Del volume curato da Paola Guazzo, Ines Rieder e Vincenza Scuderi - R/esistenze lesbiche nell'Europa nazifascista - avevamo già parlato qui in Marginalia in occasione del suo arrivo in libreria lo scorso anno (oltre ad aver partecipato ad una delle sue belle presentazioni/discussioni, ovvero quella organizzata all'interno dell'edizione 2010 del Festival delle Culture antifasciste. Ritorniamo sul volume, brevemente, per segnalare che il primo aprile, alle ore 21, ci sarà una nuova presentazione del libro, organizzata dalla sezione Anpi locale, presso il Centro Sociale Due Pini di Salò (non è un pesce d'aprile) .
mercoledì 30 marzo 2011
R/esistenze a ... Salò
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martedì 29 marzo 2011
In and Out of Sexual Democracies / Fuori e dentro le democrazie sessuali
Il 28 e 29 maggio prossimi, si terrà a Roma il convegno Fuori e dentro le democrazie sessuali, convegno promosso da Facciamo Breccia in collaborazione con Orgogliosamente Lgbtiq. Il convegno intende dare voce alle politiche femministe e Lgbtiq che si confrontano criticamente con il tentativo neoliberista di assimilare le istanze relative a genere e sessualità in chiave razzista e neocolonialista / The conference aims at giving voice to those feminist and Lgbtiq politics that deal critically with neo-liberalist attempts to assimilate the issues of gender and sexuality for racist, nationalist and neo-colonialist purposes. Rinviamo al sito di Facciamo Breccia per il testo integrale di presentazione e il call for paper del convegno, le diverse sezioni e tutte le info utili per partecipare.
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domenica 27 marzo 2011
Nina Simone / Four Women
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venerdì 25 marzo 2011
Almirante, l'altra faccia di un grande italiano
Dopo i tentativi di dedicargli nuove vie e di additarlo ad "esempio da seguire", la prossima settimana si terrà a Trieste, con il patrocinio del comune di quella città, un convegno sulla figura di Giorgio Almirante, dal titolo Almirante, un grande italiano. Riceviamo (e pubblichiamo) il testo con cui le/gli antifasciste/i triestine/i indicono una conferenza stampa per domani, sabato 26 marzo, alle ore 11, presso il Knulp (via Madonna del mare 7/a - Trieste). Ecco il testo : "Con il patrocinio del Comune di Trieste, si terrà lunedì un convegno sulla figura di Giorgio Almirante. Memori dell’opera di Almirante come redattore de “La Difesa della Razza”, del suo ruolo istituzionale nella RSI che lo portò a firmare un bando per la fucilazione di altri Italiani, del suo operato nel corso degli anni della strategia della tensione in Italia, tra cui il finanziamento al terrorista Cicuttini per un’operazione alle corde vocali che rendesse impossibile la perizia fonica dato che lui era stato il telefonista che aveva attirato i carabinieri nella trappola della strage di Peteano (3 morti), noi antifascisti terremo una conferenza stampa con distribuzione di un dossier esplicativo".
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Guerra in Libia ed effetti collaterali : "Due donne arabe uccise per errore"
"Pochissimi incidenti spiacevoli si sono avuti fin qui, mentre pur essi non mancano mai in tempo di guerra. Per debito di cronista ve ne segnalo uno che può dirsi il più grave. E' una inevitabile conseguenza dello stato di guerra da una parte e della grave ignoranza di questa popolazione araba dall'altra. Iersera dunque, una nostra sentinella agli avamposti vide avanzare nell'ombra del crepuscolo un piccolo gruppo di persone vicinissimo al suo posto. Egli diede, come d'obbligo, il chi va là, ma nessuno rispose. Il piccolo gruppo esitò un momento, poi proseguì il suo cammino. Ripetuta l'intimazione non ebbe esito diverso. Il soldato allora sparò alcuni colpi di fucile nella direzione del gruppo. Si udirono alte grida di dolore. Accorsa una pattuglia dei nostri soldati fu dolorosamente constatato che giacevano al suolo i cadaveri di due donne arabe e altre due erano ferite. L'incidente è doloroso, ma a giustificazione della sentinella, oltre al resto, sta anche il fatto che difficilmente nelle ore della sera possono distinguersi le donne indigene dagli uomini i quali portano anche essi, come è noto, un ampio paludamento". [da Ernesto Vassallo, "Due donne arabe uccise per errore", L'Avvenire d'Italia, 19 ottobre 1911, p. 1]
mercoledì 23 marzo 2011
Migrazioni e identità nazionale italiana / Zapruder call for papers
Negli ultimi decenni le migrazioni sono diventate un tema di ricerca centrale in numerose discipline. Studiose e studiosi, spinte/i verso questo tema anche dal contemporaneo massificato movimento di uomini e donne, hanno riformulato gli approcci disciplinari convenzionali, occupandosi di donne migranti, di identificazioni transnazionali, di trasformazioni culturali e sociali. Il numero di Zapruder dedicato a Migrazioni e identità nazionale italiana intende circoscrivere l’oggetto d’analisi a quelle tensioni, conflitti, trasformazioni che sorgono dal rapporto tra migrazioni e costruzione, in diversi contesti temporali, di un’identità (o più identità) nazionale italiana. Il numero è inoltre interessato a un confronto tra processi del passato e del presente, tra approcci storiografici e sociologici in grado di dialogare tra di loro e di riflettere criticamente sui presupposti teorici e categoriali implicati nel tema analizzato. Si sollecitano quindi contributi che problematizzino e discutano categorie come identità, cultura, ‘razza’, etnia, nazione nel contesto dei processi migratori da, verso e attraverso l’Italia. Alcune delle domande che il numero si pone sono: in che modo i movimenti di uomini e di donne sono entrati nei processi di formazione identitaria declinati anche in chiave nazionale? In relazione ai processi migratori del passato e del presente, quali rappresentazioni di nazione, popolo, cultura, ‘razza’, etnia, genere, sessualità diventano il campo di battaglia in cui intervengono diversi progetti e diverse forze sociali e culturali? In che modo donne e uomini migranti ridisegnano confini, processi di inclusione ed esclusione, d’identificazione e di dis-identificazione, meccanismi di accesso alla cittadinanza? Che ruolo hanno avuto l’emigrazione e l’immigrazione nel ridisegnare la mappa delle identificazioni con la città, la nazione, l’Europa e il mondo? Quali legami esistono tra migrazioni e costruzione delle diverse sfumature della ‘bianchezza’ degli italiani? Sono benvenuti interventi che affrontano una o più delle seguenti tematiche: Nazione, genere, sessualità e migrazioni / Fratture dell’idea di identità nazionale in relazione ai processi migratori / Migrazioni e costruzione della ‘bianchezza’ / Italianità, transnazionalità, europeità / Migrazioni interne / “Nuovi italiani” / Politiche del ‘colore’ e politiche di cittadinanza. Gli abstract degli articoli, di max 400 parole, devono provenire alla curatrici (sabrinamarchetti@rocketmail.com e enrica.capussotti@ncl.ac.uk) entro il 1° maggio 2011. Gli articoli completi dovranno poi essere consegnati entro il 31 ottobre 2011. La rivista Zapruder nasce all'interno del progetto Storie in Movimento. Per approfondire si rimanda al sito: www.storieinmovimento.org.
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domenica 20 marzo 2011
"Tripoli bel suol d'amore": la guerra in Libia e il centenario dell'invasione coloniale italiana
La guerra "umanitaria" contro la Libia è cominciata. Era nell'aria da un po' questo profumo di guerra, di petrolio, di interessi delle grandi multinazionali. Era nell'aria da un po' la voglia di gestire direttamente - facendo fuori "l'inaffidabile Gheddafi" - il flusso di risorse e "immigrati clandestini". Dall' alba Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, dopo Bengasi, bombardano Tripoli. L'Italia, come altre nazioni aderenti alla coalizione internazionale, non partecipa "ufficialmente" al raid aereo, ma sappiamo che il cosiddetto "nostro paese", ha messo a disposizione le sue basi (per non parlare delle armi che abbiamo a suo tempo venduto a Gheddafi). E questo a cosa equivale se non ad essere già (coinvolti)in guerra a pieno titolo? Del resto le/i siciliane/i già si sentono da ieri gli aerei volare sulla testa. Colpisce come una mazzata (togliendoci la lucidità per fare riflessioni che andrebbero fatte, su altre "guerre umanitarie" e "guerre senza umanità"), che tutto ciò avvenga nel centenario dell'invasione coloniale in Libia, anniversario offuscato (non ci meraviglia) dai centocinquant'anni dell'Unità d'Italia. Per memoria: fu il 5 ottobre del 1911 che gli italiani, al canto di A Tripoli! e in un tripudio di tricolori sventolanti, sbarcarono sul suolo libico. Il seguito dovremmo ricordarlo: i crimini di guerra italiani, le spietate rappresaglie, come quella all'indomani della sconfitta subita dagli italiani a Sciara Sciat, alle porte di Tripoli, la “caccia all'arabo” che ne seguì tra le vie della capitale con impiccagioni collettive e deportazioni di massa verso l'Italia che durarono almeno fino al 1916. Per non parlare poi, durante la “riconquista” fascista della Libia, delle rappresaglie, delle distruzioni sistematiche, delle deportazioni di massa di civili che causarono, come ricorda Angelo Del Boca, almeno 60 000 morti nella sola Cirenaica, anche bambini/e, dell'impiccagione, tra gli altri, il 16 settembre 1931 – in spregio ad ogni convenzione internazionale – di Omar el Mukhtar. E colpisce - ancora come una mazzata - che questa nuova guerra alla Libia cominci in giorni contraddistinti da un tripudio di bandiere tricolori e inni alla patria e alla nazione. Era nuda, avvolta solo nel tricolore, Alessandra Drudi, in arte Gea della Garisenda, quando, l'otto settembre 1911, si presentò sul palco del teatro Balbo di Torino per scaldare gli animi patriottici in vista dell'invasione della Libia cantando A Tripoli!. La canzone poi divenne famosa con uno dei versi della prima strofa, Tripoli bel suol d'amore e ritornò in voga in epoca fascista, ai tempi della "riconquista" mussoliniana di quelle terre. Il resto lo conosciamo. E queste nuove bandiere di cosa sono presagio?
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Colonialismo italiano in Libia: dal "leone del deserto" al "colonnello"
L'Italia finanzia la violenza contro le donne migranti
Il ramadan di Berlusconi
Noi non saremo tra le 7oo donne ...
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Note sull'Unità d'Italia, la patria, la nazione e il corpo delle donne
Riceviamo e segnaliamo (con il solito ritardo ...), due contributi del laboratorio Sguardi sui Generis, che a partire dalle celebrazioni dei centocinquant'anni dell'Unità d'Italia, offre stimoli di riflessioni su nazione-patria-donne. Il primo contributo è un intervento audio di Liliana Ellena La nazione-patria: decostruzione anziché celebrazione. Una prospettiva di genere. Ilsecondo è una riflessione del Laboratorio, Cosa si celebra insieme all'Unità d'Italia? Note sul 17 marzo. Buon ascolto/lettura.
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Per Faith, condannata a morte dallo stato italiano
La matrice della razza
sabato 19 marzo 2011
Il femminismo è universale? / Le féminisme est-il universel ?
Nella traduzione pubblicata da Sud De-genere riproponiamo l'intervento di Houria Bouteldja (portavoce de Les Indigènes de la République e figura centrale delle Blédardes, autrici del notorio Appel des féministes indigènes) al IV congresso internazionale del femminismo islamico, tenutosi nell'ottobre 2010 a Madrid. Buona lettura (e riflessioni). "Vorrei innanzitutto ringraziare la Junta Islamica Catalana per aver organizzato questo convegno: una vera boccata d’ossigeno in un’Europa ripiegata su sé stessa, scossa da dibattiti xenofobi e che rigetta sempre più l’alterità. Spero che una simile iniziativa potrà avere luogo in Francia. Prima di entrare nel vivo dell’argomento, vorrei presentarmi, poiché credo che un discorso debba sempre essere situato in un contesto. Vivo in Francia, sono figlia di immigrati algerini. Mio padre era un operaio e mia madre una casalinga. Non intervengo in quanto sociologa, ricercatrice o teologa. In altre parole, non sono un’esperta. Sono una militante e mi esprimo a partire da un’esperienza militante, politica e, aggiungerei, dalla mia sensibilità. Faccio tutte queste precisazioni perché vorrei che il mio ragionamento fosse quanto più possibile trasparente. In tutta sincerità, fino ad oggi non avevo mai davvero riflettuto davvero sul quadro di problematiche posto dal femminismo islamico. Allora perché partecipare a questo convegno? Quando sono stata invitata, ho detto chiaramente che non avevo nessuna competenza per parlare di femminismo islamico ma che potevo intervenire sulla nozione di femminismo postcoloniale, una riflessione che a mio avviso dovrebbe essere integrata a quella, generale, sul femminismo islamico. Ed è per questo che vi propongo di considerare alcune questioni che potrebbero risultare utili alla nostra riflessione collettiva.Il femminismo è universale? Qual è il rapporto tra i femminismi bianchi/occidentali e i femminismi del terzo mondo, tra i quali figurano gli islamici? Il femminismo è compatibile con l’islam? Se sì, come legittimarlo? Quali possono essere le sue priorità? Primo quesito: il femminismo è universale? Secondo me, questa è la domanda fondamentale da porsi nel momento in cui si vuole seguire una metodologia postcoloniale e decolonizzare il femminismo. Questa domanda è essenziale, non tanto per la sua risposta ma perché ci obbliga, noi che viviamo in Occidente, a prendere le precauzioni necessarie quando siamo confrontati a società Altre. Prendiamo l’esempio delle cosiddette società occidentali, che hanno assistito all’emergere dei movimenti femministi e da questi sono influenzate. Le donne che hanno lottato contro il patriarcato e per una pari dignità tra uomini e donne hanno ottenuto dei diritti e fatto progredire la condizione delle donne, delle quali io ne sono una beneficiaria. Paragoniamo la situazione di queste donne, quindi noi, con quelle delle società cosiddette «primitive», ad esempio l’Amazzonia. Esistono ancora, qua e là, delle società risparmiate dall’influenza occidentale. Ne approfitto per aprire una parentesi e precisare che non considero nessuna società come primitiva. Penso esistano diversi spazi/tempi sul nostro pianeta, tempistiche differenti, che nessuna civiltà sia in vantaggio o in ritardo rispetto alle altre; non utilizzo il metro del progresso e nemmeno considero quest’ultimo come uno scopo in sé o come un orizzonte politico. O, per dirla in altre parole, non considero necessariamente il progresso come un’evoluzione, ma talvolta, spesso, come regressione. E credo che la questione postcoloniale si applichi ugualmente alla nostra percezione del tempo. Per tornare al nostro argomento, se prendiamo il criterio del semplice «benessere», chi in questa sala può affermare che le donne di queste società (che non conoscono il concetto di femminismo come lo intendiamo noi) siano più infelici delle donne europee, le quali non solo hanno partecipato alle lotte ma hanno fatto sì che anche le loro società beneficiassero di queste inestimabili conquiste? Per quel che mi riguarda, sono assolutamente incapace di rispondere a questa domanda e beato chi potrà farlo. Ma, ancora una volta, la risposta non è importante. È la domanda che conta! Perché ci obbliga ad essere più umili e imbriglia le nostre tendenze imperialiste e i nostri riflessi d’ingerenza. Ci costringe a non considerare le nostre norme come universali e a non cercare di far coincidere a tutti i costi la nostra realtà con quella degli altri. In parole povere, ci obbliga a situarci nella nostra particolarità. Avendo espresso chiaramente questo concetto, mi sento più a mio agio nell’affrontare la seconda questione, relativa ai rapporti tra i femminismi occidentali e quelli del terzo mondo. Rapporti necessariamente complessi; ma una delle loro dimensioni è la dominazione nord/sud. Un approccio postcoloniale deve rimettere in discussione questo rapporto e tentare di rovesciarlo. Un esempio: nel 2007, alcune donne appartenenti al Mouvement des Indigènes de la République hanno partecipato alla marcia annuale dell’8 marzo consacrata alla lotta delle donne. In questo periodo, cominciava la campagna statunitense contro l’Iran. Abbiamo deciso di sfilare dietro uno striscione su cui era scritto: «Nessun femminismo senza anti-imperialismo». Indossavamo tutte delle kefiah palestinesi e diffondevamo un volantino solidale con tre donne irachene, resistenti, fatte prigioniere dagli americani. Al nostro arrivo, le organizzatrici del corteo ufficiale hanno iniziato a scandire degli slogan di solidarietà con le donne iraniane. Questi slogan, in un contesto di offensiva ideologica contro l’Iran, ci hanno profondamente scioccato. Perché le iraniane, le algerine, e non le palestinesi o le irachene? Perché queste scelte selettive? Per contrastare questi slogan, abbiamo deciso di esprimere la nostra solidarietà non verso le donne del terzo mondo ma bensì verso le occidentali. Così, abbiamo iniziato a gridare: Solidarietà con le svedesi! Solidarietà con le italiane! Solidarietà con le tedesche! Solidarietà con le inglesi! Solidarietà con le francesi! Solidarietà con le americane! Questo voleva significare: perché solo voi, donne bianche, avete il privilegio della solidarietà? Anche voi venite picchiate, stuprate, anche voi subite le violenze maschili, anche voi siete sottopagate, disprezzate, anche i vostri corpi sono strumentalizzati… Posso assicurarvi che ci hanno guardato come se fossimo delle extraterrestri. Ciò che dicevamo pareva loro surreale, inconcepibile. Non è stato tanto il ricordare la loro condizione di donne in occidente a turbarle. Era piuttosto il fatto che delle donne africane e arabo-musulmane osassero rovesciare simbolicamente un rapporto di dominazione e si ergessero a madrine. In altre parole, con questa piroetta retorica stavamo dimostrando loro che avevano, di fatto, uno status superiore al nostro. Ci siamo molto divertite di fronte alle loro facce spaesate! Un altro esempio. Un’amica mi raccontava, al suo ritorno da un viaggio di solidarietà in Palestina, di donne francesi che abbordavano delle palestinesi per chiedere loro se utilizzassero dei metodi contraccettivi per controllare le gravidanze. Secondo la mia amica, le palestinesi non comprendevano nemmeno che si potesse porre loro una domanda del genere poiché la questione demografica è estremamente importante in Palestina. La loro prospettiva è completamente diversa. Per molte donne palestinesi, fare dei bambini è un atto di resistenza di fronte alla pulizia etnica israeliana. Ecco qui due esempi per illustrare la nostra condizione di donne razzializzate, comprenderne le problematiche e progettare un percorso per combattere il femminismo coloniale ed eurocentrico. Continuando sulla scia di questo ragionamento, l’islam è compatibile col femminismo? Trovo che questa domanda sia una pura e semplice provocazione. Non la sopporto. Se ora la pongo, è perché mi metto nei panni di un giornalista francese che crede di fare una domanda pertinentissima. Per quel che mi riguarda, rifiuto di rispondere per principio. Da un lato, perché parte da una posizione arrogante. Il/la rappresentante di una civiltà X intima il/la rappresentante di una società Y di provare qualcosa. Y è così messa sul banco degli imputati e deve fornire le prove della sua «modernità», giustificarsi per piacere a X. E dall’altro lato, perché la risposta non è affatto semplice, sapendo come il mondo islamico non sia un monolite. Il dibattito può così allungarsi all’infinito ed è per l’appunto quello che succede quando si fa l’errore di tentare di rispondere. Io taglio corto facendo la domanda seguente: La Repubblica francese è compatibile col femminismo? Posso assicurarvi che la vittoria ideologica risiede nella risposta a questa domanda. In Francia, una donna ogni tre giorni muore di violenze coniugali. Stimiamo in 48.000 gli stupri ogni anno. Le donne sono sottopagate. Le pensioni delle donne sono ampiamente inferiori a quelle degli uomini. Il potere politico, economico, simbolico, resta principalmente nelle mani degli uomini. Certo, a partire dagli anni 60/70, gli uomini partecipano di più alle faccende domestiche: statisticamente, 3 minuti in più in 30 anni!! Quindi faccio nuovamente la mia domanda: c’è compatibilità tra la Repubblica francese e il femminismo? Saremmo tentati di rispondere: no! Infatti la risposta non è né sì né no. Sono le donne francesi ad aver liberato le donne francesi ed è grazie a loro se la Repubblica è meno machista di prima. Ed è la stessa cosa per ciò che riguarda i paesi arabo-musulmani, asiatici o africani. Né più né meno. Con tuttavia una sfida in più: consolidare, nella lotta delle donne, la dimensione postcoloniale e la critica della modernità e dell’eurocentrismo. E come legittimare il femminismo islamico? Per quel che mi riguarda, si legittima a priori e non a posteriori. Non c’è un esame di femminismo da superare. Il semplice fatto che delle donne musulmane se ne approprino per rivendicare i loro diritti e la loro dignità basta per una piena riconoscenza. E conoscendo bene donne del Maghreb o immigrate, so perfettamente che la «donnasottomessa» non esiste. È stata inventata. Conosco delle donne dominate. Sottomesse, molte meno! Desidero concludere su quelle che, secondo me, dovrebbero essere le priorità del femminismo postcoloniale. Avete tutti sentito parlare di Amina Wadud e del suo impegno nell’elaborazione di un femminismo islamico. Si è resa celebre il giorno in cui ha guidato la preghiera, ruolo che normalmente spetta agli uomini. In assoluto, fuori contesto, direi che potremmo pensare di trovarci di fronte a un atto rivoluzionario. Ora, nel contesto internazionale, in seguito alla rivoluzione iraniana e soprattutto dopo l’11 settembre (islamofobia, ingiunzione alla modernizzazione dell’islam…) è un messaggio ben più ambiguo quello che è stato diffuso attraverso questo atto. Rispondeva a una rivendicazione forte, a un’urgenza, a un’attesa fondamentale delle donne dell’Umma? O piuttosto ad un’attesa del mondo bianco? Permettetemi di propendere per la seconda ipotesi. Non perché non ci siano delle donne che trovino ingiusto il fatto che solo gli uomini possano dirigere la preghiera, ma perché le priorità e le urgenze delle donne sono altrove. Che cosa vogliono le afgane, le irachene o le palestinesi? La pace, la fine della guerra e dell’occupazione, la ricostruzione delle loro infrastrutture, dei quadri legali che assicurino loro protezione e diritti, mangiare e bere a sazietà, nutrire ed educare i loro bambini in buone condizioni. Che cosa vogliono le donne musulmane d’Europa e, più in generale, quelle provenienti dall’immigrazione, che vivono per la maggior parte in quartieri popolari? Un lavoro, un tetto, dei diritti che le proteggano tanto contro gli abusi dello Stato che contro le violenze maschili. Esigono il rispetto per la loro religione, per la loro cultura. Perché tutte queste rivendicazioni sono ignorate? Perché l’atto di dirigere la preghiera ha fatto il giro del pianeta quando cristianesimo e giudaismo non si sono mai distinti per la loro intransigente difesa dell’uguaglianza dei sessi? Io credo, per chiudere con quest’esempio, che l’atto di Amina Wadud è esattamente il contrario di ciò che pretende di essere. Nei fatti e indipendentemente dalla volontà propria di questa teologa, è per me un atto controproduttivo. Non potrà avere carattere femminista che quando l’islam sarà trattato in modo egalitario e quando la rivendicazione di guidare la preghiera verrà realmente dalle donne musulmane. È tempo di vedere le musulmane e i musulmani come sono, e non come desidereremmo che fossero. Termino qui, sperando di aver tracciato qualche pista per un vero femminismo postcoloniale al servizio delle donne, di tutte le donne, nel momento in cui queste giudichino che lì si trovi la via che porta alla loro emancipazione". [Houria Bouteldja, traduzione di Luna De Bartolo]
Annassîm nel paese delle donne
Con un po' di ritardo (ma non potete immaginare quante cose da pubblicare abbiamo ancora nella nostra "lista d'attesa" ...) vi segnaliamo, sul sito de Il Paese delle donne, il report della giornata No hagra! No tirannia! organizzata da Annassîm. Donne native e migranti delle due sponde del mediterraneo, lo scorso otto marzo. L'urgenza di continuare a riflettere su quanto sta succedendo nei paesi a sud del mediterraneo, sul ruolo delle donne nelle rivolte in corso, così come sugli interessi e responsabilità che ha anche il nostro paese sulla situazione in Medio Oriente e Nord Africa, si fa sempre più urgente. Soprattutto allarmante è il quadro che si sta delineando in Libia, con un intervento militare che sembra imminente (rinviamo ad alcuni dei materiali/iniziative che ci sono state segnalate nelle ultime ore, dall'appello di Angelo del Boca e altri, al comunicato Nessuna complicità con l'intervento militare, alle cronache dalla Libia di Fortress Europe).
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Clara Zetkin e l'otto marzo
Promettiamo che questo è l'ultimo post che dedichiamo a l'otto marzo nel 2011, ma un omaggio a Zektin ci sembra doveroso. Perché non c'è verso. Anche quest'anno, con qualche aggiustamento, è la versione dell'origine della "festa della donna" come commemorazione dell'incendio di una fabbrica in cui morirono un centinaio di operaie, che ha prevalso. Insomma, in un modo o nell'altro sembra che la storia dell'otto marzo debba essere necessariamente associata a delle donne "vittime" e non ad un gruppo di donne in lotta. Tra queste appunto la rivoluzionaria socialista Clara Zetkin -, che durante la Conferenza Internazionale del lavoro delle donne a Copenaghen nel 1910 propone di indire per l'anno successivo, una Giornata internazionale della donna. Siamo tornate così tante volte, negli anni scorsi, su questa storia (rinviamo agli "articoli correlati" in coda a questo post), che ci poniamo seriamente il problema se valga la pena di continuare a dannarsi per trovare il tempo di scrivere (a sonno perso) in un blog. Blog che, a quanto pare, ci leggiamo "entre nous". Un grazie quindi alla Biblioteca Franco Serantini che quest'anno ha ripreso la nostra traduzione di 8 marzo: il mito delle origini.
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giovedì 17 marzo 2011
Per carità di patria: uomini e donne, presenze e assenze, dell'epoca risorgimentale
Poiché il nostro Il colore della donne meridionali e l'unità d'Italia, poteva risultare - nell'impeto allergico provocato dall'insopportabile paccottiglia celebrativa dell'unità d'Italia -, semplificatorio (soprattutto a chi non ha il quadro di quanto in altre occasioni abbiamo meglio specificato), rinviamo via Incidenze al testo che annuncia il dibattito "Per carità di patria", che si terrà questo pomeriggio a partire dalle 15.30 all'Istituto storico Parri (via S. Isaia, 20 - Bologna) : "Il Risorgimento italiano fu una rivoluzione borghese e come tale si servì dei ceti popolari strumentalizzandoli al fine di rovesciare il dominio dell’aristocrazia. Ne fu una prova irrefutabile la diffidenza della maggioranza dei patrioti verso i contadini, giudicati arretrati e sanfedisti, nemici del progresso e della civiltà, minaccia alla proprietà privata.L’Italia del 1861 pertanto fu un’Italia senza consenso popolare e base di massa.Il Risorgimento italiano realizzò l’unità, ma non trasformò la società italiana. Accanto ai nuovi ceti dirigenti imbevuti di idealità romantico-rivoluzionarie, consolidarono il loro potere i ceti più retrivi del paese, come i grandi latifondisti che, in cambio del sostegno ai nuovi padroni, pretesero la conservazione dei propri privilegi e del proprio dominio sulle masse contadine. Ben presto le speranze di un rapido progresso economico e di una ritrovata solidarietà sociale dovettero cedere il passo ad amare disillusioni. Il Risorgimento italiano, nonostante i suoi limiti e le sue contraddizioni, tracciò gli orizzonti valoriali ad un popolo diviso e sottomesso da secoli, senza fiducia e coscienza di sé. Questa riserva di idealità può rappresentare ancor oggi una risorsa morale per le difficoltà e le ingiustizie del presente".
martedì 15 marzo 2011
Il colore delle donne meridionali e l'unità d'Italia
Oltre all' allergia alle mimose rivendichiamo, come noto, anche quella a "Dio, patria e famiglia". E questa primavera - dopo il presagio dell'otto marzo delle donne italiane tutto fiocchi rosa e uteri per la patria - si delinea, per noi, sempre più spiacevole e desolante grazie all'ondata inarrestabile delle celebrazioni per i 150 anni dell'unità d'Italia. Dopo le mimose ora è tutto un fiorire di discorsi sulla nazione e l'italianità, tutto uno sventolare di bandiere tricolori, di vetrine colme di "edizioni speciali anniversario", faccette di garibaldi-l'eroe-dei-due-mondi e Cavour (Camillo Benso, bien sûr) che ci osservano un po' accigliati da scatolette di mentine e biscotti, bottiglie di vino, calzini e mutande. A dimostrazione che nulla (gesto, parola, cosa ...) è "casuale" nell'odierna società dello spettacolo, nella paccottiglia del business celebrativo c'è anche la carrozzina-bandiera (verde, bianca e rossa - ovvio) per portare a spasso, immaginiamo, gli attesi frutti degli uteri per la patria, i piccole/i italiane/i doc (degli altri ... chissenefrega). Una cacofonia insopportabile, al ritmo dell'inno di Mameli. Per consolarci (e sentirci meno sole) a sera rileggiamo, prima di addormentarci, Alberto Maria Banti che distrugge l'osannato discorso del neo-nazionalista Benigni a Sanremo, andiamo a lavorare all'alba canticchiando la versione in rosa dell'inno e sputiamo anche noi (correndo il rischio della semplificazione) "su Hegel, su Garibaldi, sull’unità d’Italia" insieme a chi, di questa benedetta unità, sottolinea anche gli aspetti meno "gloriosi", lo sfruttamento e i massacri di una vera e propria "impresa coloniale" del "nord" contro il "sud" (lo ricordavamo anche in Miti e smemoratezze del passato coloniale italiano). Di questo passato restano ancor oggi delle scorie, anche tra "donne" (le "donne italiane" del famoso appello per il 13 febbraio). Un frammento curioso che vi lasciamo senza commenti, è una lettera (firmata) di una "donna di Napoli" residente da più di dieci anni in una città del centro nord "dove sono nati e cresciuti i miei quattro figli". La lettera, che vi trascriviamo, è stata pubblicata dal quotidiano La Repubblica proprio l'8 marzo di quest'anno: "Ero in un negozio e mentre misuravo un capo, una madre consigliava alla figlia quale vestito scegliere: 'questo ti sta bene', 'questo no', 'questo è fine' e infine 'questo è bello, ma ha un colore da meridionale. Mi sono affacciata per guardare la 'signora' ma ero cosi indignata da non riuscire a pronunciare una parola. Dopo qualche minuto mi sono avvicinata con un sorriso e, precisandole di essere napoletana, le ho chiesto di indicarmi qual era il vestito con i colori da meridionale. Lei, con lo stesso sorriso nel dirmi che non era una affermazione offensiva perché aveva origini calabresi, mi accompagnava allo stand e, nel non trovarlo, commentava che era talmente bello che l'aveva già preso qualcun altro. Certo, ho detto, bello ma col colore da meridionale".
domenica 13 marzo 2011
No all'islamofobia in nome del femminismo / Islamophobie au nom du féminisme : non !
Marine Le Pen - alla quale lo scorso gennaio suo padre, Jean-Marie Le Pen, ha lasciato la presidenza del Front National, il partito di estrema destra francese -, sembra confermare in maniera sinistra il proverbio "buon sangue non mente" ed insieme la capacità della destra di modificarsi per meglio adattarsi ai tempi. La frase con la quale Marine Le Pen paragonava, in un discorso tenuto a Lyon il 10 dicembre 2010, la presenza di musulmani raccolti in preghiera sulle vie pubbliche in Francia all'occupazione nazista durante la II guerra mondiale, segnava una mutazione rispetto all'affermazione paterna di qualche anno prima in cui si giudicava l'occupazione nazista "pas si inhumaine que cela". La destra lepeniana sembra abbandonare l'eredità del collaborazionismo: il riferimento all'"occupazione" cambia di segno, se non per condannare l'occupazione nazista sicuramente per meglio stigmatizzare l'Islam. Rivelatrice un'altra frase pronunciata da Le Pen figlia nello stesso discorso: "Dans certains quartiers, il ne fait pas bon être femme, ni homosexuel, ni juif, ni même français ou blanc" ("In certi quartieri, non è bene essere donna, nè omosessuale, nè ebreo, come anche francese o bianco", dove per "certi quartieri" si intendono le banlieues, abitate per la maggior parte da una popolazione proletaria "non bianca"). In un articolo su Libération dal titolo Pourquoi Marine Le Pen défend les femmes, les gays, les juifs…, Eric Fassin inseriva la frase di Marine Le Pen in quella "nuova virtù democratica dei populisti di destra e d'estrema destra" che si scoprono femministi, filosemiti e gay-friendly per poter tracciare una frontiera razzializzata all'inerno della nazione tra "noi" e "loro" in nome dell'uguaglianza e della libertà dei sessi, dando un tocco di modernità alle retoriche tradizionali dei partiti di destra/estrema destra. Un tema questo, che abbiamo più volte dibattuto e che riteniamo cruciale. Per chi è attualmente parigina/a ed è interessata/o al tema segnaliamo che domenica prossima, 20 marzo, a Parigi (dalle 15 e 30 alla Maison des Associations du Xème, 206 quai de Valmy, métro Jaurès) Les Indivisibles, Les Mots Sont Importants, Les Panthères roses e Les TumulTueuses organizzano un dibattito dal titolo "Islamophobie au nom du féminisme : NON !", con la partecipazione, tra le/glia altre/i, di Jessica Dorrance dell’associazione LesMigraS di Berlino. Per chi non può essere a Parigi (e non è neanche francofona/o) traduciamo al volo il documento di indizione della giornata: "Noi, femministe, denunciamo l'utilizzazione delle lotte femministe e lgbt a fini razzisti e precisamente islamofobi. Marine Le Pen ha recentemente utilizzato la difesa degli omosessuali per meglio propagare il razzismo. E' ugualmente in nome delle donne che i nostri dirigenti e media mainstream hanno fino alla fine sostenuto un tiranno come Ben Ali, presentato come il protettore dei/delle tunisini/e contro un patriarcato necessariamente islamista. Infine l'indegno dibattito sul niqab, in occasione del quale dei parlamentari uomini, fino a quel momento completamente indifferenti alla causa femminista, si sono improvvisamente eretti in difensori dell'uguaglianza uomini/donne. Adesso basta! Condanniamo il razzismo e rifiutiamo che colpisca in nostro nome! Costruiamo degli strumenti, delle risposte femministe per disinnescare queste "evidenze" insopportabili - musulmano=islamista=estremista=minaccia per le donne e le minoranze sessuali - che già si annunciano come le vedette dei prossimi scambi elettorali. E' più che mai necessario ricordare che numerosiedonne straniere o francesi vivono il razzismo, il sessismo e un sessismo razzista. Decolonizziamo le lotte femministe e lgbt! Non lasciamo le femministe bianche dare lezioni alle altre! Fermiamo quelle e quelli che si alleano a delle iniziative politiche e dei discorsi razzisti, compresi quelli portati avanti sotto delle bandiere (pseudo)femministe e 'gay-friendly'!" (traduzione di Vincenza Perilli per Marginalia)
Per il testo in francese cliccare qui ;-)
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giovedì 10 marzo 2011
"Il sangue delle donne uccise nella rivolta è ancora fresco e già ci stanno tradendo"
Nella frase di Nawal El Sadaawi (tratta da un articolo pubblicato da The New Yorker) è tragicamente riassunto quanto sta avvenendo in questi ultimi giorni in Egitto e la delusione e la rabbia di chi, come Nawal El Sadaawi stessa, vedevano nella rivoluzione scoppiata in gennaio "un sogno". Le donne, dall'inizio in prima fila nelle rivolte, vedono ora disattese in maniera brutale quelle che erano state le loro rivendicazioni, ovvero uguaglianza dei sessi, ruolo non subordinato della donna nella vita politica e civile, una legislazione e una costituzione che garantiscano libertà e diritti per tutte/i le/i cittadini, senza differenza di sesso, origini, credo religioso. Durante la manifestazione in piazza Tahrir dell'altro ieri, otto marzo, organizzata (come vi avevamo segnalato), da attiviste e attivisti per denunciare il rischio che il nuovo assetto politico-militare si traducesse in un rafforzamento del dominio patriarcale, vi è stata una contro-manifestazione di un nutrito drappello di uomini. Questi hanno attaccato le/i manifestanti, strappato manifesti e striscioni, malmenato e molestato alcune donne e urlato slogan quali "La rivoluzione non sarà laica!", Non ci sarà mai in Egitto un presidente donna!" e "Rientrate a casa a far da mangiare!", oltre al classico "Qualunque cosa accada continueremo a scoparvi". Forse non si poteva immaginare una tale violenza, fisica e verbale, ma segnali preoccupanti erano stati colti da tempo, come è emerso anche nei collegamenti in diretta con attiviste egiziane dal Cairo e da alcuni interventi in sala durante la giornata No Hagra! No tirannia!. In particolare Francesca Biancani ha sottolineato come dagli emendamenti proposti dalla nuova coalizione costituitasi in Egitto dopo la rivoluzione (e per approfondimenti rinviamo al sito - in inglese/arabo - dell'Egyptian Center of Women's Rights), emerge un' esclusione di fatto sia delle donne come dei/delle "non-egiziani" (e dei/delle non eterosessuali). Il nuovo presidente infatti, dovrà essere " nato da due genitori egiziani e non potrà sposare che una donna egiziana".
lunedì 7 marzo 2011
Otto marzo: ancora donne in rivolta a piazza Tahrir
Scrivevamo giorni fa che, quale ne sia l'esito (che di ora in ora diventa più incerto), le rivolte nei paesi a sud del mediterraneo non solo hanno incrinato i cosiddetti equilibri postcoloniali, ma hanno anche infranto l'immagine della "donna araba" made in occidente: velata, silenziosa e irrimediabilmente oppressa. Di queste donne - dal Marocco alla Tunisia, dall'Egitto allo Yemen -, ci sono giunte invece parole, gesti, volti in rivolta. Tra queste le donne egiziane (e rinviamo ad una bellissima galleria fotografica, un omaggio dedicato a queste donne da Leil-Zahra Mortada, attivista femminista queer) dagli entusiasmanti giorni di piazza Tahrir in prima fila nelle rivolte. Domani, otto marzo, torneranno in quella piazza (che come vi dicevamo in arabo significa liberazione) con una grande manifestazione per denunciare il nuovo governo di aver dimenticato il ruolo svolto dalle donne nella rivolta e nella caduta di Mubarak e di mantenere un assetto politico-militare che rischia di rafforzare il dominio patriarcale. Le partigiane italiane nel dopo-Resistenza avevano denunciato un meccanismo molto simile. Queste righe di solidarietà femminista transnazionale sono una sorta di messaggio in bottiglia verso l'altra sponda del mediterraneo che sentiamo sempre più vicina.
(Alcuni) articoli correlati in Marginalia:
Dal Medio Oriente al Nordafica fino all'Italia: un otto marzo senza fiocchi rosa!
In ricordo di Umm Kulthum
Voci di donne dalle rivolte e uteri per la patria
Muammar Gheddafi, Silvio Berlusconi e l'italietta postcoloniale
Femministe e rivolte (in piazza Tahrir)
L'Italia finanzia le violenze contro le donne migranti
Noi non saremo tra le 700 donne che incontreranno Muammar Gheddafi
sabato 5 marzo 2011
Femminismo latino (frammenti per una memoria critica femminista)
"Olga Modigliani, al pari di molte donne borghesi istruite [...], era un ottimo esempio della nuova sintesi politica che nell'Italia degli anni trenta andava sotto il nome di femminismo 'latino', 'nazionale' o 'puro'. Erano questi i termini adottati da donne un tempo attive nei movimenti emancipazionisti, nel tentativo di riconciliare fascismo e femminismo . Il loro femminismo era 'puro' in quanto non contaminato dall'esasperato livellamento del riformismo socialista, né dallo stridente individualismo del movimento per la parità dei diritti anglo-americano. Era 'latino' perché sosteneva comportamenti considerati peculiari alla femminilità italiana: la devozione alla famiglia, l'attaccamento alla tradizione, il rispetto per la razza. Era 'nazionale' in quanto riconosceva la necessità di subordinare le aspirazioni delle donne ai più alti interessi dello Stato e del popolo italiano. Cosa vi fosse di femminista nel femminismo latino era decisamente più problematico.[...]. In fondo quello che abbiamo chiamata la nuova sintesi del femminismo latino era il tentativo di conciliare due tradizioni politiche decisamente antagonistiche: l'una, l'eredità emancipazionista del movimento delle donne dell'Italia di inizio secolo, l'altra, la politica di massa del fascismo [...]. Le femministe borghesi [...] con la speranza che il fascismo avrebbe permesso alle loro iniziative caritative di sopravvivere e magari di prosperare [...], ridefinirono la posizione dei propri gruppi nei riguardi dello Stato. Presero le distanze dal movimento internazionale delle donne [...], riscrissero la propria storia condannando il 'vecchio' femminismo per l'inconcludente strepitare e l'incapacità di comprendere la vera natura della donna italiana, della famiglia, della nazione, della razza [...]. Le donne si univano ai reticoli solidaristici del proprio genere per promuovere quelle che consideravano le migliori virtù della femminilità italiana [...].Per molte l''Italia nuova' era motivo di orgoglio patriottico [...], la dittatura sfruttava questa identificazione emotiva con la nazione-Stato trasformandola in uno sciovinismo militaristico che si pretendeva giustificato e virtuoso, e che poteva legittimare qualsiasi sacrificio [...]. In questo senso, il femminismo latino era il discorso e la pratica di un movimento politicamente subalterno [...]. La complessa storia dell'adeguamento del femminismo italiano al fascismo non è priva di collegamenti con quella che Nancy Cott, in una convincente generalizzazione fondata sull'analisi dell'esperienza delle femministe americane dopo la prima guerra mondiale, ha individuato come 'un più diffuso processo di cancellazione della memoria, attraverso il quale il femminismo fu assimilato selettivamente e represso' [...]. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, il femminismo storico era stato cancellato persino dalla memoria, e la politica delle donne nel fascismo era di estrema subordinazione. Nel novembre 1938, le ultime organizzazioni sopravvissute che avevano cercato di conciliare femminismo e fascismo furono sciolte, e le aderenti di origine ebraica con le leggi razziali, bandite da qualsiasi attività pubblica. Tra queste ultime c'era Olga Modigliani, costretta all'esilio. Nel nome del duce, della nazione e di una spuria solidarietà di classe, i fasci femminili rinunciarono a sostenere la solidarietà tra donne. Nel dicembre 1938, Rachele Ferrari del Latte proponeva che le militanti si dedicassero, 'con la loro esperta competenza, con la loro limpida onestà, con la loro seria dirittura', a un pesante problema nazionale: trovar lavoro alle domestiche che erano state costrette ad abbandonare il servizio presso le case ebree, secondo quanto imposto dalle leggi razziali. Le donne fasciste avrebbero dovuto darsi alla missione con zelo, convinte che 'in un prossimo avvenire le nostre domestiche si renderanno personalmente conto della grande ventura loro toccata di aver potuto sottrarsi all'influenza, all'insidia, al predominio dell'avida razza ebraica per crescere da italiane e da cristiane in una casa dove si pensa, si crede, si lavora e si vive con animo italiano'."[da Victoria de Grazia, La donna nel regime fascista, Marsilio 1993 (ed. or. inglese 1992), frammenti dalle pp. 313, 314, 315, 316 e 356].
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Dal Medio Oriente al Nordafrica fino all'Italia: un otto marzo di lotta e rivolta senza fiocchi rosa!
Chi segue da un po' Marginalia sa bene dell'allergia alle mimose che alberga in questo blog, della poca passione per la "festa" e i "miti" dell'otto marzo. Se poi, come sembra stia succedendo quest'anno, c'è chi pensa di addobbare questa ricorrenza con fiocchi rosa e appelli alle donne italiane, la nostra allergia rischia di trasformarsi in vero e proprio shock anafilattico. Ma l'adrenalina salva-vita viene dai segnali di lotta e rivolta che giungono dai paesi a sud del Mediterraneo, dall'appello che vi avevamo segnalato delle donne di Nasawiya per una International Women's Day in Lebanon, all'alleanza femminista Women United for Future of the Middle East (Donne unite per il futuro del Medio Oriente) messa in piedi dalle donne di Sawt al Niswa, che chiedono a tutte le singole e realtà femministe del Medio Oriente e del Nord Africa di fare fronte comune e alle donne di ogni parte del mondo di sostenerle. Ma tante (fortunatamente) sono anche le iniziative di lotta e rivolta senza fiocchi rosa che si stanno programmando per l'otto marzo qui in Italia (vorremmo potervi promettere presto un altro post che le segnalasse tutte, ma sapendo già che non ne avremo sicuramente il tempo, vi invitiamo a visitare i tanti siti femministi che abbiamo inserito nelle nostre sitografie da Femminismi a Razzismo_Genere_Classe passando per Movimenti lgbtq*). Ve ne segnaliamo solo una, un'iniziativa che riteniamo preziosa e nella quale siamo state felici di essere state coinvolte: No hagra! No tirannia!, un'intera giornata di solidarietà e di approfondimento riflessione sul ruolo delle donne nelle rivolte nei paesi a sud del mediterraneo che si svolgerà al Centro Zonarelli (via Sacco, 4 - Bologna) per l'appunto l'otto marzo. In programma, a partire dalle 11 del mattino: filmati da Egitto, Algeria, Tunisia, Palestina, Iran, Libia, esposizione di foto, documenti, disegni, oggetti, libri e bibliografia al femminile sul momdo arabo curata dal Centro Amilcar Cabral, Casa di Khaoula e altre boblioteche del quartiere, un angolo per la cura e la bellezza del corpo coordinato da Hend Hamed, frammenti di letteratura araba contemporanea letti da Fouzia, Mariem, Nada, Fatima, Asmaa, Samira, Agjba, Olfa, Soumya. E poi ancora collegamenti con Al Jazeera, presentazioni di libri sul femminismo islamico, dibattiti, interventi e per finire (ma abbiamo sicuramente dimenticato qualcosa) cena con the alla menta e al cardamomo e cous cous tunisino super-piccante ...
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giovedì 3 marzo 2011
In ricordo di Umm Kulthum أم كلثوم
Enta Omri è una celebre canzone di Umm Kulthum (qui in una versione live del 1967 all'Olympia di Parigi, grazie a Fawziya per avercela segnalata), probabilmente la più grande e nota cantante di lingua araba di tutti i tempi. Nata in Egitto, in un paesino sul delta del Nilo, morì al Cairo il 3 febbraio del 1975: più di tre milioni di persone in lacrime seguirono il suo funerale. Da allora (e questo da l'idea di quanto fosse - ed è ancora - amata), ogni primo giovedì del mese, alle dieci (giorno e ora della sua morte), le radio arabe trasmettono alcune delle sue canzoni. Alcune sono a sfondo religioso o nazionalista, ma per la maggior parte sono canzoni d'amore, come Enta Omri (talvolta la translitterazione è diversa, come quella del suo nome), ovvero Sei la mia vita. Seppure in ritardo con l'orario, ci uniamo a questo rito collettivo e "trasmettiamo" anche noi una canzone di Umm Kulthum. La dedichiamo a tutte le donne in lotta, in Egitto e altrove. Crediamo che Umm Kulthum apprezzerebbe, visto che il suo amore per le donne è ancor oggi una cosa che si dice a bassa voce.
Voci di donne dalle rivolte, uteri per la patria e guerre umanitarie
Seppure gli esiti delle rivoluzioni ancora in atto nei paesi a sud del mediterraneo siano incerti e in alcuni casi preoccupanti vista la volontà "occidentale" di metterci sopra le mani (come in Libia, dove già Usa-Europa-Nato ventilano un'operazione militare sotto la solita copertura della guerra umanitaria), resta una realtà incontestabile: queste rivolte hanno incrinato in maniera irrimediabile gli equilibri postcoloniali e messo in crisi (si spera definitivamente) certe percezioni e immagini "dell'altro/a". Abbiamo appena letto il manifesto di indizione dell'otto marzo delle organizzatrici della manifestazione nazionale del 13 marzo e ne siamo orripilate già dallo slogan: Rimettiamo al mondo l'Italia. Dopo l'appello alle "donne italiane" in nome di nazione, famiglia e religione, ecco l'appello agli uteri per la patria. Forse ci ritorneremo su, ma per intanto non abbiamo voglia né di commentare, né di perdere tempo a cercare il link del sito Se non ora quando (ci sembra abbiano già fin troppa copertura mediatica). Piuttosto vi lasciamo una piccola rassegna, tratta da diversi blog femministi, di voci di donne dalle rivolte nei paesi a sud del mediterraneo. Sono loro, come le donne migranti che incontriamo qui nella fortezza-europa, che ci trasmettono un po' di quell'entusiasmo e quella combattività di cui abbiamo bisogno per andare avanti. Nonostante.
Marginalia, Femministe e rivolte (in piazza Tahrir)
I consigli della zia Jo, Dalla Tunisia
Femminismo a Sud, Women of the Revolution in Egitto!
Lady Losca, Dall'Egitto e dalla Tunisia
Nasawiya, International Women's in Lebanon
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martedì 1 marzo 2011
Il corpo delle donne non è della nazione
Riprendiamo da Staffetta, blog del Nodo Sociale Antifascista, un articolo di Tamar Pitch (originariamente pubblicato da il manifesto), Il corpo delle donne non è della nazione, articolo che, prendendo le mosse dalla manifestazione delle "donne italiane" del 13 febbraio, ricorda l'uso che storicamente tutti i nazionalismi hanno fatto del corpo delle donne (ne avevamo discusso recentemente nel convegno States of Feminism / Matters of States: Gender and the Politics of Exclusion) e si chiede: "È questo impasto indigesto di decoro e maternage ciò che ci aspetta dopo Berlusconi?". Qui di seguito l'articolo. Buona lettura (e riflessioni). "La nazione ha molto a che fare con le donne, ma niente con la loro libertà. Per questo il senso della manifestazione del 13 febbraio, o almeno il senso che sembra esserne stato ricavato in area Pd, è problematico, se non preoccupante. Sia in alcuni interventi precedenti che in molti commenti successivi, donne e Italia, donne e nazione vengono evocate come indissolubilmente legate, così che le donne simboleggiano il vero cuore della nazione (anzi, il suo «corpo»), ciò che la salverà. E del resto che fosse in gioco non soltanto la «dignità delle donne», ma quella della nazione è stato detto esplicitamente più volte. In questo, ahimè, non vi è nulla di nuovo. Tutti i nazionalismi hanno usato e usano questa retorica, compresi naturalmente i fascismi. Non è difficile capire perché. Le donne, i loro corpi, rappresentano e custodiscono la «tradizione», e insieme ne promettono continuità e futuro. Per questo il dominio su di loro e i loro corpi è essenziale, così come, complementarmente, l’esclusione degli «altri» (maschi) dall’accesso a questi corpi stessi. Sessismo e razzismo (e omofobia) non solo vanno insieme ma sono in certo senso presupposti e risultati della nazione. A differenza dello stato moderno, concepito come prodotto artificiale di un patto tra individui razionali a tutela dei loro diritti, la nazione è intesa e vissuta come prodotto storico, se non addirittura naturale (in ragione dei «legami di sangue»), che si pone prima dello stato e da esso deve essere rappresentata e difesa. La nazione non è la somma di individui la cui unica caratteristica è l’essere dotati di ragione. È, in certo senso, il suo esatto contrario, ossia il prodotto organico di relazioni tra soggetti incarnati e storicamente determinati, relazioni basate sulla comunità di lingua, di storia, di tradizione: e di «sangue». Se, dal punto di vista storico, molte nazioni moderne sono piuttosto il prodotto che non il presupposto dello stato, esse vengono invece vissute come ciò che lo legittima. In linea di principio, lo stato è inclusivo: chiunque può aderire al patto. La nazione invece è esclusiva: vi si appartiene per nascita. Lo stato prescinde dai corpi, la nazione ne è costituita. Lo stato non ha un corpo (e non vive, direbbe Brecht, «in una casa con i telefoni»), la nazione invece sì. Quali corpi, quale corpo? I corpi degli uomini, votati al sacrificio supremo per difenderla, i corpi delle donne, da cui dipende il suo futuro. Il Corpo della nazione (basta vedere l’iconografia) è invece esclusivamente femminile, così come, è ovvio, la mente è maschile. Metafore, certo, ma performanti. E pericolose. In primo luogo per la libertà femminile, che si fonda precisamente sulla possibilità e capacità di disporre di sé, della propria sessualità e fertilità. Ora, è proprio questo che è impossibile per la tenuta e la continuità della nazione: il corpo delle donne deve essere soggetto a questi imperativi (tenuta e continuità), e questi imperativi, se possono mutare di contenuto a seconda delle esigenze (fare tanti figli o non farne affatto, per esempio), lo separano dai desideri e dalla volontà della singola, per sottometterlo a quelli di chi decide per il «bene della nazione».
Può capitare, ed è capitato, che si faccia appello alle donne e se ne richieda una sorta di protagonismo per «la salvezza» (o «la dignità») della nazione. Ciò non implica, perlopiù, un effettivo liberarsi delle donne: come si è visto spesso nei casi delle lotte di liberazione nazionale. Finita la mobilitazione, alle donne si impone di nuovo di essere le custodi di ciò che rende la nazione tale, le tradizioni, i legami di sangue, e di piegare i propri desideri , in primo luogo rispetto alla sessualità, in funzione di ciò che la nazione e il suo futuro richiedono. Insomma la nazione, la patria, la comunità, l’identità culturale sono costitutivamente nemiche della libertà femminile. Per la nazione, la patria, ecc., le donne devono essere mogli fedeli e madri degli uomini. Al massimo, madri della patria, cui ricorrere in tempi bui. Ciò che questi soggetti collettivi (nazione, patria, comunità) escludono è la singolarità. Le donne sono un tutto unico e indifferenziato, la cui soggettività è bensì incarnata, ma nel senso che essa è interamente determinata dal corpo, il quale a sua volta è letto in base alle funzioni che gli sono attribuite. Abbiamo criticato lo stato e il diritto moderno, l’idea di libertà e il paradigma politico che vi sono connessi perché si fondano su un soggetto neutro e disincarnato. Tuttavia, se stato e diritto moderni sono pur stati strumenti di emancipazione, la nazione, viceversa, è sempre stato un ostacolo per noi e per la nostra libertà. A ben vedere, ambedue, stato e nazione, poggiano precisamente su quelle dicotomie dominanti nel pensiero europeo che abbiamo cercato di decostruire inaugurando una idea e una pratica della politica diverse: soggetto-oggetto, natura-cultura, mente-corpo. Oggi, almeno in Italia, ci ritroviamo strette tra un’ideologia dominante che definisce la libertà personale come possibilità di scelta (razionale) di una «mente» separata dal corpo, il quale può dunque (e deve) diventare una merce come tutte le altre e un’ideologia confusa (e pericolosa) in cui si mescolano la tendenza a negare la singolarità e a dissolvere le differenze in un tutto indistinto, con il rischio di ricondurre il femminile a una qualche essenza consegnata nel corpo. Un corpo decoroso, beninteso. È questo impasto indigesto di decoro e maternage ciò che ci aspetta dopo Berlusconi?" (Tamar Pitch, Il corpo delle donne non è della nazione, il manifesto), 26 febbraio 2011).
Può capitare, ed è capitato, che si faccia appello alle donne e se ne richieda una sorta di protagonismo per «la salvezza» (o «la dignità») della nazione. Ciò non implica, perlopiù, un effettivo liberarsi delle donne: come si è visto spesso nei casi delle lotte di liberazione nazionale. Finita la mobilitazione, alle donne si impone di nuovo di essere le custodi di ciò che rende la nazione tale, le tradizioni, i legami di sangue, e di piegare i propri desideri , in primo luogo rispetto alla sessualità, in funzione di ciò che la nazione e il suo futuro richiedono. Insomma la nazione, la patria, la comunità, l’identità culturale sono costitutivamente nemiche della libertà femminile. Per la nazione, la patria, ecc., le donne devono essere mogli fedeli e madri degli uomini. Al massimo, madri della patria, cui ricorrere in tempi bui. Ciò che questi soggetti collettivi (nazione, patria, comunità) escludono è la singolarità. Le donne sono un tutto unico e indifferenziato, la cui soggettività è bensì incarnata, ma nel senso che essa è interamente determinata dal corpo, il quale a sua volta è letto in base alle funzioni che gli sono attribuite. Abbiamo criticato lo stato e il diritto moderno, l’idea di libertà e il paradigma politico che vi sono connessi perché si fondano su un soggetto neutro e disincarnato. Tuttavia, se stato e diritto moderni sono pur stati strumenti di emancipazione, la nazione, viceversa, è sempre stato un ostacolo per noi e per la nostra libertà. A ben vedere, ambedue, stato e nazione, poggiano precisamente su quelle dicotomie dominanti nel pensiero europeo che abbiamo cercato di decostruire inaugurando una idea e una pratica della politica diverse: soggetto-oggetto, natura-cultura, mente-corpo. Oggi, almeno in Italia, ci ritroviamo strette tra un’ideologia dominante che definisce la libertà personale come possibilità di scelta (razionale) di una «mente» separata dal corpo, il quale può dunque (e deve) diventare una merce come tutte le altre e un’ideologia confusa (e pericolosa) in cui si mescolano la tendenza a negare la singolarità e a dissolvere le differenze in un tutto indistinto, con il rischio di ricondurre il femminile a una qualche essenza consegnata nel corpo. Un corpo decoroso, beninteso. È questo impasto indigesto di decoro e maternage ciò che ci aspetta dopo Berlusconi?" (Tamar Pitch, Il corpo delle donne non è della nazione, il manifesto), 26 febbraio 2011).
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