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venerdì 3 aprile 2015

La cataratta del cardinale

"La cataratta dell'ideologia del gender che impedisce di vedere lo splendore della differenza sessuale" (il cardinal Caffarra rivolto "ai giovani" nell'omelia della Veglia delle Palme di qualche giorno fa nella cattedrale di San Petronio a Bologna)

mercoledì 29 maggio 2013

Assassino è chi uccide. Ovunque

Ricevo dal Centro di Women’s Studies Milly Villa dell'Università della Calabria - e condivido - una riflessione sulla costruzione e (ri)produzione di un certo tipo di discorso pubblico sull'omicidio, avvenuto qualche giorno fa in provincia di Cosenza, di una ragazzina di quindici anni. Ecco il testo: "L’omicidio di Fabiana Luzzi ci interroga e ci fa riflettere. Crediamo che in questi casi sia necessario rispettare il dolore di una famiglia e di una comunità. Come Centro di Women’s Studies Milly Villa non possiamo tuttavia tacere rispetto alla costruzione e alla (ri) produzione del discorso pubblico a cui stiamo assistendo in queste ore. Non possiamo dare spazio alla costruzione del discorso mediatico che possa anche solo minimamente legittimare una posizione o rafforzare stereotipi e pregiudizi. C’è sempre un pericolo nascosto quando si esprime un giudizio o un’opinione che diventa pubblica: il pericolo del non approfondimento, della rinuncia a conoscere. Il pericolo è quello dell’inerzia o della frettolosità che fa irrigidire la definizione della realtà, investita emozionalmente da chi la esprime, in puro pregiudizio. L’omicidio di una donna è tale ovunque accada: non è il luogo a stabilire naturali predisposizioni. Non è biologia, né cultura naturalizzata. E’ violenza, e la violenza non conosce appartenenze territoriali o regionali. Assassini lo si diventa quando si uccide.E’ per questo che come Centro sottolineiamo il pericolo nascosto all’interno di ogni stereotipo che diventa pregiudizio: il pericolo di un razzismo che nasconde la realtà e che non permette di leggerla nelle sue tante dimensioni. Riteniamo indispensabile ripensare alle categorie attraverso le quali leggiamo la violenza di genere, attraverso cui proviamo a comprendere i cambiamenti nelle relazioni, nelle dinamiche di potere, di riconoscimento, di costruzione di una idea di relazione affettiva come possesso e dominio. Essere situate in una terra come la Calabria significa anche decostruire un immaginario legato alle donne del sud, agli uomini del sud, alle dinamiche tra i generi. A Sud, ma non solo. Significa decostruire concetti come quelli di emancipazione, per approfondire le diverse forse di dominio da cui liberarsi, ed uscire dalla logica che ci rende libere o oppresse nelle rispettive scelte di partire o restare. Significa decostruire quella visione ricorrente (a cui sembra che due ‘importanti’ giornali nazionali siano ormai affezionati) che tende a svalutare e razzizzare i sud - e la Calabria in particolare - confinandoli in una costruzione discorsiva che li vuole immobili, depauperati, senza storia, stretti dalla morsa del patriarcato. Significa, per lo stesso motivo, anche sfuggire ai discorsi che si arroccano intorno a una ‘presunta’ identità ferita, a una ‘calabresità’ offesa e da difendere: anche in questo caso il rischio è quello di ‘naturalizzare’ la Calabria,annullare le criticità, i chiaroscuri, la forza di un paradigma eterosessista declinato al maschile. Come Centro di Women’s Studies dell’Università della Calabria speriamo che da questa orrenda vicenda si possa avviare una riflessione seria a partire dal linguaggio utilizzato dai media: parlare non di amore, di gelosia, di passione, ma di violenza, rabbia, calcolo e orrore. Speriamo che da qui si possa rimettere al centro la vita delle donne, la dignità delle persone, a partire dall’individuazione di nuove prospettive di analisi, dalla proposta di percorsi formativi ed educativi, dal sostegno ai centri antiviolenza, rafforzando ciò che esiste e resiste, spesso a fatica. Rinnoviamo la nostra vicinanza alla famiglia di Fabiana, e a tutte le vittime di femminicidio"

lunedì 27 maggio 2013

Cesare Lombroso e la specificità calabrese

Una ragazzina di quindici anni, Fabiana Luzzi, viene uccisa in maniera atroce dal suo "fidanzato", poco più grande di lei, in un paesino in provincia di Cosenza. La lettera di una "trentenne calabra, direttore delle relazioni esterne di una multinazionale" inviata e poi pubblicata da Il Corriere della Sera con il titolo Sono nata nella terra dove è stata uccisa Fabiana, io sono fuggita lei non c'è riuscita, ha scatenato una serie di reazioni tra chi, come si legge su Scirocco News, non riesce a scorgere l'attinenza tra l'omicidio di una ragazzina e il fatto che fosse nata in una certe regione e si oppone all'immagine di una Calabria terra barbara e retrograda, dove gli uomini sono tutti dei padre padrone con la clava e le donne tutte vittime e sottomesse. Un omicidio riconducibile insomma ad una sorta di "specificità calabrese", così come per l'omicidio di Sarah Scazzi si era parlato di cultura meridionale. Doriana Righini nel suo La rivincita di Lombroso, scrive che, come affermava Rosa Luxemburg, il primo gesto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro vero nome e che quindi, riprendendo le parole di Renate Siebert, non si può che definire razzista quanto espresso nella lettera pubblicata dal Corriere della Sera, poiché " una storia come questa potrebbe essere accaduta in qualsiasi altro posto d’Italia. Trovo assolutamente razzista e aberrante che si possa parlare, in questa vicenda, di specificità calabrese [...] Per come conosco la Calabria devo dedurre che chi sostiene queste tesi è sostanzialmente razzista ”. // Alcuni articoli correlati in Marginalia: Il ritorno del meridionale mafioso e omertoso, Il colore delle donne meridionali, I meridionali sono meno intelligenti. E le meridionali ancora meno

sabato 23 febbraio 2013

Elezioni, donne, bambole e sante

Una noiosa influenza mi costringe in casa, il mal di testa mi impedisce di dedicarmi a letture più impegnative, quindi mi ritrovo a fare zapping davanti alla tv e al pc, aggiornandomi - in extremis - sul tema per me poco entusiasmate delle elezioni "al femminile". Passo in un crescendo di sgomento dalla lettura del manifesto Sono una donna non sono una bambola pubblicato a pagamento sul Corriere della Sera da un lungo elenco di "donne comuni" (parrucchiere e avvocate, pensionate e casalinghe, giovani e meno giovani ) che annunciano la loro volontà di votare Berlusconi "per la loro libertà" perché "le donne sono uguali e ciascuna è diversa ... ci rispettiamo e vogliamo rispetto", alla campagna sociale - che ha ottenuto il patrocinio di Pubblicità Progresso - Se crescono le donne, cresce il Paese di Snoq, affiancata dalla campagna di mobilitazione video Un paese per donne: le parole per dirlo, "una rappresentazione corale delle condizioni, delle idee e dei desideri delle donne, dal Sud al Nord". Anche qui infine le donne sono tutte diverse e tutte uguali: come sottolinea Simona De Simoni "C’è la studentessa, la professionista rientrata dall’estero, la vittima di tratta, la casalinga, la manager, l’operaia, la madre, la single", ma "tutte chiedono più lavoro, più riconoscimento, più merito (manco a dirlo), più conciliabilità con gli impegni famigliari. Tutte sognano la stessa vita e lo stesso tipo di realizzazione personale: dividersi equamente e serenamente tra il lavoro e il privato (generalmente nella forma della famiglia)". Sullo sfondo in entrambe le prese di posizione emerge la richiesta del riconoscimento di una "specificità femminile", che per le une "è di genere (le donne partoriscono, gli uomini fecondano) non sociale o culturale o politica" per le altre si materializza nei "temi delle donne" da inserire nell'agenda politica: "a cominciare dalla conciliazione dei tempi casa-lavoro, ai servizi, a una riforma del welfare che non faccia pagare solo alle donne il peso della crisi". Una lettura annichilente (Giorgia Meloni che condanna l'ultima trovata omofoba dei sui "fratelli" di partito meriterebbe discorso a parte, ma rinviamo a un post di qualche anno fa, ancora attuale), che ci da la misura del baratro in cui è sprofondato questo paese, ma anche di quanto sia importante continuare a lavorare, a valorizzare e dare visibilità a punti di vista femministi critici, che fortunatamente non mancano // Il video è la registrazione dell'esibizione di Rosanna Fratello a Canzonissima nel 1971, lo stesso anno della pubblicazione di La donna clitoridea e la donna vaginale nei Libretti Verdi di Carla Lonzi / Rivolta Femminile

martedì 27 novembre 2012

Lo schermo del potere al Torino Film Festival

In collaborazione con il Torino Film Festival, il Museo Nazionale del Cinema ospita, mercoledì 28 novembre, alle ore 17.00, nella sala eventi della Bibliomediateca, la presentazione del volume Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità di Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi. Ne discuteranno con le autrici Liliana Ellena e Alina Marazzi // L'immagine, tratta dalla copertina del libro, è - come avevamo già avuto modo di segnalarvi - un'opera di Birgit Jürgenssen, Gladiatorin, 1980

lunedì 5 marzo 2012

Corpi senza frontiere. Il sesso come questione politica

Corpi senza frontiere. Il sesso come questione politica è il titolo del volume, appena pubblicato da Dedalo di Caterina Rea, docente di filosofia all’Université de Louvain-la-Neuve in Belgio e autrice di numerosi articoli e volumi, tra i quali Dénaturaliser le corps. De l’opacité charnelle à l’énigme de la pulsion (2009). L'assunto di base che sostiene Corpi senza frontiere, è che il sesso è un prodotto storico, un’"invenzione" umana che traduce rapporti di dominio e si esprime in un particolare sistema di potere. Di seguito pubblichiamo alcuni stralci dell'introduzione, Dalla natura umana all’istituzione. "La tesi di questo libro, poco condivisa dal sentire comune, ma affermata dal costruttivismo sociale, è che il sesso sia un prodotto storico, un’invenzione umana che traduce rapporti di dominio e si esprime in un tipo particolare di sistema di potere. Le sfere del corpo e del sesso sono state a lungo considerate dalle scienze umane e sociali come una dimensione privata e intima, sottratta al divenire della storia, dell’istituzione sociale e della discussione politica. Così, una certa fenomenologia del corpo ha preteso di rivelarne la dimensione eidetica, intesa come un in sé, un proprio che precede ogni produzione sociale e storica. Allo stesso modo, la psicoanalisi ha elaborato norme universali (il complesso di Edipo, l’ordine simbolico e talvolta perfino una comprensione biologizzante della pulsione) che pretendono di definire lo sviluppo psico-sessuale dell’individuo. In maniera analoga, benché ciò possa apparire a prima vista sorprendente, persino talune prospettive socio-antropologiche e giuridiche hanno posto al centro delle loro analisi la distinzione tra naturale e social-culturale, ma anche tra privato e pubblico, distinzione che non è stata senza conseguenze nell’ambito delle accese discussioni e decisioni politiche riguardanti i moderni cambiamenti socio-familiari. Per chiarezza desidero precisare che questo libro non si richiama volutamente al femminismo storico italiano e non si inscrive nella continuità con il pensiero della differenza sessuale che questo incarna, soprattutto attraverso la Comunità filosofica femminile Diotima a Verona. Due parole per motivare questa presa di distanza: pur affermando la necessità di una pratica che conduca alla politicizzazione del sesso, il femminismo differenzialista non fa propria la lettura denaturalizzata del mondo e dei rapporti sociali che è per noi la sola possibile premessa di una visione politica laica, libera dal peso di ogni riferimento metafisico, da ogni appello a un presunto originario o, più generalmente, da ogni riferimento meta-storico. Che cos’è infatti questa «donna», questo «femminile» a cui il pensiero della differenza fa riferimento? Si tratta di qualcosa che esiste prima dei rapporti sociali di potere propri del patriarcato e della sua organizzazione del mondo in dominatori e dominati? Insomma la differenza sessuale incarna un ordine ontologico, un senso in sé inscritto nelle cose oppure una configurazione universale dello psichismo umano? Un passo di Luisa Muraro ci sembra illustrare come la pratica di questo femminismo presupponga la pretesa di raggiungere un «senso vero dell’esperienza femminile». Questa pratica consiste infatti nel «risalire alle origini seguendo una genealogia femminile, così da trovarvi la fonte della propria forza originale, della propria originalità». Gli accenti naturalistici del femminismo della differenza si fanno ancora più forti nella produzione della psicoanalista Silvia Vegetti-Finzi che, in un testo pubblicato nel 1992, riprende il paradigma, già affermato da Freud, di una vicinanza originaria del femminile alla natura. Se così la relazione madre-figlia, come afferma lo stesso Freud, precede il linguaggio e il simbolico in quanto creazione storico-sociale, l’emancipazione femminile non potrà prescindere da un ripensamento del legame della donna con la natura. Si tratterebbe allora di riconoscere il ciclo biologico e il posto che, in esso, hanno le donne, al fine di elaborare una soggettività femminile capace di opporsi all’impresa maschile di dominio e di sfruttamento della natura. La via dell’emancipazione femminile passerebbe dunque, secondo la Vegetti-Finzi, per "Il compito di volgere al femminile il discorso sul femminile, cioè di avere il coraggio di ritrascrivere, ritradurre in un codice femminile (assumendo la soggettività femminile) il discorso che l’uomo ha elaborato su di noi e con il quale ci siamo così profondamente identificate". Siamo al nodo di questo mio libro che ha per obiettivo proprio la ricerca di un senso originario delle cose, l’idea che esistano modelli universali cui richiamarsi, fatta propria da chi postula una differenza intima, ontologica, essenziale e persino simbolica della donna. Questa differenza è invece solo e soltanto il prodotto della storia ispirata dalle logiche del patriarcato e dalla violenza della dominazione maschile. Quando si reclama il diritto alla differenza, afferma la sociologa francese Colette Guillaumin, da una prospettiva apertamente anti-naturalista, non si tiene conto del fatto che nessuno vorrà negarla, questa differenza, ai gruppi dominati, in quanto essa è il marchio stesso dello sfruttamento. «Reclamare la differenza come qualcosa di mirabile significa accettare la perennità del rapporto di sfruttamento. Significa pensare, a nostra volta, in termini di eternità». Nel corso di questo saggio, riprenderemo il pensiero di quelle femministe materialiste che affermano che i gruppi sociali non sono identità originarie, naturali o comunque precedenti l’organizzazione istituita, ma il prodotto di rapporti storici di potere e che il sesso, come la razza, deve essere considerato «come un marchio biologizzato che segnala e stigmatizza una “categoria alterizzata”». In Italia, come del resto negli Stati Uniti, il femminismo materialista francese è pressoché sconosciuto. Il cosiddetto French Feminism è identificato esclusivamente con le posizioni di Luce Irigaray, di Julia Kristeva e di Hélène Cixous che sono fautrici di un pensiero differenzialista ispirato a una rielaborazione della psicoanalisi lacaniana. Nel femminismo differenzialista manca, a nostro avviso, un’analisi compiuta della dominazione maschile, cioè la consapevolezza del fatto che è proprio del potere il qualificare come differente l’altro/a, il/la dominato/a. Com’è possibile infatti sostituire all’ordine simbolico patriarcale ciò che viene chiamato l’ordine simbolico della madre (genealogia femminile) se tale passaggio non tocca in profondità i rapporti effettivi di potere? Mi riferisco alla diversità, stabilita dalla stessa Muraro, tra ordine simbolico e ordine sociale. Una diversità che impedisce di vedere come l’ordine simbolico, centrato sulla differenza dei sessi, incarni, di per sé, l’apparato discorsivo e di sapere insito nel patriarcato in quanto insieme di rapporti sociali di sesso. Se l’ordine simbolico della differenza costituisce la dimensione discorsiva, linguistica e di sapere propria di una cultura, esso sostiene, veicola ed è al contempo l’espressione di un dispositivo di potere, di una certa strutturazione della trama delle relazioni sociali. In breve, l’ordine simbolico centrato sulla differenza non sfugge all’ordinamento patriarcale. Non a caso, forse, il differenzialismo rifiuta di far proprie le rivendicazioni di eguaglianza di diritti e di parità affermate dalla corrente del femminismomaterialista e radicale, ritenendo che esse portano a cancellare la specificità di quella differenza femminile ritenuta centrale.Alla base del rifiuto della rivendicazione di eguaglianza vi è dunque il timore dell’omologazione, il timore che, attraverso le pratiche emancipatorie, le donne siano costrette ad adeguarsi ai modelli maschili vigenti.Ma questo timore non ha ragion d’essere, come ha giustamente mostrato la critica di Christine Delphy; la paura dell’indifferenziazione vuole evitare "Che tutti si allineino al modello maschile attuale. Sarebbe, si dice spesso, il prezzo da pagare per l’eguaglianza, un prezzo troppo alto. Questa paura proviene da una concezione statica, dunque essenzialista, degli uomini e delle donne, corollario della credenza secondo la quale la gerarchia sarebbe in qualche modo sovrapposta a questa dicotomia essenziale. Ma, nella prospettiva del genere, questa paura è semplicemente incomprensibile. Se le donne fossero uguali agli uomini, gli uomini non sarebbero più eguali a se stessi. Perché allora le donne dovrebbero farsi simili agli uomini in ciò che essi avrebbero cessato di essere?". Sarebbe infatti impossibile assomigliare agli uomini in quanto dominatori e violenti dal momento in cui sono stati eliminati i pilastri stessi dell’ordine della dominazione e della sopraffazione. Una volta soppressa una della due categorie – dominatori/dominati –, è la logica stessa della dominazione, che sottende l’ordine patriarcale, a essere come tale eliminata. A questo punto si impongono alcune domande. Perché l’Italia ha storicamente prodotto in prevalenza un femminismo della differenza? Perché la nozione di differenza, in quanto effetto di rapporti di dominazione, è restata così a lungo un impensato e forse un impensabile? Perché in questa prospettiva il genere non figura se non come espressione linguistica che si fonda su una differenza di sesso pre-data e non come quell’apparato di potere che pone e stabilisce la differenza?. L’Italia sembra pagare, anche in questo caso, l’alto prezzo della presenza invadente del Vaticano e del potere della Chiesa Cattolica che limita ogni forma di pensiero critico, portatore di una visione denaturalizzata, costringendo gran parte dello stesso femminismo a una visione teologico-politica del mondo. Finisce qui almeno per il momento il mio incipit polemico. Si cercherà d’ora in poi di disegnare le diverse forme in cui si esprime la naturalizzazione dell’umano per smascherarne la portata, non solo teorica, ma soprattutto sociale e politica. Beninteso, tali forme di naturalizzazione non si riportano tutte a quel riduzionismo biologico e cognitivo che oggi si estende innegabilmente sempre più dall’ambito delle neuroscienze a quello delle scienze umane e sociali. Tra queste diverse espressioni di una lettura naturalizzata dell’umano, della sua vita corporea, sessuale e persino socio-affettiva o familire, includiamo ogni tentativo di sottrarre queste stesse sfere al divenire politico, ai mutamenti sociali e storici dell’istituzione. Si tratterà allora, ogni volta, di rovesciare le pretese di certezza avanzate da queste prospettive. Passeremo, in questo modo, attraverso la fenomenologia del corpo, ridefinita come fenomenologia dell’opacità, per indicarne lo scacco nella pretesa di pervenire a un’auto-donazione del senso. Analizzeremo, seppur in breve, il riduzionismo neuroscientifico, per denunciarne il rilancio della nozione di natura umana. Attraverseremo, quindi, la teoria freudiana della sessualità per rovesciarne la dimensione ancora biologizzante in una lettura defunzionalizzata della pulsione. Infine, cercheremo di sovvertire quel granitico monolite che è l’ordine simbolico, dietro al quale si trincerano oggi quelle posizioni conservatrici che vorrebbero frenare i cambiamenti sociali. Particolarmente quei cambiamenti che investono sempre più l’ordine sessuale che fissa i rapporti di potere tra i sessi e struttura l’ordine familiare centrato sul primato della legge fallica e paterna. Il ricorso alla naturalizzazione e all’essenzializzazione delle differenze non risponde proprio alla logica politica della dominazione, così come ci insegnano recentemente gli studi di genere e post-coloniali? Se non esiste un senso univoco, immediato e universalmente dato, se la nozione di natura umana, cara alla tradizione metafisica e reinvestita dalle attuali neuroscienze, si rivela come priva di valore, quella sfera del senso, entro la quale l’umano si muove, ci apparirà ben più incerta, senza garanzie, problematica. Essa non è infatti manifestazione di un ordine trascendente e immutabile, ma il prodotto di una creazione umana, una produzione della storia e delle istituzioni, sempre anche attraversate da rapporti di potere, da gerarchie e interessi che si tratterà di volta in volta di ritrovare. In queste pagine si avverte una duplice tensione: quella che lega la riflessione sull’istituzione storico-sociale, propria di Cornelius Castoriadis, e quella che mette in luce le logiche dei rapporti di potere, delle forme di dominazione e di esclusione elaborate dal filone foucaultiano degli studi di genere e degli studi post-coloniali. Attraverso questi molteplici riferimenti, cercheremo quindi di mettere a confronto queste due tradizioni – castoriadiana e foucaultiana – che fino ad ora sono rimaste spesso separate, ma il cui confronto ci appare essenziale per l’elaborazione di una critica sociale radicale. La nostra corporeità, così come noi ne abbiamo esperienza, non precede il processo della sua materializzazione, cioè la sua produzione attraverso la trama simbolica delle significazioni sociali e storiche, di regole e norme, pratiche ed espressioni culturali che la costituiscono e la producono come umana. In questa direzione, discuteremo l’idea di base naturale che non è da intendere come un prima rispetto alla produzione sociale: in quanto in sé inaccessibile, poiché non trasparente e immediatamente data, essa è incessantemente elaborata e persino prodotta dalle forme culturali e linguistiche, dalle pratiche discorsive e normative, cioè dalla storia. In questo senso, come afferma chiaramente la filosofa americana Judith Butler, la materia stessa del nostro corpo è storica, deposito di sedimentazioni dei discorsi e delle pratiche che di volta in volta l’hanno istituita. Più in generale, mostrare che il corpo non è subordinato a un senso primario e naturale che esso dovrebbe riprodurre fedelmente significa affermare che ogni scarto o differenza rispetto a questo «modello» supposto originario non è riconducibile a uno scacco, a una forma devalorizzata di esistenza in quanto contraria ai dettami della natura umana. Ciò cui siamo ogni volta confrontati è piuttosto una delle svariate modulazioni e possibilità non riducibili a un’identità prima, è una produzione o copia senza modello o, per dirlo con la Butler, «un’imitazione senza originale». La nozione di genere introdotta dai Gender Studies americani, ma anche dal femminismo materialista francese ci sembra a questo proposito di primaria importanza. In quanto non fondato su una presunta anteriorità ontologica e naturale del sesso, essa ci appare come l’esempio di ciò che intendiamo per denaturalizzazione. In questo senso, il genere è proprio una produzione senza originario, una categoria critica che permette di leggere i rapporti di potere istituiti come rapporti non necessari e aperti a possibili contestazioni e trasformazioni. Non si tratta di riprendere semplicemente la versione corrente della teoria della performance come se essa fosse l’espressione di un soggetto volontaristico e individualistico capace di modificare il genere a suo piacimento quasi come si indossa ogni giorno un abito diverso. Ciò che intendiamo elaborare è una nozione di performatività come avvenimento storico e temporale, dunque come atto socialmente istitutito e istituente che forgia e plasma quelle differenze che venivano prima considerate come stabili, essenziali e originarie. Benché esso agisca sul piano del linguaggio, il performativo veicola pratiche normative e rapporti di forza. In questo senso, possiamo parlare di un’esplosione del soggetto storico del femminismo, cioè del fatto che esso non può essere circoscritto a una qualche differenza femminile chiusa in se stessa, alla figura quasi ipostatizzata di un «significante Donna» inteso come una realtà in sé, appartata rispetto al problema politico posto oggi sempre più dalle altre minoranze, da tutti quei gruppi resi subalterni e discriminati in funzione di criteri di sessualità, di razzializzazione o di classe sociale. Solo considerando questa condizione denaturalizzata dell’esistenza umana e del suo essere corporeo, già fin dall’inizio implicato in un mondo di significati sociali, linguistici e culturali, possiamo comprendere il valore della creazione immaginaria. Essa non conosce strade pre-tracciate, modelli eterni e immutabili ai quali attenersi nell’impeto incessante e sempre innovatore del suo produrre. Questo è anche il senso dell’istituzione in quanto cammino sempre aperto e senza garanzie, poiché si costruisce proprio mentre lo si percorre. Se noi cerchiamo di allontanarci da ogni visione essenzialista e naturalista del corpo e dell’umano, la nostra riflessione non giunge al suo termine se la corporeità, sottratta all’ordine naturale, è poi assegnata a un ordine simbolico concepito come trascendente e metastorico. Il gesto che mira a denaturalizzare e a de-ontologizzare il corpo non può realizzarsi senza sottoporre a critica anche la sfera dei significati, l’ordine simbolico appunto, al quale il corpo denaturalizzato è riassegnato. Come risignificare allora questa sfera simbolica non più come una struttura universale e permanente ma come una realtà contingente e mutevole, aperta alle svariate possibilità di trasformazione che la storia e il movimento stesso dell’istituzione potranno imprimerle? Si tratta di dare alla politica, in quanto creazione sociale, produzione di nuove norme, deliberazione e contestazione, un ruolo di primaria importanza per definire lo statuto stesso dell’umano e della sua corporeità. La recente politicizzazione delle questioni legate alla sfera corporea, sessuale e familiare (dall’evoluzione dei rapporti socio-familiari e di genere, alle nuove forme di legame parentale e di filiazione, dall’affermazione dei diritti sessuali e (non) riproduttivi alle possibilità aperte dalla procreazione medicalmente assistita) mostra l’irruzione dirompente sulla scena pubblica di quella sfera fino a poco tempo fa considerata come privata, sfera dell’intimo indipendente e avulsa dai cambiamenti della storia e dalle sue molteplici variazioni. Anzi, proprio sul terreno di queste questioni, alle quali il panorama socio-politico italiano si affaccia ancora timidamente ma non senza controversie e sussulti, si gioca oggi la tenuta stessa della democrazia e della laicità, intese come mancanza di ogni riferimento trascendente e sovrasociale, di ogni garanzia ultima che dovrebbe guidare e orientare le decisioni collettive. Se la sfera corporea e sessuale costituiva – e costituisce ancora in parte – l’ultima frontiera di una visione naturalizzata o comunque sacralizzata dell’umano, di un ordine considerato come ontologicamente estraneo alla contingenza delle vicende politiche, oggi questa sfera diviene sempre più oggetto di dibattito, di negoziazioni e di deliberazioni collettive, diviene cioè parte di quell’orizzonte della doxa che non conosce verità stabili e predefinite. Il concetto di democrazia sessuale utilizzato dal sociologo francese Eric Fassin ci aiuterà infine a precisare le poste in gioco politiche della denaturalizzazione e di una concezione della corporeità che la sottragga alla pretesa di accedere a un senso ultimo e immediato. Come vedremo, con questo termine si intende «l’estensione del dominio democratico, con la politicizzazione crescente delle questioni di genere e di sessualità che rivelano e incoraggiano le molteplici controversie pubbliche attuali» mostrando che questi ambiti non si sottraggono alle tensioni e alle trasformazioni che attraversano la sfera sociale(dal libro di Caterina Rea, Corpi senza frontiere. Il sesso come questione politica, pubblicato dalle Edizioni Dedalo).

martedì 1 marzo 2011

Il corpo delle donne non è della nazione

Riprendiamo da Staffetta, blog del Nodo Sociale Antifascista, un articolo di Tamar Pitch (originariamente pubblicato da il manifesto), Il corpo delle donne non è della nazione, articolo che, prendendo le mosse dalla manifestazione delle "donne italiane" del 13 febbraio, ricorda l'uso che storicamente tutti i nazionalismi hanno fatto del corpo delle donne (ne avevamo discusso recentemente nel convegno States of Feminism / Matters of States: Gender and the Politics of Exclusion) e si chiede: "È questo impasto indigesto di decoro e maternage ciò che ci aspetta dopo Berlusconi?". Qui di seguito l'articolo. Buona lettura (e riflessioni). "La nazione ha molto a che fare con le donne, ma niente con la loro libertà. Per questo il senso della manifestazione del 13 febbraio, o almeno il senso che sembra esserne stato ricavato in area Pd, è problematico, se non preoccupante. Sia in alcuni interventi precedenti che in molti commenti successivi, donne e Italia, donne e nazione vengono evocate come indissolubilmente legate, così che le donne simboleggiano il vero cuore della nazione (anzi, il suo «corpo»), ciò che la salverà. E del resto che fosse in gioco non soltanto la «dignità delle donne», ma quella della nazione è stato detto esplicitamente più volte. In questo, ahimè, non vi è nulla di nuovo. Tutti i nazionalismi hanno usato e usano questa retorica, compresi naturalmente i fascismi. Non è difficile capire perché. Le donne, i loro corpi, rappresentano e custodiscono la «tradizione», e insieme ne promettono continuità e futuro. Per questo il dominio su di loro e i loro corpi è essenziale, così come, complementarmente, l’esclusione degli «altri» (maschi) dall’accesso a questi corpi stessi. Sessismo e razzismo (e omofobia) non solo vanno insieme ma sono in certo senso presupposti e risultati della nazione. A differenza dello stato moderno, concepito come prodotto artificiale di un patto tra individui razionali a tutela dei loro diritti, la nazione è intesa e vissuta come prodotto storico, se non addirittura naturale (in ragione dei «legami di sangue»), che si pone prima dello stato e da esso deve essere rappresentata e difesa. La nazione non è la somma di individui la cui unica caratteristica è l’essere dotati di ragione. È, in certo senso, il suo esatto contrario, ossia il prodotto organico di relazioni tra soggetti incarnati e storicamente determinati, relazioni basate sulla comunità di lingua, di storia, di tradizione: e di «sangue». Se, dal punto di vista storico, molte nazioni moderne sono piuttosto il prodotto che non il presupposto dello stato, esse vengono invece vissute come ciò che lo legittima. In linea di principio, lo stato è inclusivo: chiunque può aderire al patto. La nazione invece è esclusiva: vi si appartiene per nascita. Lo stato prescinde dai corpi, la nazione ne è costituita. Lo stato non ha un corpo (e non vive, direbbe Brecht, «in una casa con i telefoni»), la nazione invece sì. Quali corpi, quale corpo? I corpi degli uomini, votati al sacrificio supremo per difenderla, i corpi delle donne, da cui dipende il suo futuro. Il Corpo della nazione (basta vedere l’iconografia) è invece esclusivamente femminile, così come, è ovvio, la mente è maschile. Metafore, certo, ma performanti. E pericolose. In primo luogo per la libertà femminile, che si fonda precisamente sulla possibilità e capacità di disporre di sé, della propria sessualità e fertilità. Ora, è proprio questo che è impossibile per la tenuta e la continuità della nazione: il corpo delle donne deve essere soggetto a questi imperativi (tenuta e continuità), e questi imperativi, se possono mutare di contenuto a seconda delle esigenze (fare tanti figli o non farne affatto, per esempio), lo separano dai desideri e dalla volontà della singola, per sottometterlo a quelli di chi decide per il «bene della nazione».
Può capitare, ed è capitato, che si faccia appello alle donne e se ne richieda una sorta di protagonismo per «la salvezza» (o «la dignità») della nazione. Ciò non implica, perlopiù, un effettivo liberarsi delle donne: come si è visto spesso nei casi delle lotte di liberazione nazionale. Finita la mobilitazione, alle donne si impone di nuovo di essere le custodi di ciò che rende la nazione tale, le tradizioni, i legami di sangue, e di piegare i propri desideri , in primo luogo rispetto alla sessualità, in funzione di ciò che la nazione e il suo futuro richiedono. Insomma la nazione, la patria, la comunità, l’identità culturale sono costitutivamente nemiche della libertà femminile. Per la nazione, la patria, ecc., le donne devono essere mogli fedeli e madri degli uomini. Al massimo, madri della patria, cui ricorrere in tempi bui. Ciò che questi soggetti collettivi (nazione, patria, comunità) escludono è la singolarità. Le donne sono un tutto unico e indifferenziato, la cui soggettività è bensì incarnata, ma nel senso che essa è interamente determinata dal corpo, il quale a sua volta è letto in base alle funzioni che gli sono attribuite. Abbiamo criticato lo stato e il diritto moderno, l’idea di libertà e il paradigma politico che vi sono connessi perché si fondano su un soggetto neutro e disincarnato. Tuttavia, se stato e diritto moderni sono pur stati strumenti di emancipazione, la nazione, viceversa, è sempre stato un ostacolo per noi e per la nostra libertà. A ben vedere, ambedue, stato e nazione, poggiano precisamente su quelle dicotomie dominanti nel pensiero europeo che abbiamo cercato di decostruire inaugurando una idea e una pratica della politica diverse: soggetto-oggetto, natura-cultura, mente-corpo. Oggi, almeno in Italia, ci ritroviamo strette tra un’ideologia dominante che definisce la libertà personale come possibilità di scelta (razionale) di una «mente» separata dal corpo, il quale può dunque (e deve) diventare una merce come tutte le altre e un’ideologia confusa (e pericolosa) in cui si mescolano la tendenza a negare la singolarità e a dissolvere le differenze in un tutto indistinto, con il rischio di ricondurre il femminile a una qualche essenza consegnata nel corpo. Un corpo decoroso, beninteso. È questo impasto indigesto di decoro e maternage ciò che ci aspetta dopo Berlusconi?" (Tamar Pitch, Il corpo delle donne non è della nazione, il manifesto), 26 febbraio 2011).

giovedì 27 gennaio 2011

Simone De Beauvoir: come la società "fabbrica le donne"



Il video (dal titolo Le parole di Simone De Beauvoir), è un originale montaggio - con sottotitoli in italiano -, di alcuni frammenti tratti da film e materiali d'archivio (frammenti da On ne naît pas femme ... di Virginie Linhart del 2007, ma mi sembra anche dal film di Carole Roussopoulos, Des fleurs pour Simone De Beauvoir), realizzato recentemente da Collettiva Femminista, che ringraziamo.

mercoledì 25 novembre 2009

Stupri non denunciabili e cariche poliziesche durante la "giornata internazionale contro la violenza sulle donne"

Sappiamo che ci sono stupri non denunciabili, quelli cioè commessi da coloro che dovrebbero (secondo una certa retorica sessista e razzista) garantire la nostra "sicurezza". Lo sappiamo da tempo e da tempo abbiamo affermato che noi non siamo complici di quest'altra forma di omertà. Vogliamo denunciare la violenza esercitata sulle donne, migranti e non, tra le cosiddette pareti domestiche, i luoghi di lavoro e le parrocchie, come anche le questure, i carceri e soprattutto i Centri di identificazione ed espulsione. Per questo oggi, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, siamo state in tante, in diverse città, a scendere in strada con presidi itineranti, volantinaggi, scorribande contro-informative e striscioni che denunciavano quello che in tanti/e non vogliono vedere e cioè che (anche) nei Cie si stupra. E che a stuprare è la polizia, quella che mandano nelle strade per "difenderci". Non ci stupisce allora che sia stata proprio l'apertura di uno striscione che affermava questa scomoda verità a provocare una violenta reazione poliziesca a Milano. Poche ore fa, infatti, in Piazzale Cadorna, durante il presidio promosso dalle compagne milanesi che avevano aderito all'appello Noi non siamo complici!, presidio che aveva riunito diverse realtà femministe e antirazziste, alcune donne hanno aperto uno striscione: "Nei centri di detenzione per immigrati la polizia stupra". Immediata la reazione della polizia, la richiesta di chiudere lo striscione, il sacrosanto rifiuto. Partono le cariche, violente. Le/i contuse/i sono diverse/i. Intanto, a poche fermate di metro, in quelle stesse ore le femministe dette "storiche" della Libreria delle donne di Milano festeggiavano a loro modo la giornata internazionale contro la violenza sulle donne con un iniziativa dal titolo Diritti e castighi. Non avendo in questo momento energia e lucidità a sufficienza riprendo dal lancio di stampa dell'iniziativa: (e ad ognuna le proprie riflessioni): "Dal 2002 Lucia Castellano dirige la Seconda Casa di Reclusione di Milano-Bollate - un esempio di civiltà e innovazione unico in Italia -, affiancata da altre due donne: la Vice Direttora Cosima Buccoliero e la Comandante della Polizia Penitenziaria Alessandra Uscidda. Nel suo lavoro si orienta mettendo al centro l'attenzione e il rispetto per l'altro/a, considerando il potere come un'opportunità per poter fare, attraverso una capacità progettuale e trasformativa in grado di produrre cambiamenti significativi nel contesto in cui opera e in chi lo abita, rifiutando "la gelida cultura autoritaria e burocratica che domina il mondo del carcere», improntata «al machismo, alla prepotenza e alla vessazione". Doppia solidarietà alle compagne e alle/ai antirazziste/i di Milano.
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venerdì 10 luglio 2009

Michelle Obama, Alemanno e Isabella Rauti: liaisons dangereuses al G8

Dopo aver parlato poco (e senza grossi sensi di colpa) di Berlusconi, escort e veline (e per niente di Veronica Lario e dei suoi sfoghi di povera moglie offesa) non ho neanche firmato l'appello, circolato recentemente, con il quale un gruppo di donne invitava le cosiddette first ladies a disertare il G8 a L'Aquila, denunciando le "vicende relazionali del premier, che trascendono la sfera personale e assumono un significato pubblico" e soprattutto "le modalità di reclutamento del personale politico" e i "comportamenti e discorsi sessisti che delegittimano con perversa e ilare sistematicità la presenza femminile sulla scena sociale e istituzionale. Questi comportamenti, gravi sul piano morale, civile, culturale, minano la dignità delle donne e incidono negativamente sui percorsi di autonomia e affermazione femminili" . Rilevo en passant che, questa volta, tra le first ladies c'era anche un first husband ovvero il consorte della cancelliera tedesca Angela Merkel (ma nessun* sembra essersene accorto, e qui la pretesa diagnosi di genere resta indietro rispetto alla realtà), ma non è questo adesso il punto. Nè voglio stare a farla lunga sull'aberrazione di rivolgersi alle mogli dei capi di stato invitati al G8 sperando in una improbabile unità di genere in nome del sessimo. Con sguardo obliquo mi soffermo invece su una piccola notiziola che rischia di passare pressoché inosservata e non meditata. Eppure una delle poche che segnalano, seppur indirettamente, come certe vicende italiane siano state recepite dalle first lady. Mi riferisco all'incontro tra la consorte del presidente degli Stati Uniti Barack Obama, Michelle, con i coniugi Alemanno durante le sue vacanze romane a margine del G8 (che, come tutte le altre, non ha boicottato). Sembra che la first lady statunitense abbia ammonito il sindaco di Roma a comportarsi bene con la moglie (tra parentesi: è Isabella Rauti, passata da pochi anni dalla Fiamma Tricolore del padre Pino Rauti all'Alleanza Nazionale del marito). E così al posto dell'agognata rivolta delle first lady ci è stato servito uno scialbo precetto di bon ton familiare.
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venerdì 23 novembre 2007

A che cosa miriamo? Per uno spostamento delle lotte dei/nei femminismi


Scrivo queste note a qualche ora dall'inizio della manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne. La manifestazione nasce grazie all' iniziativa di alcune militanti romane [1] che ai primi di ottobre fanno girare un appello dove si sottolinea l'urgenza di organizzare una manifestazione nazionale “dove tutte le donne possano scendere di nuovo in piazza a fianco delle donne vittime di violenza e per i diritti delle donne“.
Le adesioni all'appello sono migliaia [2]. Viene aperto il sito ControViolenzaDonne.org (che ha tra le sue sezioni anche un blog), per permettere una migliore circolazione delle notizie e una partecipazione il più allargata possibile all'organizzazione della manifestazione.

Una prima assemblea pubblica si tiene a Roma il 21 ottobre. Vi partecipano circa un centinaio di donne, militanti femministe e lesbiche provenienti da varie regioni italiane. Dall'assemblea esce un primo documento che – oltre che nel sito – circola anche in varie mailing list permettendo in questo modo a quante non erano fisicamente presenti a Roma – e che magari sono anche delle “singole”, non legate cioè a nessun gruppo o associazione – di intervenire attivamente ed anche criticamente sul testo. Non tutte le questioni sollevate nella discussione sono state ritenute nel documento finale, ma nella loro varietà tendono a "complicare" il discorso e fanno emergere la molteplicità di soggettività, posizioni e prospettive delle donne impegnate nella costruzione della manifestazione e che si riconosco in questo "processo politico collettivo". E' grazie anche a queste discussioni, ad esempio, che viene riformulato, radicalizzandolo, il rifiuto delle strumentalizzazioni in chiave securitaria e contro gli "stranieri" della violenza contro le donne. O ancora la necesità di nominare le lesbiche e la specifica violenza che subiscono. Da parte mia, avevo avanzato, tra l'altro, dubbi sull'uso della categoria "aggressività maschile" e soprattutto sul fatto che mettere in primo piano che la maggioranza delle violenze avvengono in famiglia da parte di padri, mariti, conviventi, ex o semplicemente conoscenti, se da una parte risponde efficacemente ai tentativi di spiegare la violenza sulle donne come opera di sconosciuti preferibilmente migranti e rompe l'apologia e l'idealizzazione della famiglia molto forte in Italia [2], dall'altra lascia nell'ombra altre violenze che si consumano tra "le pareti domestiche", ad esempio quelle inflitte alle donne migranti da parte non solo di familiari (come avviene per le italiane, familiari che possono essere anche italiani), ma anche dai "datori di lavoro", si pensi solo alle tante "colf", "badanti" e baby-sitter presenti nelle "nostre" case. Queste violenze fisiche (a volte esercitate anche dalle "padrone", cosa che veramente complica il quadro), che possono andare dalle molestie allo stupro, spesso non vengono denunciate perché la mancanza di un permesso di soggiorno rende spesso clandestine non solo le persone ma anche le violenze che subiscono [3].
Una seconda assemblea si tiene, sempre a Roma il 27 ottobre. Il documento, ridiscusso e modificato anche in base alle osservazioni e ai contributi emersi nei giorni precedenti, convoca una manifestazione nazionale “contro la violenza maschile sulle donne” per il 24 novembre a Roma. In questa occasione si afferma la volontà di caratterizzare l'iniziativa come una manifestazione di sole donne.
Questa scelta “separatista” provoca un'accesa discussione sia nel blog di controviolenzadonne.org (in particolare i commenti ai post Sommovimento femminista e Tutte a Roma il 24 novembre) che in siti e mailing list (come ad esempio quella di Facciamo Breccia). Alcune donne (ed in seguito anche alcuni uomini, fino a quel momento assenti dalla discussione [4]) si oppongono a una decisione che giudicano “discriminatoria” verso gli uomini, in particolare verso quelli che la violenza la subiscono e/o la combattono in prima persona, come i gay, i trans FtM o gli uomini impegnati in una critica della “mascolinità”. La decisione di promuovere una manifestazione di sole donne viene vista come prevaricatrice o peggio, imposta dall'alto o da una sorta di “comitato centrale”. Le donne che sostengono la scelta separatista (alcune delle quali impegnate tra l'altro in organizzazione "miste" ma che ritengono importante una manifestazione di sole donne contro la violenza), vengono tacciate di veterofemminismo (creando, tra l'altro una fittizia contrapposizione tra "giovani" e "vecchie"[5]) e di essere portatrici di un discorso di tipo identitario o essenzialista. Per le sostenitrici di un corteo "misto", attuare la scelta separatista significa buttare "via anni e anni di contaminazioni queer e critica trans [6].
Viene sottolineato, ad esempio, come "individuare nell’appartenenza 'biologica' a un genere la legittimità di partecipazione e mobilitazione e’ un arretramento pericoloso. O qualcuna di noi magari scoprira’ di non essere poi cosi’ distante da chi, cattolici e non, vincolano elementi anatomici a caratteristiche di genere, il genere al ruolo sociale, la fruizione di diritti alla supposta naturalità di ruoli e progetti affettivi e di vita… [...] La signora Santanche’, che usa strumentalmente la violenza contro le donne per la peggiore propaganda razzista ed eurocentrica, sostenendo la superiorita’ della civilta’ occidentale - laddove nella civilissima Italia sappiamo bene dove e chi agisce prevalentemente violenza sessuale, sara’ + bene accetta di realta’ associative come Maschile Plurale o il Mit?"[6].
A queste osservazioni risponde, tra le altre, una militante che ribadisce l'importanza che, in questa specifica occasione, riveste il carattere separatista del corteo "perché il messaggio che va dato all’esterno è quello di donne autorganizzate, autodeterminate e incazzatissime [...] Le riflessioni sui generi che ci facciamo tra noi sono, ovviamente, mille anni luce più avanti di questa società di merda, ma siccome è a questa società di merda e alle donne che la abitano che dobbiamo dare un messaggio forte (se no che andiamo in piazza a fare? a parlarci addosso?) dobbiamo muoverci su coordinate comprensibili. Questo non significa abbassare i toni, anzi! Mi viene in mente un concetto che Teresa De Lauretis cita sempre riprendendolo da Spivak: l’essenzialismo strategico. Ecco, penso che il separatismo in questo corteo vada letto consapevolmente in questi termini e non come controllo di ciò che ciascuno/a/*/°/# ha nelle mutande; cioè, usare strategicamente e consapevolmente l’essenzialismo, senza quindi cadere in biologismi o altre schifezze che ci hanno già ammorbate a sufficienza" [7].
Il 18 novembre l'inserto domenicale di Liberazione, Queer, dedicato alla manifestazione del 24, pubblica due articoli che dovrebbero illustrare le due posizioni separatismo si/separatismo no verso le quali si è rapidamente polarizzata – e, forse, cristalizzata – la discussione. L'articolo che contesta la scelta separatista, di Gaia Maqi Giuliani, Solo donne? Così ribadiamo i ruoli che generano violenza [8], riprende il concetto di essenzialismo strategico ma ritenendolo "controproducente" in questa specifica situazione: "l’essenzialismo potrebbe essere “strategico” solo qualora la sua decostruzione, critica e superamento fosse patrimonio di molti/e e dell’immaginario comune. Il problema è che non lo è. La stessa espressione di “violenza di genere” come strumento concettuale in grado di aprire la riflessione sulla natura e sulle conseguenze di una violenza che è culturalmente maschile ed eterosessista, allargando e complicando una concezione della violenza “fisica” “maschile” stereotipata e miope, non è entrata nel linguaggio comune tanto da poter essere messa nel cassetto e “strategicamente” sostituita con un semplificatorio essenzialismo “binario” (uomo-donna)".
La discussione su "separatismo si/separatismo no" cresce in maniera esponenziale man mano che la data della manifestazione si avvicina. Continua nelle mailing list, in siti e blog, come anche nei gruppi e associazioni coinvolte nell'organizzazione della manifestazione.
L'irrigidimento di questa contrapposizione ha, a mio avviso, indotto una semplificazione drastica e riduttiva delle ragioni e dei problemi in campo, oltre a un pericoloso allontanamento da quello che era l'obiettivo primario della manifestazione (ma che sarà bellissima :-) ...).
Nell'intreccio dei commenti, il tentativo di comprendere anche criticamente posizioni diverse e/o divergenti dalla propria, è stato soppiantato dall'istanza di incasellare i diversi punti di vista nell'uno o nell'altro lato della dicotomia “separatismo sì /separatismo no”. Una volta innescata, questa dinamica sembra vivere di vita propria, credo (spero?) anche al di là delle intenzioni di molt*.
In questo scenario non posso che rivendicare la mia "dissonanza", la mia postura marginale. Non sarò a Roma per cause di forza maggiore, ma, nel caso, sarei stata sicuramente nelle spezzone "separatista", eppure rifiuto di essere incasellata nella gabbietta "separatismo si" che annulla la mia specificità come quella di altre, che ci mette tutte insieme sotto un'etichetta, omologandoci (mentre eravamo tutte insieme, con le nostre differenze di percorsi e posizioni, per un progetto politico comune: lottare contro la violenza sulle donne).
Mi chiedo (non retoricamente: vorrei proprio saperlo) perché è intorno alla scelta di un corteo separato che si danno fuoco alle polveri, perché è intorno a questa scelta (e solo intorno a questa scelta in maniera così accesa e quasi "feroce") che ci si pone il problema dell'essenzialismo veicolato dai nostri discorsi e dalle nostre pratiche. Mi chiedo perché non lo si è fatto prima e su altre questioni ( che tranquillamente si possono - strategicamente - "mettere nel cassetto" senza suscitare contrapposizioni infuocate), perché si è voluto suscitare il "fantasma" degli anni 70, di cui il separatismo è uno degli "emblemi", essendo stato "l'atto fondatore e mitico" del femminismo di quel tempo. Come se ci si potesse permettere ancor oggi il lusso di ignorare quanto questo tipo di esorcismo della storia (accompagnato dalla vana apologia del "nuovo", e spesso sotto lo schermo di comodo del presunto "conflitto generazionale" di turno) è ormai da anni una delle armi preferite di tutti i processi di normalizzazione e di restaurazione; dell'aggressione e dello svuotamento di ogni esperienza che miri oltre questo presente. Mi sembra troppo facile e mistificante mettere sul conto dell'opzione in favore di una manifestazione separata, in una certa circostanza, "un" certo giorno, i guasti prodotti da un essenzialismo che, in Italia, ha nutrito una lunga egemonia del "pensiero della differenza sessuale" e che ancora pervade pratiche e discorsi di diversi femminismi. E' su questo che, da tempo, avrebbe dovuto concentrarsi la critica, come anche sulle difficoltà di molti femminismi di interrogarsi sul nodo cruciale sessismo e razzismo, che ha assunto con troppo ritardo - e solo "grazie" alla campagna ignobile montata da politici e media dopo l'omicidio di Giovanna Reggiani - una posizione centrale nel dibattito pubblico. Senza peraltro, e mi sembra sintomatico, suscitare una riflessione sul razzismo "interno" alle stesse teorie e pratiche femministe.
E così "chi ha paura del separatismo?" sarà il titolo di un post che leggerete presto qui. Cercherò di rispondere ripercorrendo la storia del separatismo, delle diverse forme che ha assunto (a seconda dei contesti nazionali, dei momenti storici eccetera) nel movimento femminile/femminista (e non solo). Sarà l'occasione per parlare di differenzialismo e di sessismo e razzismo (nelle loro molteplici espressioni: lesbofobia, razzismo contro i migranti, antisemitismo, omofobia, razzismo anti rom, transfobia ...). E, intanto rinvio qui.

Chi ha paura del separatismo? Prossimamente su questi schermi...

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NOTE:

[1] Angela Azzaro, Beatrice Busi, Roberta Corbo,Annalisa D'Urbano, Olivia Fiorilli, Chiara Giorgi, Mariarosaria LaPorta, Maria Tiziana Lemme, Luciana Licitra, Aurelia Longo, Valentina Mangano, Ilaria Moroni, Monica Pepe, Elena Petricola, Valeria Ribeiro Corossacz, Barbara Romagnoli, Laura Ronchetti, Maria Russo, Marzia Saldan, Ornella Serpa, Marina Turi. La rete Controviolenzadonne.org che si costituisce in seguito a questo appello (e che promuoverà la manifestazione) comprende diversi collettivi : A/matrix, Assemblea femminista via dei volsci 22,Centro Donna L.i.s.a., Feramenta, Infinite voglie, La mela di Eva, Luna e le Altre, Martedì autogestito da femministe e lesbiche, Ribellule, donne CSOA-EXSNIA.
[2] Donne singole, collettivi, associazioni. Impossibile nominarle tutte: dalle Maistat@zitte di Milano alle Fuoricampo Lesbian Group di Bologna ... Per tutte le adesioni pervenute si veda qui. Alcune adesioni sono state rifiutate: "rifiutiamo l’adesione alla manifestazione del 24 novembre e la strumentalizzazione di questa giornata da parte dell’UGL e degli altri soggetti politici che hanno aderito al Family Day, che disconoscono l’autodeterminazione delle donne e sostengono le politiche razziste, familiste e ostili al riconoscimento dei diritti e della libertà di lesbiche, gay e trans della destra reazionaria, rilanciate in grande stile anche da un governo che si definisce di sinistra ", si legge in un comunicato della rete di controviolenzadonne.org.
[3] Non solo da parte del Vaticano. Si pensi all'istituzione nel nostro paese, di un Ministero della famiglia nel 1994, e al fatto che tanto nel centrodestra quanto nel centrosinistra le politiche economiche e sociali anche di carattere generale sono proposte all'insegna dei bisogni, del sostengno o dell'aiuto "alla famiglia", dove ovviamente la famiglia in oggetto è essenzialmente italiana, eterosessuale, con figli e possibilmente cattolica. E' uno dei motivi per cui proporrei di limitare nei nostri discorsi l'uso del termine "famiglia" soltanto per designare la cultura e i discorsi dominanti (magari ponendolo tra virgolette?), senza assumere noi stess* questo termine come qualcosa che va da sé.
[4] Del resto avevo sollevato le stesse questioni a proposito delle migranti in una mailing list bolognese in occasione della manifestazione cittadina contro la violenza sulle donne dello scorso anno.
[5] Ci sono ovviamente anche commenti di uomini che rispettando la decisione delle donne "accettano la sfida" di cominciare un percorso "tra uomini" contro la violenza sulle donne (per esempio il commento di Jacopo in
Sommovimento femminista ).
[6Non intendo negare l'estistenza di conflitti generazionali nei femminismi, ma non mi sembra che a proposito della scelta separatista della manifestazione ci sia stato disaccordo tra "vecchie" e "giovani", come si può evincere, tra gli altri, dal commento di Claudia, 11 ottobre, in
Sommovimento femminista.
[7] Commento di Maia, 30 ottobre, in Sommovimento femminista.
[8] Commento di Nic, ibid.
[9] Per chi si fosse perso questo interessantissimo numero di Queer, tutto dedicato alla manifestazione del 24, segnalo che tra qualche giorno dovrebbe essere consultabile on-line nel sito di Liberazione. Per intanto trovate l'articolo di Gaia Maqi Giuliani nel post Contro il separatismo di Femminismo a Sud.