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mercoledì 20 novembre 2013

Il ramadan di Daniela Santanchè

Nuova puntata per La vendetta del burqa, la saga all'insegna dell'islamofobia che vede come protagonista Daniela Santanchè, ex Alleanza Nazionale, poi candidata fallita per La Destra - Fiamma Tricolore e ora fedelissima di Berlusconi nell'agonizzante Popolo della Libertà. Già rinviata a giudizio per diffamazione lo scorso anno dal gup di Milano per aver offeso "la reputazione e l'onore" (così nel decreto che ne disponeva il giudizio) di una donna italiana convertita all'Islam nel corso della trasmissione televisiva Iceberg, il 21 settembre del 2009, adesso Santanchè è a processo per un'altra vicenda che l'ha vista in primissima fila sempre nel settembre 2009.  L'episodio è la cosiddetta  "protesta anti-burqa" organizzata a Milano dall'allora leader del Movimento per l'Italia (da lei fondato un anno prima) durante la quale la parlamentare  aveva tentato di strappare il velo ad alcune donne musulmane che si recavano ad una festa per i festeggiamenti di fine Ramadan. In seguito aveva dichiarato di essere stata vittima di un'aggressione da parte dei "fondamentalisti islamici", notizia che aveva generato titoli memorabili su molti quotidiani, come l'indimenticabile Per festeggiare il Ramadan picchiano la Santanchè (Il Giornale). Ora arriva il processo e la richiesta da parte del pm di un mese di arresto e cento euro di multa per Santanché e 2000 euro di multa per Ahmed El Badry, accusato di lesioni per aver assestato un pugno nello sterno alla parlamentare del Pdl. Per il vice procuratore onorario, a differenza di Santanché, El Badry non merita le attenuanti generiche e nemmeno quelle "della provocazione, in quanto ha colpito una persona, oltre tutto di sesso femminile, che esprimeva opinioni e non c'era motivo di colpirla". L'appuntamento (e terza puntata della saga) è ora per il 1 di dicembre, giorno in cui parleranno le difese e il giudice si dovrebbe ritirare in camera di consiglio per la sentenza.

lunedì 11 novembre 2013

Berlusconi e le famiglie ebree

Da Incidenze l'ultimo capitolo della campagna revisionista di Silvio Berlusconi: «I miei figli dicono di sentirsi come dovevano sentirsi le famiglie ebree in Germania durante il regime di Hitler . Abbiamo davvero tutti addosso»

lunedì 13 maggio 2013

Boccassini orientalista

Nella requisitoria al processo che vede imputato Silvio Berlusconi la pm Ilda Boccassini - che ha chiesto di condannare il leader del Pdl a cinque anni per concussione e ad un anno per sfruttamento prostituzione minorile - ha evocato la "furbizia orientale, propria delle sue origini" di Karima El Marough detta Ruby. Mentre anche Suad Sbai si indigna poiché "non tutte le donne orientali o arabe tengono atteggiamenti come quelli di cui si sta dibattendo nel processo", noi dobbiamo ancora una volta constatare la pervasività di una cultura neo-coloniale-orientalista-razzista-sessista che sembra non risparmiare nessuno/a. Grazie a Alessandra Gribaldo per la segnalazione // L'immagine  è un'opera di Ellen Gallagher, Odalisque (2005)

lunedì 15 aprile 2013

Nuovi femminismi al Piano Terra

Nuovi femminismi è il titolo della serata che si terrà al Piano Terra di Milano venerdì 19 aprile, una serata per discutere - come scrivono le organizzatrici - a partire "da due testi che ci hanno appassionato, ci hanno fatto pensare e ci hanno fornito termini nuovi e tracce da seguire non scontate: Femministe a parole (Ediesse) e Lo schermo del potere (ombre corte). Senza dimenticare alcunché delle genealogie femministe ma tenendo in conto il desiderio e il piacere di avventurarsi lungo strade originali, entrambi i testi rispondono alla necessità urgente di affrontare problematiche inedite, fornendo interpretazioni e indicazioni per il pensiero e l’agire della politica delle donne nella contemporaneità". Vi aspettiamo! numerose/i ;-)

sabato 23 febbraio 2013

Elezioni, donne, bambole e sante

Una noiosa influenza mi costringe in casa, il mal di testa mi impedisce di dedicarmi a letture più impegnative, quindi mi ritrovo a fare zapping davanti alla tv e al pc, aggiornandomi - in extremis - sul tema per me poco entusiasmate delle elezioni "al femminile". Passo in un crescendo di sgomento dalla lettura del manifesto Sono una donna non sono una bambola pubblicato a pagamento sul Corriere della Sera da un lungo elenco di "donne comuni" (parrucchiere e avvocate, pensionate e casalinghe, giovani e meno giovani ) che annunciano la loro volontà di votare Berlusconi "per la loro libertà" perché "le donne sono uguali e ciascuna è diversa ... ci rispettiamo e vogliamo rispetto", alla campagna sociale - che ha ottenuto il patrocinio di Pubblicità Progresso - Se crescono le donne, cresce il Paese di Snoq, affiancata dalla campagna di mobilitazione video Un paese per donne: le parole per dirlo, "una rappresentazione corale delle condizioni, delle idee e dei desideri delle donne, dal Sud al Nord". Anche qui infine le donne sono tutte diverse e tutte uguali: come sottolinea Simona De Simoni "C’è la studentessa, la professionista rientrata dall’estero, la vittima di tratta, la casalinga, la manager, l’operaia, la madre, la single", ma "tutte chiedono più lavoro, più riconoscimento, più merito (manco a dirlo), più conciliabilità con gli impegni famigliari. Tutte sognano la stessa vita e lo stesso tipo di realizzazione personale: dividersi equamente e serenamente tra il lavoro e il privato (generalmente nella forma della famiglia)". Sullo sfondo in entrambe le prese di posizione emerge la richiesta del riconoscimento di una "specificità femminile", che per le une "è di genere (le donne partoriscono, gli uomini fecondano) non sociale o culturale o politica" per le altre si materializza nei "temi delle donne" da inserire nell'agenda politica: "a cominciare dalla conciliazione dei tempi casa-lavoro, ai servizi, a una riforma del welfare che non faccia pagare solo alle donne il peso della crisi". Una lettura annichilente (Giorgia Meloni che condanna l'ultima trovata omofoba dei sui "fratelli" di partito meriterebbe discorso a parte, ma rinviamo a un post di qualche anno fa, ancora attuale), che ci da la misura del baratro in cui è sprofondato questo paese, ma anche di quanto sia importante continuare a lavorare, a valorizzare e dare visibilità a punti di vista femministi critici, che fortunatamente non mancano // Il video è la registrazione dell'esibizione di Rosanna Fratello a Canzonissima nel 1971, lo stesso anno della pubblicazione di La donna clitoridea e la donna vaginale nei Libretti Verdi di Carla Lonzi / Rivolta Femminile

sabato 15 dicembre 2012

Il corpo delle donne non esiste

Il corpo delle donne non esiste è il titolo della recensione di Cristina Morini al volume di Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi, Lo schermo del potere (edito da Ombre Corte), di cui vi abbiamo parlato già in diverse circostanze negli ultimi mesi (1, 2, 3 ...). Buona lettura e riflessioni //  " Gilles Deleuze in una delle lezioni tenute a Vincennes, nel 1975, si sofferma a parlare del rapporto tra viso e potere, ovvero del ruolo e della funzione del viso all’interno degli apparati di potere. Un rapporto che, dice Deleuze, può essere letteralmente redditizio e pagante cosicché si farà in modo che vi sia “una produzione di viso” [Gilles Deleuze à Vincennes, n. 10 (sub. Ita), qui]. I poteri, ognuno a proprio modo, necessitano di produrre del viso. Il viso è manifesto, ritratto del potere nelle sue varie espressioni, molteplici e dinamiche: il viso del capo, il viso della diva, il viso della madre, compiutamente “pezzi nell’apparato di potere politico”. Stato, media e pubblicità, famiglia: ciascuno di questi poteri ha bisogno di produrre immagini, “pura ridondanza formale del significante che non potrebbe neppure venire pensata senza una sostanza di espressione particolare per la quale bisogna trovare un nome: viseità” (Gilles Deleuze e Felix Guattari, Millepiani, Capitalismo e schizofrenia, a cura di Massimiliano Guareschi, Castelvecchi, Roma, 2003, pag. 189). Così, il libro di Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi,  Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità (ombre corte, Verona, 2012, pp. 123, € 13) ci butta proprio in mezzo, et voilà!. Catapultate nel cuore di uno dei problemi più appariscenti, interessanti e complessi della contemporaneità: immagini di corpi e visi di donna occhieggiano da tutte le parti, dalle pagine delle riviste o affisse sulle metropolitane e sui muri della città. Immagini che si rincorrono e si confondono sullo schermo televisivo, con ritmo assillante, simulacro degli inventati corpi a cui si ispirano. Nudi graficamente vuoti, neutri, piatti, imprecisati, e che fungono da substrato per le più diverse determinazioni. Iscrizione, nella cultura, del “corpo in quanto tale”, con i suoi volumi, i suoi muscoli, le sue curve, le sue durezze e le sue morbidezze. Derealizzazione che tuttavia esiste, che crea e impone “realtà” e si fa strada e giganteggia attraverso la progressiva dissociazione della nostra vita precaria da ogni corporeità sociale collettiva. Penetra attraverso la solitudine e le molteplici patologie da prestazione o da depressione generate dal nostro lavoro-vita, disperatamente frammentato dai nostri contratti “atipici”, sganciato da ogni obiettivo di sovversione, di lotta comune. Più la lotta scompare, più l’immagine si mostra e si anima. Il segno conclamato della forza contemporanea del biopotere e delle sue bandiere. Produzione di femminilità seriale.La rappresentazione mediatica produce la donna in una ripetizione stereotipata: «I media hanno svolto un ruolo determinate in questo processo, con la produzione di un femminile reificato che si intreccia con la fabbricazione di una posizione spettatoriale chiamata a identificarsi con quell’immagine di sé attraverso ambivalenti processi di oggettivazione e soggettivazione in cui le donne possono proiettare il proprio desiderio» (pag. 25). Stiamo parlando, con un certo corretto distacco, di quel corpo che dovremmo essere noi, che ci raccontano essere noi, imprigionato nel ruolo classico di oggetto erotico, espressione tipica del sessismo della televisione italiana e dell’apparato mediatico. Visuale essenzialmente pornografico, incentrato su un femminile ipersessualizzato che corrisponde perfettamente al fatto che da sempre, storicamente, «la donna è una figura essenzialmente visiva (…) Cioè la donna, come merce e immagine riproducibile, sta al centro (…) dell’economia capitalistica» (pag. 25). E così, è proprio nel compiersi dell’era bioeconomica che ci siamo ritrovate martellate non solo dal dover essere perenne dell’impostura meritocratica dell’era precaria ma contemporaneamente anche dalla proiezione immaginifica di questo nostro dover essere. Staremo bene e saremo belle, calandoci nel personaggio di una mistress del desiderio altrui. Non saremo mai vecchie e perciò saremo anche felici, pulite dentro e belle fuori, espellendo ogni traccia eversiva, con un piccolo suono argentino. Fuori le devianze sessuali, pigrizia (anche intestinale), obesità e punti neri. Fuori le differenze, anche intra-genere, aderiremo sempre più a un’ideologia uniformante, totalitaria e totalizzante che ci vuole donne tutte intere e tutte insieme, intese come un solo corpo che si muove massiccio, un’enorme Cosa rocciosa, con gli stessi identici bisogni, gli stessi desideri, pensieri, dubbi, indeformabile anche perché prova i medesimi brividi, le medesime “indignazioni”. Così si posiziona perfettamente il femminile all’interno dell’economia dei consumi. E così viene messo al lavoro davvero tutto di noi, corpo reale e immaginario, forza vitale e bios, il respiro e il sangue dell’esistenza biologica insieme alla cura di sé che cerca di rispondere alla sua proiezione immaginifica (un dover essere che diventa un voler essere). Aderire perciò, a 360 gradi, alla logica richiesta dall’«economia mercantile e desiderante, con immagini di corpi seriali e serializzati, intercambiabili come quelli prodotti nelle fabbriche« (pag. 25).Effettivamente, tale omogeneità del pensare-agire del corpo-mente delle donne non viene postulata per la categoria degli uomini, almeno non con la medesima intensità e convinzione: la libertà dell'individuo in quanto uomo ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione teorica dello stato civile, della vita civile, ne costituisce uno dei principi a priori. Viceversa, quando si parla di donne, le operazioni come quella di Lorella Zanardo, con il suo documentario Il corpo delle donne o di movimenti come Se non ora quando rischiano di fabbricare per le cittadine di sesso femminile un reale altrettanto uniformante, artificiale e tipico, ossessivo, oltre che inevitabilmente “esclusivo” - bianco, eterosessuale, borghese, sobrio, integrato, addomesticato (pag. 28). È anche in questo modo che si estende la complicanza ingombrante e singolare dell’immagine e della sua materialità, che vive vita propria in quanto “processo di significazione”, che Gribaldo e Zapperi affrontano con grande acutezza. Sottolineano infatti come la questione della rappresentazione deformata delle donne dei programmi televisivi bastati sul voyeurismo e feticizzazione, non possa essere risolta inventando il gruppo contrapposto delle donne vere (le lavoratrici, le madri, le casalinghe) che si battono con campagne, movimenti e partiti contro la “mercificazione del corpo femminile”, a difesa della propria dignità. Non è questa, evidentemente, la lotta comune della quale sentiamo il bisogno nell’oggi. Essa è, semmai, un debole fraintendimento, uno spettro o un’illusione di lotta. Ancora una volta, un’immagine. È un diversivo che si ritrova anch’esso iscritto nel medesimo dispositivo reazionario del quale stiamo parlando, un’altra volta, da capo. Una lotta condizionata, preconfezionata, stucchevole, che non dà fastidio alle strutture profonde del potere poiché di fatto ricade nell’indicazione di un’altra immagine, opposta e «supposta salvifica che tuttavia imprigiona anche essa la donna in un empasse dal quale sembra non esserci possibilità di fuga» (pag. 29). Altrettanto artificiale e non scelta, neutra, estranea, completamente codificata e “segnata” nell’universo delle norme sociali e dei rapporti di potere: il fantasma delle donne reali che riesuma il fantasma delle madri della patria che rievoca il fantasma di una battaglia. Incoerente con le contraddizioni tangibili, che pretende di fondere le donne dentro un’altrettanto umiliante nozione di «autenticità e di unità» (pag. 29). Così si normalizza il femminismo facendone un’opzione fondamentalmente culturale, priva di asperità eversive, di ruvidità antagoniste. Ecco che allora le autrici ci suggeriscono di sottrarci a questa logica binaria e dunque di chiederci: «che cosa vogliono quelle immagini da me?» (pag. 29). Perché in effetti, contrapporre immagini positive e negative «impedisce di formulare il problema in termini politicamente rilevanti, sui modi in cui la “donna” è investita di significato all’interno di discorsi ideologici o di pratiche di dominio prodotte attraverso le immagini» (pag. 30). Il punto è insomma innanzitutto capire che si tratta sempre di un immaginario dove si proietta il desiderio dell’altro ovvero «ciò che immaginiamo di essere per uno sguardo esterno introiettato. Ed è proprio attraverso quello sguardo che i desideri e gli affetti si intrecciano con le norme sociali e i rapporti di potere, in modi che sono spesso conflittuali per il soggetto stesso» (pag. 29). Il corpo e il viso delle donne come territorio di un regime significante, ovvero come riterritorializzazione interna di un sistema. Significante che è pura astrazione e che è puro principio e dunque in realtà non è né buono né cattivo, perché non è proprio nulla. Non esiste, o meglio, esiste la sua immagine che vive di vita propria e si autoalimenta e diventa tutto benché, a bene vedere, non sia proprio niente. Effetto Berlusconi.Per anni questo paese si è cimentato in una prova facile: combattere contro l’immagine del nemico attraverso l’immagine delle donne del nemico, quindi confermando l’idea della femmina-immagine-simbolo del sistema. Il ventennio di Arcore «è stato un laboratorio particolarmente efficace di produzione di immagini che si radicano in una concezione del rapporto tra i sessi come segno primitivo e originario dell’istanza del potere e dunque di ogni rapporto sociale» (pag. 36). Anche questo ci spiega qualcosa della virtualizzazione del conflitto. E, se vogliamo, dell’assenza di contenuti delle anemiche socialdemocrazie contemporanee, incapaci e balbuzienti di fronte al vero padrone finanziario, nel ruolo difettoso dell’opposizione parlamentare. Una specie di game del conflitto, ancora una volta immagine dello scontro, evocazione di una lotta svuotata, che vira sul precetto morale, dentro una presunta divisione valoriale “largamente condivisa” tra bene e male, tra salvezza e perdizione, tra decenza e oscenità. Uno scontro sulle “regole” che se ne frega delle guerre di classe, delle ingiustizie sociali, delle rivendicazioni di mobilità sociale che sottendono il farsi avanti di figure come quella della ragazza-immagine in un moltiplicarsi di organizzazioni sclerotizzate sulle sue caste, di destra e di sinistra. In questo orizzonte anche l’autocoscienza può trasformarsi in una pratica ombelicale. Ovviamente, la rappresentazione delle donne di Arcore, che dallo scoppio del caso verranno definite dalla stampa con un nome collettivo “le Olgettine”, deve essere in linea con il mestiere disgustoso che fanno dunque vanno sottolineati i borsoni, i jeans attillati e tagliati e i tacchi immensi. Viceversa le lacrime sul viso della escort pentita che si confessa in televisione, prostituta per realizzare un sogno del padre, sono la forma visibile di un intimo pudore. Ologrammi ostili per interposta persona, con diverse sfumature, più vicine se ravvedute, più lontane se convinte del proprio ruolo. Tutte identicamente incarnazione del ruolo della viseità che rassicura e conferma il potere e di conseguenza assicura anche il ruolo dei suoi avversari. Ancora oggi, Nicole Minetti e “tutte le altre ritoccate di Arcore” sono l’esempio di questa operazione, descritte come una specie di circo le cui foto puoi guardare per derisione estrema del potente decaduto [qui]. Di fatto la descrizione di «labbra gonfie all’inverosimile, come dopo un cazzotto in piena faccia; zigomi puntuti tipo quadro del Picasso più cubista; decolleté iperprosperoso costretto in camicie monacali, magari sperando di passare per una timida educanda», ci introducono proprio nel contesto ricordato da Beatrice Preciado (Pornotopia. Playboy: architettura e sessualità, Fandango, Roma, 2011), citata nel testo di Gribaldo e Zapperi: «i circhi, i teatri popolari, freak show, music halls, cafè concerts e cabaret (…) esposizioni zoologiche di esseri umani da cui nascono le pratiche del french cancan, della danza esotica, del burlesque americano, della stravaganza, della lap dancing» (pag. 42). Nessuna di queste donne messe alla berlina, sia chiaro, si sottrae alla parte assegnata, ovvero a contribuire alla «costruzione per nulla originale del maschio italiano che acquista nuova legittimità in quanto veicola in mondo non problematico (..) la norma e legge naturale e di genere» (pag. 37). È lui, il maschio dominante, il maschi alfa, virile, che penetra, evocato dalle serate del Bunga Bunga. Ovviamente lo scambio sessuo-economico può avvenire purché ciascuno degli attori, per prime le ragazze, sostenga la propria funzione, complice.Ma lo zoo è comunque una «tecnologia della visione dove lo spazio dell’esposizione è uno spazio che rende impossibile l’incontro, che tiene gli altri al proprio posto». Così, mi pare, questa costruzione rende ancora una volta esplicita, essa funziona per definire precisamente lo stilema normante nel quale ci tengono immerse da ogni lato, nessuno escluso. Evidentemente la norma, al contempo legge naturale e di genere, è stata più che mai rilanciata dal personaggio Berlusconi che separa le sue notti dal discorso istituzionale sulla famiglia «come spazio della naturalità, normale addomesticamento dei sensi (…) dove lo svelamento di un retroscena osceno è paradossalmente funzionale a una sessualità iperconformista. Si tratta di una sessualità ricollocata nella sfera del potere, affermata come antidoto contro ciò che le sfugge: la libertà sessuale delle donne, una sessualità differente (gay, lesbica, queer), una parentela esterna alla famiglia eterosessuale» (pag. 40). Così, guardare le foto, le immagini, l’esempio “evidente” della consigliere Nicole Minetti suggerito dal Fatto Quotidiano cioè dall’organo-manifesto dell’antiberlusconismo («la consigliera regionale della Lombardia ha subito una metamorfosi fisica che è sotto gli occhi di tutti, con risultati tutt’altro che lusinghieri»), ci mantiene esattamente nello stesso schema. Evidente, visibile, osservabile: il viso di Minetti è deforme, è immediatamente esibizionista e alieno, rimanda al capo, all’uomo da disconoscere, dove «la visione è un dispositivo centrale che autentica e convalida le modalità di rappresentazione e le ipotesi teoriche» (pag. 41). All’interno di questo paradigma visualista è ovvio anche che ogni tipo di alterità venga posta come “esotica”, con la conseguente tentazione di catalogare il mondo sulla base di caratteristiche etnico-raziali e dove la differenza è concepita solo come etnicizzazione, con la separazione «tra il selvaggio da una parte e il pubblico civilizzato dall’altra» (pag. 42). Dunque, evidentemente la riflessione sul genere «non può essere sganciata da una critica di produzione di differenza e da una problematicizzazione di questo concetto» (pag. 43). Nel contesto razzista, misogino e omofobo italiano si ripropone sempre questa logica binaria: erotizzazione della differenza oppure la sua inclusione in termini di minoranza, dove la sfera del rappresentabile coincide con l’ammissibile. Cioè, «le differenze sono accettate nella misura in cui sono ricondotte all’alveo a loro assegnato da precisi rapporti di potere» (pag. 43). Affrontare il tema dell’immagine del genere femminile nel presente, tra tv, politica, media e celebrity rappresenta dunque l’occasione per affrontare la questione delle differenze «in un sistema che permette la loro rappresentazione solo nella misura in cui queste sono addomesticate, collezionate e rese produttive» (pag. 44). Ma detto questo, forse andrà aggiunto e sottolineato come il meccanismo si sia talmente portato in avanti da indurre, recentemente, alcuni uomini politici a indossare maschere da maiali durante una festa in Campidoglio. A dire ancora di più della mancanza di presa sul serio del mandato simbolico nel clima post-ideologico dell’epoca berlusconiana, incarnata dalle televisioni commerciali: «Fascismo autoironico, innocua barzelletta, dove nulla può venire riconosciuto e dunque disconosciuto» (pag. 48). Così abbiamo subìto allegramente anche la nostra fase-pop della politica, tra storielle e maiali, elemento carnevalesco esasperato e parossismo grottesco che ha segnato un’epoca. Poi è arrivato Mario Monti a personificare lo spirito dolente, spietato e punitivo, dell’etica del capitalismo di Weber e a rimettere a posto le cose.La merce umana. Ci confrontiamo continuamente con i più svariati tentativi di traduzione della vita in una misura per la sua scambiabilità. Abbiamo più volte citato facebook e i social network come il terreno dove diviene evidente la trasformazione della relazione in commodities (merce fisica) con tutte le ansie psicotiche che questa trasformazione comporta e dove il merchandising di noi stessi passa spesse volte anche e proprio dall’immagine. Nel momento stesso in cui a un’immagine – entità intangibile – viene accordato e corrisposto un valore economico reale (per esempio, per una campagna di advertising su fb un “mi piace” viene valutato un euro circa) essa viene a essere equiparato a una caratteristica fisica del prodotto, a una sostanza tangibile. Ed è così che l’immagine acquista autonomia, mercatizzandosi, con ciò diventando funzionale al potere e violando il principio di realtà, come ricorda Jean Baudrillard (Il sistema degli oggetti, Bompiani, 2003). L’accesso a questo immaginario è interessante per cogliere gli aspetti e i significati di cui l’essere umano tende a vestire il proprio sé di questi tempi, modelli di simulazione a cui cerca di fornire il calore del reale, reinventando il reale come finzione, allucinandolo, derealizzandolo o forse iperrealizzandolo. In questo quadro, è ovvio che possiamo sostenere che l’immagine del corpo delle donne è immagine biopolitica per eccellenza, oggetto d’investimento di consumo e pubblicità, il supporto visivo primario del desiderio mercantile. L’ambito pubblico, il lavoro produttivo, nel biocapitalismo cognitivo valorizza il "femminile" - a patto che questo non sia d'intralcio alla logica del profitto. Tutto ciò che rallenta, ostacola l'ottimizzazione dei tempi e dei costi, tutto ciò che non permette il massimo profitto nel minor tempo possibile, viene negato. Quindi, per cogliere a fondo questo complessivo impero della merce, ovvero la tensione e insostenibilità sempre più drammatica delle vite attuali, è necessario partire proprio dall’esperienza dell’uso dei corpi femminili e dalla crescente difficoltà di rappresentare, nello spazio pubblico, i conflitti di sesso, classe e senso del produrre e riprodurre, che segnano storicamente le vite tutti. Questo tema viene trattato nel capitolo terzo del libro, “Linee di frattura” perché «le trasformazioni delle condizioni lavorative degli ultimi anni intervengono direttamente nelle aspirazioni e nei comportamenti delle giovani donne» (pag. 51). E questi comportamenti sono oggetto della medesima attenzione ideologica, anche qui attraverso una serie di immagini o di stereotipi o di retoriche della normalità femminile che si traducono in un lavoro onesto contrapposto al mestiere della velina, oppure richiami a «metafore materne e nazionali». Ancora una volta, la centralità dell’immagine delle “donne italiane” diviene l’obiettivo essenziale della rappresentanza politica, categoria universale e immutabile (pag. 55) ma senza che si possa approfittare del contesto per fare una serie riflessione su come “la categoria delle donne venga prodotta e frenata proprio dalle stesse strutture di potere mediante le quali dovrebbe ottenere l’emancipazione” (J. Butler, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, Firenze, 2004, pag. 5). Si potrebbe a questo punto ricordare il proverbio popolare citato da Dolores Ibarruri (Memorie di una rivoluzionaria, Editori Riuniti, Roma, 1963): «Madre che cos’è sposarsi? Filare, partorire e piangere». Un modo di dire di un destino, di un sistema di cattura, di una prigionia, che veniva tramandato tra donne, di generazione in generazione. Oggi noi viviamo i tempi dei “Master in Gender Equality and Diversity Management”. Noi viviamo nel mondo dei convegni su “Donne, banche e sviluppo”: «Il mondo cambia? Le donne sono pronte». La costruzione mediatica spinge a puntare sul fattore D. Così, se in passato le donne hanno sostenuto la famiglia e il privato, hanno fatto figli, filato e pianto, oggi il compito loro assegnato è di reggere l’impresa, la banca, lo sviluppo economico del proprio Paese. E i contorni di questa costruzione sono esattamente quelli di cui parlavamo prima: «Alla finzione di un femminile erotizzato e asservito si oppone ora la realtà di donne serie, professioniste e madri di famiglia». Nel pieno del dispiegarsi dell’era precaria e della crisi che prova a lasciarci disadorne di parole e di conflitti, non va negato invece che l’esperienza del lavoro ha intaccato nella carne intere generazioni di donne, e di uomini. E che lo spendersi dei corpi dentro la macelleria della visione sin qui descritta si spiega anche così, con la cattura dell’economico e il prevalere del lavoro su tutto e a cui tutto deve soggiacere. Ricordarlo non è vittimismo, tutt’altro. Facciamo di questo dato la leva da cui partire oggi, una consapevolezza per ribadire la forza della nostra instancabile ricerca di un modo di stare, diversamente, nel mondo. Per una certa parte del femminismo italiano non solo il tema della flessibilità del lavoro è stato lungamente interpretato come un’opportunità, ma sopra ogni cosa si è ritenuto che il lavoro sarebbe stato orientato, reso più gradevole e armonico dalle donne, evitando «forme di alienazione tra lavoro e vita». Lo ricordo perché è importante osservare, viceversa, la progressiva miseria materiale e di senso (la completa alienazione) a cui ci sta costringendo il lavoro precario contemporaneo. E dunque perché ritengo che donne debbano essere le più interessate a sottoporre a un cosciente esame critico radicale la funzione dell’ideologia del lavoro, alla cui costruzione non hanno partecipato, la quale risulta essere uno dei più potenti dispositivi disciplinari e di comando sugli esseri umani tutti. Contro il pensiero unico.E così più che mai, ieri ma anche adesso, “che cosa è una donna”? Questa domanda che risuona tra le pagine di questo libro e che alla fine di questo lungo percorso ci costringe a concentrarci sul «processo di normalizzazione del dissenso e di appiattimento delle differenze» (pag. 95) ovvero a confrontarci con il tema della colonizzazione del nostro desiderio, oltre che della nostra immagine, o meglio a partire dall’occupazione della nostra immagine. Ieri come oggi, nel privato come nel pubblico. Da questo punto di vista è necessario affrontare la problematizzazione della nozione di donna. Dal neo-femminismo noi possiamo trarre la critica a un soggetto unitario e dunque la forza di contrastare le immagini della nostra oppressione. Immagini che sono espressione di ruoli, di incarichi e di compiti che snaturano i nostri discorsi e che rendono impossibili i processi di soggettivazione. E dunque la prostituta e la precaria, la migrante e la trans, la lesbica, la disoccupata, tutte le figure periferiche, pescate dai bassifondi della vittimizzazione femminile, quelle segnalate da Beatriz Preciado nel suo Texto Junke del 2008, secondo le autrici possono, inaspettatamente, mettere più fortemente a critica le tentazioni normative interne al femminismo stesso: donne senza successo, donne tutte diverse che rifiutano un nome e un ruolo, figure dei margini che non soggiacciano agli immaginari imposti, figure che rompono con l’ordine del discorso e che di conseguenza affrontano la necessità di riarticolarlo: il cambiamento può partire proprio dai soggetti che si trovano in una posizione di rifiuto, da una marginalità consapevolmente agìta? Figure impermalenti, che non hanno e neppure cercano l’impossibile stabilizzazione: se l’intera società sembra destinata a fallire, ebbene proprio queste figure sembrano le più attrezzate a reggere l’urto e a superare gli ostacoli. In questa situazione di frammentazione e rifrazione del soggetto e della sua immagine, nonché di spogliazione dell’Io e virtualizzazione delle lotte che cosa fare? Qual è il progetto? Qual è il noi che abbiamo bisogno di costruire e come si fa? Quali i processi di soggettivazione che la pratica femminista può suggerire? Quali le rotture da operare? Sono perplessa, sono sincera, rispetto alla creazione di grandi cartelli e/o fantomatiche alleanze trasversali tra gruppi completamente diversi che danno l’idea, anche qui, di un pensiero unico omnicomprensivo dal quale non si può uscire perché dentro c’è già tutto. In realtà, questi esperimenti mettono solo in fila una serie di singole, piccole e grandi, fragilità e cercano di valorizzare le gerarchie (Vincenza Perilli, La différence sexuelle et les autres, in L’homme et la société, vol. 4, 158, 2005). E concordo perciò con la sintesi proposta da Gribaldo e Zapperi: non si supera la difficoltà del pensiero e della prassi con l’appiattimento «su figure autorevoli e autoritarie, mentre la radicalità di altri femminismi appare stigmatizzata, in forma di caricatura, Queste nuove costellazioni femministe in ci si confrontano posizioni queer, antirazziste e antifasciste esprimono conflittualità e desideri che non sono riconducibili alla retorica di un femminile unificato» (pag. 70). Usare, invece, per orientarci, “la mappa di un femminismo in divenire”, dicono ancora. Il cuore del quale, continuo a pensare, sia la ricerca di autonomia e di spazi per l’autodeterminazione. Autonomia di pensiero, di gestione, di stili, di gusti, di scelte, di governo del tempo. Occupy yourself, fuori dal lavoro, fuori dal capitale. Un femminismo 2.0, mobile e nomade, da riarticolare contro ogni cappa, cosiddetta reale o immaginaria, per costruire contro-discorso. Dunque, in sostanza, fare appello al divenire minore di Deleuze e Guattari: i soggetti che si trovano ai margini si appropriano degli strumenti e delle strategie visive elaborate dalla cultura dominante e le ribaltano. Da un punto di vista minoritario si può immaginare e inventare meglio le forme di resistenza possibili contro la captazione di corpi, immagini, vita. Il punto di vista minoritario rappresenta una posizione chiave per poter rompere il meccanismo con una certa leggerezza, senza rimpianti. Je ne regrette rien. La riduzione progressiva di margini di autonomia e creatività a cui ci sottopone il sistema bioeconomico nella sua folle ingordigia suicida in un crescendo rintronante, la generalizzazione esplicita della precarietà, l’assenza di passione – sentimento che per anni ha corrotto le capacità di reazione, potenziando il meccanismo di dipendenza connesso allo sfruttamento - per quello che siamo costrette a fare in cambio di un salario che non ci ripaga dello sforzo: ecco ciò che ci spingerà a prendere la rincorsa e a fare, finalmente, un grande salto. A questo punto si aprirà il nuovo capitolo della nostra storia. «Nella tensione tra soggettività e immaginario è possibile infatti inventare delle forme discordanti e critiche di identificazione che resistano alla normalizzazione. Un programma di questo tipo dovrebbe partire dal presupposto che i processi che riguardano il genere sono complessi e quindi per natura conflittuali, dolorosi, ma potenzialmente trasformativi» (pag. 110) (Cristina Morini, Il corpo delle donne non esiste, Carmilla on line, dicembre 2012)"//

martedì 27 novembre 2012

Lo schermo del potere al Torino Film Festival

In collaborazione con il Torino Film Festival, il Museo Nazionale del Cinema ospita, mercoledì 28 novembre, alle ore 17.00, nella sala eventi della Bibliomediateca, la presentazione del volume Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità di Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi. Ne discuteranno con le autrici Liliana Ellena e Alina Marazzi // L'immagine, tratta dalla copertina del libro, è - come avevamo già avuto modo di segnalarvi - un'opera di Birgit Jürgenssen, Gladiatorin, 1980

sabato 27 ottobre 2012

Gender Bender / Lo schermo del potere

Nel ricchissimo programma di Gender Bender 2012 - che si è inaugurato oggi con un flash mob in piazza Nettuno - anche la presentazione del volume di Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi Lo schermo del potere (Ombre corte, 2012). Per ulteriori dettagli sulla presentazione - che si terrà il 2 novembre presso la Libreria Ambasciatori - rinviamo alla pagina specifica sul sito del festival. Vi aspettiamo!

mercoledì 19 settembre 2012

Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità

Tra qualche ora sarà finalmente possibile precipitarsi in libreria per accaparrarsi una copia ancora fresca di stampa di Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità, l'ultima fatica di Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi, appena data alle stampe da Ombre Corte. L'immagine di copertina - un' opera del 1980 dell'artista Birgit Jürgenssen, Gladiatorin -, illustra efficacemente la chiave di lettura proposta dal volume sull'intreccio tra genere e cultura visiva: la necessità di cogliere "la complessità dei rapporti di potere che si esprimono attraverso le immagini senza cedere alla nostalgia di un femminile autentico" e guardando i corpi nella loro materialità che è anche "uno spazio attivo di resistenza, di lotta, di azione e di sfida". Poiché mancano alcune ore all'apertura dei negozi, nell'attesa vi proponiamo la lettura della premessa del volume, ringraziando autrici ed editore per la condivisione: "Questo testo è nato dalla necessità comune, teorica e politica insieme, di elaborare una riflessione femminista sull’intreccio tra genere e visualità a partire dal contesto italiano. Il tema dell’immagine femminile si è imposto in termini di emergenza in concomitanza con gli scandali sessuali che hanno accompagnato il declino berlusconiano, fortemente caratterizzato dalla rinnovata visibilità di immaginari e comportamenti sessisti. Il nostro contributo si riaggancia alla radicalità femminista come chiave di lettura del presente, nella possibilità di riconnettere elementi nodali della contemporaneità a partire dal genere. Invece di soffermarci sulla riduzione del genere femminile ad immagine erotizzata e asservita e sul suo rapporto più o meno diretto con la condizione delle donne in Italia, siamo partite da una critica della rappresentazione come ambito sessuato e dalle risposte date dai movimenti legati al femminismo. Si tratta infatti di tematizzare una serie di questioni sollevate dagli scandali, ma che sono state costantemente rimandate a tempi più opportuni, fuori dalla contingenza e da un’emergenza che sembrava richiedere una risposta senza scarti, immediata, compatta, condivisa. Da questo punto di vista la caduta di Berlusconi ha avuto un effetto ulteriore di chiusura nei confronti di posizioni critiche, in un contesto in cui l’unità viene presentata come condizione indispensabile per uscire dalla crisi politica ed economica che sta attraversando l’Italia. La questione della visualità si è affermata esclusivamente nei termini di un problema, poi rapidamente accantonato per dare spazio ad altre tematiche ritenute di maggiore rilevanza politica, con l’effetto di dare per scontato, lasciandolo indiscusso, un campo di analisi decisivo. A fronte dell’emergenza rappresentata dalla crisi economica, i temi relativi al genere sono infatti stati messi da parte come secondari, se non addirittura superflui, mentre il ribaltamento “d’immagine” ai vertici dello stato è stato funzionale al depotenziamento delle istanze più critiche interne al femminismo. Se da una parte è evidente come la produzione del genere funzioni all’interno di una serie di dispositivi di dominio che coinvolgono fortemente il campo visivo, dall’altra il problema identificato con l’immagine femminile è stato percepito nei termini di uno schermo, come qualcosa che blocca la visione, impedendo alla realtà – delle “donne” come categoria, della condizione femminile – di emergere in modo intelligibile. La “dignità delle donne” offesa dai modelli femminili veicolati dai media è stato l’oggetto attorno al quale si è cristallizzata l’attenzione dell’opinione pubblica. È proprio attraverso l’analisi della formazione di questo luogo produttivo di istanze sul genere che è possibile sciogliere ed evidenziare l’intreccio che lo costituisce. Un intreccio estremamente complesso e storicamente determinato, affatto scontato, attraverso il quale è possibile analizzare le modalità dello sguardo che costruisce l’alterità, dove la categoria di genere non può darsi da sola, ma va sempre articolata insieme a quelle di razza, sessualità, classe. La dimensione visiva costringe a confrontarsi con le tematiche dell’origine e dell’autenticità, dell’autorappresentazione, della soggettività, dell’agency.L’immagine del femminile appare dunque come un prisma che rifrange i rapporti tra le generazioni, il razzismo e l’omofobia dilaganti, lo scambio sessuo-economico, le nuove forme del lavoro. Si tratta di nodi attraversati dalla produzione del genere nell’Italia contemporanea, dove il genere emerge come una dimensione strutturalmente più complessa rispetto alla focalizzazione sulla donna e sulla sua immagine degradata. Il visuale è un ambito cruciale per la riflessione femminista a partire da una problematizzazione di questioni che coinvolgono una molteplicità di soggetti che non si identificano necessariamente con la categoria “donna”. L’immagine e le forme di assoggettamento nelle quali quest’ultima è coinvolta sono infatti inscindibili dalle molteplici articolazioni attraverso le quali vengono prodotte le differenze. L’immagine femminile come schermo del potere ha una duplice valenza: da una parte è ciò che nasconde le dinamiche di potere attraverso processi di naturalizzazione e legittimazione, dall’altra rappresenta anche un campo politico di negoziazione e di conflitto, prodotto e sito di produzione insieme. Un femminismo dell’emergenza, che risponde all’insofferenza collettiva nei confronti di rappresentazioni sessiste può solo rigenerarsi attraverso una teoria critica. L’inchiesta teorica e intellettuale non può non intrecciarsi con quella politica: la critica ha un ruolo fondamentale da svolgere in una situazione come quella dell’Italia contemporanea, dove l’esigenza di unità e le larghe convergenze vengono presentate come una necessità per fronteggiare l’emergenza, e dove di conseguenza ogni posizione critica tende ad essere bollata come superflua, se non addirittura dannosa. È necessario infatti superare risposte sostanzialmente difensive che vedono nell’espressione di un ripensamento delle categorie e nella rivendicazione di soggetti “dissonanti”, un mero ostacolo ad una politica condivisa. Teoria e politica non possono essere separate né contrapposte, come se la teoria fosse un elemento che può essere legittimato solo in contesti non “emergenziali”, etichettandolo come prematuro, untimely, fuori luogo: la teoria critica permette di contestare il senso stesso di un tempo legittimo che la esclude sistematicamente (Brown 2005, p. 4). Nel far emergere in modo sempre più evidente un’impossibilità di distinguere tra politico e privato, gli eventi politici italiani e globali danno ragione alle ragioni del femminismo. Se “il tempo è adesso”, non abbiamo bisogno di redenzione per fare posto ad un’immagine di donna integra e dignitosa, quanto piuttosto di reinvenzione. La critica dei processi di naturalizzazione dell’alterità, di cristalizzazione delle identità, di cooptazione di ogni diversità, di criminalizzazione e marginalizzazione del conflitto, di razzializzazione della società, è centrale per una politica femminista. Le tematiche relative alla femminilizzazione del lavoro, nel senso dell’estensione delle caratteristiche storicamente attribuite al lavoro femminile, di cura e riproduttivo a tutta la sfera lavorativa, l’intreccio tra identità, politica e rivendicazioni di posizioni situate, la violenza strutturale di un sistema produttivo, sono diventate snodi centrali a partire dai quali ripensare possibili politiche del comune. Contro la tentazione di mettere da parte posizioni critiche in nome di rivendicazioni focalizzate su un soggetto unitario, una riflessione femminista che faccia proprio il nodo che lega visualità, genere e produzione della differenza permette di cogliere alcuni aspetti cruciali del presente aprendo anche delle possibilità trasformative. Se infatti il campo del visivo è attraversato dai rapporti di dominio, nella sua componente più instabile e mutevole l’immagine può rappresentare anche un’apertura, una possibilità, le cui potenzialità sono nelle nostre mani".

giovedì 20 ottobre 2011

giovedì 29 settembre 2011

L'Unità d'Italia e Salò

Una crociera sul lago di Garda, su di un piroscafo dal nome evocativo, con tappa in quel di Salò. La notizia non si ricava da qualche cronaca del Ventennio, ma è fresca-fresca: l'idea è del Pdl trentino per festeggiare il centocinquantesimo dell'Unità d'Italia. Il tutto è stato organizzato dal senatore Cristiano De Eccher, berlusconiano oggi ma leader nel Triveneto di Avanguardia nazionale quarant'anni fa, buon amico di Delle Chiaie, habitué delle inchieste sull'eversione nera. Per tutti i particolari rinviamo ad un articolo di Andrea Fabozzi su il manifesto

martedì 23 agosto 2011

Dopo Gheddafi : Tripoli, bel suol d'affari

La finanza non è mai stata il nostro forte (e magari neanche di chi ci segue), ma converrete che non è poi difficile capire come mai (a poche ore dall'entrata vittoriosa degli oppositori di Gheddafi nella capitale libica), i mercati internazionali siano in festa, con il prezzo del petrolio calato a 107 dollari a barile e le borse europee chiuse in rialzo. Del resto sembra che tutte le grandi imprese con interessi economici forti in Libia (dall'italianissima Eni, alla francese Total, ai colossi anglosassoni Bp, Shell e ExxonMobil) siano lì a fregarsi le mani in vista della imminente "ricostruzione post-bellica" e delle nuove opportunità di "investimento". Ciononostante, su altri fronti, il dopo-Gheddafi resta comunque incerto, e in questo senso ci è parsa particolarmente interessante l'intervista ad Angelo Del Boca pubblicata oggi, 23 agosto, sull'Unità. Se vi siete persi il cartaceo credo non dovreste avere difficoltà a reperirla in rete, sul sito del quotidiano (ma per il link questa volta autogestitevi. Sorry, ma stasera ho meno tempo del solito).

(Alcuni) articoli correlati in Marginalia:

Muammar Gheddafi e Il leone del deserto
Guerra in Libia ed effetti collaterali
Voci di donne nelle rivolte, uteri per la patria e guerre umanitarie
La squadra di calcio libica sponsorizzata da Eni
E' l'Italia mercenaria che spara sulla folla in Libia
Muammar Gheddafi, Silvio Berlusconi e l'italietta postcoloniale
Eritrea: Voices of Torture
Colonialismo italiano in Libia: dal "leone del deserto" al "colonnello"
L'Italia finanzia la violenza contro le donne migranti
Il ramadan di Berlusconi
Noi non saremo tra le 700 donne ...

mercoledì 1 giugno 2011

Anzi: sììììììììììììììììììììììììììììì. Post brachilogico (che stasera il poco tempo non ci permette di più), ma pensiamo che il senso sia comunque comprensibile alle/ai più. Per tutte/i le/gli altre/i speriamo che funzioni (da qui a una settimana) l'effetto subliminale ;-)

martedì 1 marzo 2011

Il corpo delle donne non è della nazione

Riprendiamo da Staffetta, blog del Nodo Sociale Antifascista, un articolo di Tamar Pitch (originariamente pubblicato da il manifesto), Il corpo delle donne non è della nazione, articolo che, prendendo le mosse dalla manifestazione delle "donne italiane" del 13 febbraio, ricorda l'uso che storicamente tutti i nazionalismi hanno fatto del corpo delle donne (ne avevamo discusso recentemente nel convegno States of Feminism / Matters of States: Gender and the Politics of Exclusion) e si chiede: "È questo impasto indigesto di decoro e maternage ciò che ci aspetta dopo Berlusconi?". Qui di seguito l'articolo. Buona lettura (e riflessioni). "La nazione ha molto a che fare con le donne, ma niente con la loro libertà. Per questo il senso della manifestazione del 13 febbraio, o almeno il senso che sembra esserne stato ricavato in area Pd, è problematico, se non preoccupante. Sia in alcuni interventi precedenti che in molti commenti successivi, donne e Italia, donne e nazione vengono evocate come indissolubilmente legate, così che le donne simboleggiano il vero cuore della nazione (anzi, il suo «corpo»), ciò che la salverà. E del resto che fosse in gioco non soltanto la «dignità delle donne», ma quella della nazione è stato detto esplicitamente più volte. In questo, ahimè, non vi è nulla di nuovo. Tutti i nazionalismi hanno usato e usano questa retorica, compresi naturalmente i fascismi. Non è difficile capire perché. Le donne, i loro corpi, rappresentano e custodiscono la «tradizione», e insieme ne promettono continuità e futuro. Per questo il dominio su di loro e i loro corpi è essenziale, così come, complementarmente, l’esclusione degli «altri» (maschi) dall’accesso a questi corpi stessi. Sessismo e razzismo (e omofobia) non solo vanno insieme ma sono in certo senso presupposti e risultati della nazione. A differenza dello stato moderno, concepito come prodotto artificiale di un patto tra individui razionali a tutela dei loro diritti, la nazione è intesa e vissuta come prodotto storico, se non addirittura naturale (in ragione dei «legami di sangue»), che si pone prima dello stato e da esso deve essere rappresentata e difesa. La nazione non è la somma di individui la cui unica caratteristica è l’essere dotati di ragione. È, in certo senso, il suo esatto contrario, ossia il prodotto organico di relazioni tra soggetti incarnati e storicamente determinati, relazioni basate sulla comunità di lingua, di storia, di tradizione: e di «sangue». Se, dal punto di vista storico, molte nazioni moderne sono piuttosto il prodotto che non il presupposto dello stato, esse vengono invece vissute come ciò che lo legittima. In linea di principio, lo stato è inclusivo: chiunque può aderire al patto. La nazione invece è esclusiva: vi si appartiene per nascita. Lo stato prescinde dai corpi, la nazione ne è costituita. Lo stato non ha un corpo (e non vive, direbbe Brecht, «in una casa con i telefoni»), la nazione invece sì. Quali corpi, quale corpo? I corpi degli uomini, votati al sacrificio supremo per difenderla, i corpi delle donne, da cui dipende il suo futuro. Il Corpo della nazione (basta vedere l’iconografia) è invece esclusivamente femminile, così come, è ovvio, la mente è maschile. Metafore, certo, ma performanti. E pericolose. In primo luogo per la libertà femminile, che si fonda precisamente sulla possibilità e capacità di disporre di sé, della propria sessualità e fertilità. Ora, è proprio questo che è impossibile per la tenuta e la continuità della nazione: il corpo delle donne deve essere soggetto a questi imperativi (tenuta e continuità), e questi imperativi, se possono mutare di contenuto a seconda delle esigenze (fare tanti figli o non farne affatto, per esempio), lo separano dai desideri e dalla volontà della singola, per sottometterlo a quelli di chi decide per il «bene della nazione».
Può capitare, ed è capitato, che si faccia appello alle donne e se ne richieda una sorta di protagonismo per «la salvezza» (o «la dignità») della nazione. Ciò non implica, perlopiù, un effettivo liberarsi delle donne: come si è visto spesso nei casi delle lotte di liberazione nazionale. Finita la mobilitazione, alle donne si impone di nuovo di essere le custodi di ciò che rende la nazione tale, le tradizioni, i legami di sangue, e di piegare i propri desideri , in primo luogo rispetto alla sessualità, in funzione di ciò che la nazione e il suo futuro richiedono. Insomma la nazione, la patria, la comunità, l’identità culturale sono costitutivamente nemiche della libertà femminile. Per la nazione, la patria, ecc., le donne devono essere mogli fedeli e madri degli uomini. Al massimo, madri della patria, cui ricorrere in tempi bui. Ciò che questi soggetti collettivi (nazione, patria, comunità) escludono è la singolarità. Le donne sono un tutto unico e indifferenziato, la cui soggettività è bensì incarnata, ma nel senso che essa è interamente determinata dal corpo, il quale a sua volta è letto in base alle funzioni che gli sono attribuite. Abbiamo criticato lo stato e il diritto moderno, l’idea di libertà e il paradigma politico che vi sono connessi perché si fondano su un soggetto neutro e disincarnato. Tuttavia, se stato e diritto moderni sono pur stati strumenti di emancipazione, la nazione, viceversa, è sempre stato un ostacolo per noi e per la nostra libertà. A ben vedere, ambedue, stato e nazione, poggiano precisamente su quelle dicotomie dominanti nel pensiero europeo che abbiamo cercato di decostruire inaugurando una idea e una pratica della politica diverse: soggetto-oggetto, natura-cultura, mente-corpo. Oggi, almeno in Italia, ci ritroviamo strette tra un’ideologia dominante che definisce la libertà personale come possibilità di scelta (razionale) di una «mente» separata dal corpo, il quale può dunque (e deve) diventare una merce come tutte le altre e un’ideologia confusa (e pericolosa) in cui si mescolano la tendenza a negare la singolarità e a dissolvere le differenze in un tutto indistinto, con il rischio di ricondurre il femminile a una qualche essenza consegnata nel corpo. Un corpo decoroso, beninteso. È questo impasto indigesto di decoro e maternage ciò che ci aspetta dopo Berlusconi?" (Tamar Pitch, Il corpo delle donne non è della nazione, il manifesto), 26 febbraio 2011).

mercoledì 23 febbraio 2011

E' l'Italia mercenaria che spara sulla folla in Libia

Mentre sono circa un migliaio i manifestanti uccisi in Libia, la notizia - rilanciata anche dall'emittente araba Al Jazeera - di mercenari italiani che sparano sulla folla in rivolta, sta rimbalzando nella rete da un sito all'altro, sostenuta dalle testimonianze di alcuni manifestanti (come quello intervistato nel video trasmesso da France 24). Difficile in queste ore caotiche, nelle quali le comunicazioni con l'altra sponda del mediterraneo si fanno sempre più complicate, verificarne l'autenticità. Forse anche questa - come la notizia che vorrebbe mercenari italiani impegnati a bombardare la folla con caccia militari F16 -, è una "bufala" spiegabile con la teoria dei rumours (che, effettivamente, troverebbe terreno più che fertile negli storici rapporti Italia-Libia). In ogni caso, poiché il nostro paese è il maggiore esportatore europeo di armi in Libia (con Finmeccanica ed altre società del gruppo), è anche l'Italia insieme alle milizie di Gheddafi che sta sparando da giorni - seppur indirettamente - sui manifestanti libici. Da qui, forse, il pugno allo stomaco provocato da un video nel quale si vede il logo dell'italianissima Eni sulla giacca di un mercenario che spara sulla folla a Bengasi.

domenica 20 febbraio 2011

Muammar Gheddafi, Silvio Berlusconi e l'italietta postcoloniale

Dall'Algeria alla Tunisia, dall'Egitto allo Yemen le rivolte sull'altra sponda del mediterraneo (scusateci la definizione a questo punto forse impropria), sembrano inarrestabili. Ma la repressione è feroce. In Libia Muammar Gheddafi ha ordinato di sparare sulla folla dei manifestanti e nonostante le notizie incerte e le difficoltà di collegamento (banditi i/le giornalisti/e, problemi con linee telefoniche e internet), sembra che oramai i morti siano oltre un centinaio. Berlusconi ha dichiarato di non aver ancora telefonato a Gheddafi perché "la situazione è in evoluzione" e non vuole "disturbarlo". Per il resto ancora nessuna dichiarazione e presa di distanza ufficiale da questa carneficina da parte del nostro governo. E come potrebbe essere altrimenti? Gli interessi in ballo sono enormi, chiari a chi ha seguito la vicenda del cosiddetto "trattato di amicizia" Italia/Libia (firmato nell'agosto del 2008 da Berlusconi e Gheddafi e ratificato un anno fa) e il consolidarsi dei rapporti e investimenti economici reciproci tra i due paesi. Solo recentemente (mentre sulla stampa imperversava il "caso Ruby") Gheddafi ha acquistato tra le altre cose il 2,01% di Finmeccanica, una quota dell'Eni, altre della Unicredit (diventandone con il 7% il primo azionista) e varie compartecipazioni (Lia, Ansaldo Sts, Agusta Westland, Banca di Roma e Juventus.) D'altro canto Berlusconi (e altre grosse aziende italiane) sono in trattativa per investimenti nei settori delle telecomunicazioni, del gas e del petrolio. Ma oltre il business c'è anche altro: dietro il "trattato d'amicizia", le scuse e il risarcimento per l'occupazione coloniale italiana della Libia c'è, come sappiamo, il patto sciagurato per il "contenimento dell'immigrazione clandestina" verso le nostre coste. Tra respingimenti, torture e stupri nelle carceri libiche non sappiamo quantificare quanto è costata a donne e uomini migranti l'amicizia tra i due leader, amicizia che la stampa mainstream ha sempre tentato di ridurre agli aspetti meramente "folkloristici" (cammelli, tende, donne e bunga-bunga). Difficilmente l'Italia rinuncerà all'"aiuto" del Colonnello (che, crediamo anche per questo, reggerà), aiuto necessario per "controllare" le frontiere esterne (per quelle interne basta il "pacchetto sicurezza" e i Centri di identificazione ed espulsione). Quindi non ci aspettiamo di certo un risolutivo intervento diplomatico del nostro governo (se non qualche frase di circostanza) a condanna dei morti disseminati per le strade di Bengasi, Derna e Shahat (un tempo Cirene), nomi che - per chi non ignora le tragiche vicende del colonialismo italiano in Libia - evocano altre morti, altre stragi. Anche per questo sarebbe auspicabile che al silenzio interessato del governo si contrapponesse qualche forma di sostegno forte e solidarietà concreta da parte delle piazze italiane alla rivolta, pur anomala, in Libia. Ma anche su questo versante ci sembra che a quest'Italia - capace di mobilitazioni oceaniche in nome della dignità offesa , della patria e della famiglia -, poco importi delle sorti di uomini e donne massacrate/i per le strade della Cirenaica. Del resto non ci si indigna neanche per cose che accadono molto più vicino (si dice: "in casa nostra"), come un uomo che si da fuoco per protesta o una donna che subisce un tentativo di stupro in un Cie. Soprattutto se lui si chiama Noureddine Adnane e lei è nigeriana.

sabato 19 febbraio 2011

Antonio Gramsci al festival di Sanremo

Ieri avevamo notato un'impennata veramente considerevole delle "visite" a Marginalia e non riuscivamo a spiegarcene il motivo (non siamo decisamente un blog da grandi numeri). Spinte da malsana curiosità abbiamo controllato le chiavi di ricerca adoperate nei motori da chi ci aveva onorato di contante visite e abbiamo trovato tag del tipo: "il peso della storia", "Gramsci odia gli indifferenti", "il peso morto di Gramsci" ... Ci abbiamo messo poco a capire: una massa di utenti mai vista da queste parti era giunta a noi cercando una lettera di Gramsci del 1917, Indifferenti, lettera che avevamo pubblicato qualche tempo fa con il titolo di L'indifferenza è il peso morto della storia. A questo punto la nostra confusione è stata totale: donde viene, ci chiedevamo, tutto questo improvviso interesse per Antonio Gramsci, intellettuale lasciato marcire in carcere dal fascismo e invero poco amato anche dopo da questa nostra triste, ignorante e indifferente italietta? Saremmo restate a lungo a lambiccarci il cervello se non fosse giunta un'amica amante del trash (e di Gramsci) a svelare l'arcano: il brano in questione è stato letto in diretta al festival di Sanremo da due comici con gigantografia di Antonio Gramsci alle spalle. Non riusciamo a fare nessun commento che sia sensato: dovremmo forse rassegnarci a dire che rispetto al revisionismo incoronato l'anno scorso sul palco dell'Ariston, questo è un bel passo avanti? O forse potremmo commentare acide che meglio sarebbe stato farlo leggere alle due vallette scosciate? Oppure che ... ci asteniamo. Il video è terrificante, comunque se volete potete vederlo su Youtube.

domenica 13 febbraio 2011

Femministe e rivolte in piazza (Tahrir)

Un mese fa, dopo giorni (e notti) di rivolta in tutto il Maghreb, il dittatore tunisino Ben Ali (che - ricordiamolo - aveva conquistato il potere con un golpe 23 anni fa grazie anche al sostegno decisivo del governo italiano) fuggiva da Tunisi. E stanotte, in Egitto, donne, uomini e bambini/e hanno continuato a ballare nella capitale, in piazza Tahrir, sotto i fuochi di artificio, per festeggiare l'abbandono del potere (dopo quasi trent'anni) di un altro dittatore, Hosni Mubarak, il "moderno faraone" con il trono "appiccicoso del sangue del popolo" come scrive Nawal El Saadawi, femminista egiziana, in una sua cronaca dal cuore della rivolta. Ed è questa cronaca che vi invitiamo a leggere (per intanto nella traduzione in inglese di Robin Morgan per il Women's Media Center, nei prossimi giorni speriamo anche nella nostra traduzione in italiano), una cronaca scritta una domenica dei primi di febbraio dalla quasi ottantenne Nawal El Saadawi ( di cui forse alcune/i di voi hanno letto Woman and Islam), che da piazza Tahrir (che in arabo significa liberazione), testimonia e partecipa della/alla rivoluzione egiziana, una rivoluzione che divampa "per le strade di tutte le province, di tutti i villaggi e di tutte le città, da Assuan ad Alessandria, da Suez a Port Said". Descrive donne, uomini, bambini/e, cristiani copti e mulsumani che resistono insieme alla barbarie, ai militari, ai cavalli, ai cammelli, alle molotov, al fuoco e alla morte. Descrive i canti ("molti guidati da donne, con gli uomini che seguono") che rivendicano "libertà, dignità, giustizia" e la fine della tirannide. E noi? Quando saremo capaci di prendere tra le mani la nostra rabbia e cacciare i nostri tiranni? Oggi siamo restate qui a leggere, scrivere, tradurre, con il cuore a piazza Tahrir e lontano dalle piazze italiane: non abbiamo potuto aderire né partecipare - seppur con contenuti "critici" - ad una manifestazione nata da un appello alle "donne italiane", in nome della loro "dignità", della "decenza", della "religione" e della "nazione". Nawal El Saadawi termina la sua cronaca scrivendo: "questo è come un sogno". Qual è il nostro?

(Alcuni) articoli correlati in Marginalia e altrove:

Senza stupore: eccezione e norma ai tempi di Arcore
Non è una questione di donne
Le contraddizioni e il no alla crociata

sabato 5 febbraio 2011

Senza stupore: eccezione e norma ai tempi di Arcore

Invece dal Laboratorio Sguardi Sui Generis riceviamo una riflessione ricca di spunti interessanti sul cosiddetto sexygate berlusconiano, che porta in esergo una frase di Walter Benjamin: "Lo stupore perché le cose che noi viviamo sono 'ancora' possibili nel ventesimo secolo non è filosofico. Non sta all'inizio di alcuna conoscenza, se non di questa: che l'idea di storia da cui deriva non è sostenibile". Rinviamo al sito del Laboratorio per la lettura del testo Senza stupore: eccezione e norma ai tempi di Arcore.


(Alcuni) articoli correlati in Marginalia e altrove:

Prostitute, amanti, protette
Considerazioni sul Rubygate
Barbie e libertà
Comunicato stampa del Comitato per i diritti civili delle prostitute
Bunga bunga, gru, arresti ed espulsioni

Museo di arte delle donne / L'ironia contro gli stereotipi di genere


Un report della tre giorni del Mad a Villa5 dal blog di Minerva Jones (grazie), L'ironia contro gli stereotipi di genere. L'accenno ai fondi irrisori che hanno reso irrealizzabile una struttura permanente mi fa pensare a tutta una serie di riflessioni sviluppate all'interno della pratica/teoria artistica femminista sulla marginalità dell'arte delle donne. Per queste ultime, nei musei come altrove (ogni riferimento alla cosiddetta attualità è intenzionale), l'unico spazio concesso sembra essere quello individuato dalle Guerrilla Girls nella metà degli anni Ottanta. Buona lettura e (amare) riflessioni.