della domanda di prestazioni di cura nel quadro dello smantellamento dei servizi sociali. Da un lato, il welfare pubblico non è più in grado di fornire risposte efficaci al bisogno di assistenza che riguarda sempre più famiglie, anche alla luce dell’invecchiamento della popolazione, delle trasformazioni degli assetti familiari e del rifiuto da parte delle donne del loro «destino domestico». Dall’altro, quel bisogno trova una sua risposta «privata», monetizzata. Le donne sono chiamate in causa non solo all’interno dei propri nuclei familiari, ma ancora sono costrette a pagare un’altra donna per gestire la propria famiglia e mantenere il proprio lavoro, generando l’ormai nota «catena salariale della cura». Il rapporto tra l’aumento della domanda e la diminuzione delle lavoratrici domestiche migranti è spiegabile considerando un’altra trasformazione, cioè l’aumento della presenza di lavoratrici italiane in questo settore, testimoniato anche dalla loro crescente partecipazione ai corsi di formazione organizzati da Acli Colf o da Federcasalinghe. Per dare ancora un po’ di numeri, a Torino le badanti italiane assunte attraverso l’agenzia Obiettivo Lavoro sono passate dalle 948 del 2008 alle 1757 del 2010, con un incremento dell’85%. Se il lavoro salariato domestico per le donne italiane è stato a lungo una scelta residuale rispetto ad altre possibilità di impiego, la crisi sembra destinata a cambiare la situazione in modo durevole, trasformando il lavoro salariato domestico in una scelta obbligata – e dettata da una sempre chiara e definita divisione sessuale del lavoro – per coloro che, non più giovani, si sono trovate al di fuori del mercato del lavoro. È infatti significativo che i dati relativi all’aumento dell’occupazione femminile (+1,2% nel 2011, +1,3% nel 2012) riguardino prevalentemente donne single e giovani, mentre per quelle che vivono una relazione di coppia e hanno figli il tasso di occupazione precipita notevolmente (e in modo proporzionale al numero dei figli). Sembra cioè che abbia avuto luogo un processo di «sostituzione» tra le donne migranti e quelle italiane nell’ambito del lavoro salariato domestico dove infatti, al contrario degli altri settori, l’età delle lavoratrici impiegate è andata costantemente aumentando negli ultimi dieci anni. In questo contesto, le donne migranti hanno un salario inferiore, in particolare se si considera il numero di ore lavorate: il fatto di vivere spesso sul luogo di lavoro comporta una disponibilità pressoché totale. Nello stesso tempo, se alla maggiore disoccupazione delle madri e delle donne ‘accoppiate’ si aggiunge una riduzione complessiva delle spese familiari – il che significa anche riduzione delle ore di lavoro pagate per «colf e badanti» – il quadro è quello di un probabile «ritorno a casa», come «casalinghe», di quelle donne che hanno perso il lavoro per la crisi e che non riescono a trovarne un altro per ragioni di età e per la scarsa flessibilità che possono offrire in quanto madri. Almeno in Italia, la crisi sta ridefinendo l’organizzazione e la gerarchia sociale del lavoro riproduttivo, e sembra invertire in parte quel processo globale di «sostituzione» che, in maniera massiccia e con il sostegno della legge Bossi-Fini, aveva visto le lavoratrici migranti svolgere, in cambio di un salario, una parte del lavoro riproduttivo delle donne «native». Mentre la salarizzazione del lavoro riproduttivo e di cura sembra non essere più solo un «affare delle migranti», la divisione sessuale del lavoro – che qualcuna aveva persino data per morta e la cui rilevanza politica scompare di fronte all’invocazione di una generica uguaglianza nello sfruttamento – rischia di ripresentarsi in forme «tradizionali», e continua a essere un «affare di donne»
venerdì 15 febbraio 2013
Assemblea generale delle migranti e dei migranti
Oggi ancora, anche se nessuno lo dice, la legge Bossi-Fini lega la nostra permanenza regolare al permesso di soggiorno, al contratto di lavoro e al reddito. Da ormai dieci anni questa legge ci ha costretto ad accettare qualsiasi tipo di salario e mansione pur di mantenere i documenti in regola. Il legame tra soggiorno e lavoro, con la richiesta di un livello minimo di reddito per rinnovare il permesso, ha di fatto espulso dal mercato del lavoro e trasformato in irregolari migliaia di migranti: alcuni hanno lasciato il paese perdendo gli anni di contributi versati regolarmente, altri hanno deciso di rimanere pur dovendosi separare dalle loro famiglie che sono tornate nei luoghi di provenienza. Molti lavorano per salari ancora più bassi. Anche se paghiamo le stesse imposte dei lavoratori italiani, sono state messe nuove tasse e richiesti versamenti alle poste per rinnovare un permesso che spesso scade dopo solo pochi mesi. Quello che noi migranti viviamo dentro e fuori i luoghi di lavoro non nasce dal niente. Noi migranti non siamo più disposti ad accettare questa situazione: abbiamo lottato e continuiamo a lottare! Abbiamo manifestato davanti alle Prefetture e Questure per la nostra libertà e i nostri diritti. Abbiamo organizzato lo sciopero del lavoro migrante del primo marzo 2010 e 2011, insieme a tanti lavoratori italiani, precari e operai. Oggi, in tutta l’Emilia-Romagna, con gli scioperi e i blocchi nella logistica e nella distribuzione, stiamo lottando per migliorare le condizioni salariali e di lavoro, per tutti. In un settore dove prima sembrava impossibile alzare la voce, abbiamo detto basta al sistema al ribasso delle cooperative e alla precarietà. Con queste lotte abbiamo accumulato forza e ora vogliamo conquistare la libertà dal quotidiano razzismo istituzionale. Questo è il momento: nessun nuovo governo risolverà i nostri problemi, soltanto con la nostra forza potremo liberarci dal ricatto imposto dalla legge Bossi-Fini e dal permesso di soggiorno! Conosciamo la nostra forza, dobbiamo organizzarci! Dopo incontri e discussioni con migranti e associazioni non solo del bolognese, vogliamo costruire insieme una mobilitazione regionale e invitiamo tutti a partecipare all'assemblea generale dei migranti domenica 17 febbraio alle 0re 15 (XM24 - via Fioravanti, 24 - Bologna). Per info, contatti e per scaricare i volantini in arabo, inglese, italiano e urdu Coordinamento migranti Bologna e Provincia
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