giovedì 27 settembre 2007

Donne di mondo: una presentazione

La critica all'universalismo del femminismo bianco occidentale mossa dal Black Feminism, dalle femministe diasporiche e dalle teoriche lesbiche ha inscritto nel dibattito pubblico e storiografico l'intersezione dei rapporti di potere di genere con quelli di "razza", di orientamento sessuale, di classe e di generazione. Come declinare sul piano storico la complessità del dibattito teorico sulle soggettività femministe? Da questa domanda ha preso forma questo numero, con l'obiettivo di indagare gli elementi relazionali della storia dei movimenti delle donne attraverso uno sguardo che esplora la porosità dei confini tra culture politiche diverse e privilegia i percorsi e le traiettorie trasversali.


Giovedì 27 settembre 2007 alle ore 18.30, all' Horus Occupato (piazza Sempione 4, Roma), il collettivo InfiniteVoglie presenta:


DONNE DI MONDO. PERCORSI TRANSNAZIONALI DEI FEMMINISMI
Zapruder, n. 13 (maggio-agosto 2007)

Intervengono le curatrici Liliana Ellena e Elena Petricola.
A seguire reading di Danila Bellino & proiezioni, aperitivo & dj set di eva contro eva.

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Su Donne di mondo vedi la recensione di Luisa Passerini in Liberazione e qui per il sommario.

domenica 23 settembre 2007

Women Declare War On Rape


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Un'immagine (dalla raccolta di 1960s Womens Liberation Movement Posters indicata in un'utile rubrica di culture di genere) per esprimere ancora una volta solidarietà a quante denunciano (nonostante le minacce e i pesanti tentativi di intimidazione) la violenza subita, qui come altrove. Con presidi, sostenendoci, web-mobilitandoci, sfidiamo quant* vorrebbero farci tacere.
Dichiariamo guerra allo stupro ...

giovedì 20 settembre 2007

Settembre 2005- 2007: un frammento per ricordare Riccardo

Riccardo Bonavita, Lo sguardo dall'alto. Le forme della razzizzazione nei romanzi coloniali e nella narrativa esotica, in Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell'antisemitismo fascista, Grafis, Bologna 1994, pp. 53-64*


[...] Dal momento che al vertice della gerarchia viene sempre, incontestabilmente, posto l'uomo bianco, in una prospettiva che associa maschilismo e razzismo eurocentrico, le "razze" esterne all'occidente stanno qui tanto più in alto quanto più sono assimilabili all'aspetto fisico ed alla cultura dei colonizzatori. La costante tematica del genere, l'amore, non resta estranea a questo principio non scritto, e lega nella reciprocità soltanto gli uomini bianchi e le uniche donne di diversa etnia che l'immaginario della società fascista poteva reputare "degne" di sedurli: le arabe. Ma in queste figure femminili rimane comunque manifesta la duplice inferiorità, di genere e di "razza", che conduce le loro relazioni coi bianchi ad esiti naturalmente negativi. La sola eccezione si trova ne La reclusa di Giarabub [1], che si conclude coll'unione dell'eroe fascista Marcello De Fabritis e della donna araba da lui amata; tuttavia se qui viene trasgredita una consuetudine narrativa, non viene però violato l'implicito principio gerarchico che resta fondamentale: la protagonista femminile, Meriem, unica donna orientale di questi romanzi a non venir reificata, è in fondo un'occidentale nel corpo di un'araba [...]. In quest'opera superare le barriere religiose e "razziali" significa in ultima analisi eliminare le caratteristiche della propria etnia, inferiore perchè non occidentale: infatti Meriem giunge a rinnegare la propria "razza" e la vita "bestiale" a cui la costringe [2]. Mitrano Sani, con il proprio strumentale sostegno ad un'emancipazione femminile che il fascismo certo non incoraggiò né in patria né in colonia, legittima l'intervento coloniale italiano gettando sottilmente nel discredito la società araba. Egli pone con il personaggio di Meriem, evoluta ma condannata alla tradizionale servitù dall'arretratezza musulmana, uno sguardo occidentale nel seno del mondo dei colonizzati, perché lo additi al disprezzo dall'interno, ad opera di una sorta di autocoscienza critica: si reinserisce così lo sguardo del bianco colonizzatore che giudica dall'alto della propria compiaciuta superiorità, ovunque riaffermata nelle forme e nei testi più diversi [...].
L'araba resta una tabula rasa su cui l'immaginazione del bianco, prima "depravata" dalla degenerazione post-bellica poi "purificata"dall'ascesi guerriera può proiettare i propri fantasmi amorosi. Come oggetto che stimola e ricambia l'affettività si qualifica come colonizzata ed amante "ideale". Quale colonizzata in quanto è questa la forma di relazione coll'altro tipica dell'imperialismo coloniale: conquista d'un mondo senza alcuna intenzione di riconoscergli una soggettività, una dignità propria, spazio vuoto ed aperto ad una progettualità estranea di cui deve mostrarsi riconoscente. Quale amante perchè all'ideologia razzista si sovrappone l'immaginario maschilista e reificante, che configura la donna come passività assoluta ma "calda", colma di desiderio, in grado di gratificare chi la possiede manifestandogli muto, incondizionato amore.
Le donne arabe sono le figure con cui termina l'àmbito "concesso" agli amori dei bianchi ed anche il novero dei personaggi la cui appartenenza all'umanità viene riconosciuta, per quanto siano dipinti come decisamente inferiori: nell'universo romanzesco della narrativa, coloniale e non, di quegli anni, non abbiamo mai trovato un bianco che ami una donna "negra" o meticcia, categorie che nell'immaginario della società fascista vengono in diverso grado associate più o meno metaforicamente al regno animale [...].
A considerare la rete di metafore messe in opera per caratterizzare Elo, la "madama" di Femina somala [3] [...], l'animalizzazione è sistematica, per quanto congiunta ad una speciosa "affettuosità"; non a caso l'animale più costantemente chiamato in causa a paragone della "femina" è il cane, ad elogio della sua remissiva ed incondizionata "fedeltà" all'uomo bianco [...].
Nella rappresentazione del rapporto tra Elo e l'ufficiale italiano troviamo un'immagine del madamato - comune ad altri romanzieri reduci delle colonie -, che documenta tra l'altro la condizione reale delle "Veneri nere" e la loro percezione erotico-immaginativa da parte dei conquistatori bianchi.

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* Questo saggio di Riccardo Bonavita è stato ripubblicato in Studi Culturali, n. 1, 2006. Rinvio inoltre alla bibliografia (ancora non esaustiva) di Ricccardo pubblicata nel primo anniversario della morte.

NOTE:

[1] Mitrano Sani, La reclusa di Giarabub, Milano, Alpes 1931.
[2] Ivi, p. 150, 208, 259.
[3] Mitrano Sani, Femina somala, Napoli, Detken e Rocholl 1933.

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mercoledì 19 settembre 2007

"Lo stupratore non è un malato. E' il figlio sano del patriarcato"


Bologna, 18 settembre 2007
Presidio davanti alla Procura per l'udienza preliminare di un processo per stupro indetto da Quelle che non ci stanno

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Per interessanti commenti e documenti sulla vicenda si veda Femminismo a Sud
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martedì 11 settembre 2007

Nuovo? No, lavato con Perlana ...

Rudy M. Leonelli e Vincenza Perilli, Nuovo? No, lavato con Perlana. Delle procedure di riciclaggio nel paese del trasversalismo reale, in Invarianti, n. 35, 2001


La contestazione della globalizzazione economica, una volta svincolata dall’ideologismo, è l’occasione per un rompete le righe tra destra e sinistra. In apparenza, è il contrario: e la sinistra più conservatrice può compiacersi di trovarvi un cambio d’abito, in extremis. Ma le schermaglie più immediate non contano molto. La destra non ammette la Tobin Tax, la sinistra ne fa la propria bandiera. Del resto, non è facile immaginare come il governo di centrosinistra, se fosse durato, avrebbe affrontato la gestione del G8: meno o più dialogo, meno o più polizia? La destra politica non è meno prigioniera della sinistra, oltre che di interessi materiali costituiti, di pregiudizi ideologici e riflessi condizionati. Il “trasversalismo” che l’annuncio ecologista si era ripromesso, e non ha saputo mantenere, è oggi alla portata di una politica fattiva, tanto più quanto meno in soggezione a pensieri e abitudini ereditate.


Adriano Sofri, “Se la povertà fa scandalo”, La Repubblica, 17 luglio 2001.


e mite un sentimento…[1]


Nel dicembre 2000, a pochi giorni dall’esplosione di un ordigno tra le mani del terrorista neofascista Andrea Insabato davanti alla redazione romana de il manifesto, usciva sulle pagine di questo quotidiano un toccante articolo in forma di lettera aperta allo stragista mancato, dal titolo “Caro Andrea, pensaci…”:


Ma c’è una cosa che mi ha fatto scattare un meccanismo di vicinanza, che mi ha preoccupato e intrigato insieme: il discorso delle varie etnie sfigurate che vediamo vivere male nelle metropoli e campagne occidentali. Gli schiavi che seguono il trionfo di Cesare sono oggi extracomunitari, ma anche le varie etnie sfigurate delle nostre regioni. Odio la globalizzazione anche per questo […] Anch’io amo la purezza, ma non quella delle razze umane. Mi sono sentito una pena dentro quando ho visto la tua faccia sui giornali. Un isolato, un cane sciolto di destra. Una pena scandalosa. Molti isolati e cani sciolti di sinistra come te, quando a Nizza combattono la globalizzazione, muovono da sentimenti, bada solo sentimenti molto simili ai tuoi. Su quei sentimenti ha lavorato la cultura, una cultura diversa dalla tua, che è legata all’istinto ed è imbevuta di idealismo. Hai creduto che il manifesto sia un simbolo di tutto quello che non ti piace che esista. E ti sei sbagliato di grosso. L’attenzione da sempre alla multietnicità di quel giornale non va nella direzione dell’impuro[2].


Che il cosiddetto movimento antiglobalizzazione fosse una grande occasione per il superamento della dicotomia destra /sinistra è, come si vede, idea che precede i “fatti di Genova”, al punto che già la ricerca di un trait d’union tra l’autore e il bersaglio di un attentato trovava proprio nel “no global” lo spazio di un incontro possibile sulla base di un comune sentire.

Il sermone indirizzato al presunto cane sciolto Insabato[3], piuttosto che nel clima natalizio ‑ che, come si impara da bambini, rende tutti più buoni ‑ si inscrive in un paradigma di pacificazione che ha per assiomi l’etica dell’intenzione e l’imperativo di comunicazione. Il celebre discorso di Luciano Violante sulle motivazioni ideali dei “ragazzi di Salò”[4] non è che la punta di un iceberg la cui massa, al di sotto della schiuma delle dichiarazioni di circostanza, disegna un corpo frastagliato ma omogeneo. La “trasversalità” è, per nascita e vocazione, senza confini: passa dentro e fuori le istituzioni, nel “politico” e nel “sociale”, nell’amministrativo e nel “creativo”.

A tratti, il flusso trasversale sembra subire una brusca interruzione e l’archiviata opposizione destra/sinistra, fascismo/antifascismo, è improvvisamente ripescata. Così nel ’94, prima vittoria elettorale della destra, così nel finale della campagna elettorale 2001 e di nuovo, con toni più accesi, dopo Genova, quando D’Alema parla di “clima cileno” e, di seguito, l’uomo immagine delle Tute bianche di “nazistelli in divisa[5]. Di regola questi ritorni “storici” si caratterizzano per l’elusione dello spessore della storia: metafore inarticolate il cui orizzonte non oltrepassa l’effetto del momento. Aperture di dialogo e risvegli intermittenti scandiscono il moto oscillatorio della lingua costitutivamente biforcuta delle sinistre “post”.

Quando eventi di particolare gravità impongono riflessioni sottratte all’orizzonte ridotto della cronaca, vengono prodotte “analisi” che, come i duplicati di armi descritti da Debord, mancano sempre del percussore[6].

Un'intervista al capogruppo dei senatori Ds – rilasciata a il manifesto all'indomani dell'attentato al quotidiano – può illustrare questa tipologia. La domanda di rito: “I fatti di questi giorni ci obbligano a ritornare sull’analisi della destra italiana. Non c’è stato troppo ottimismo, nel centrosinistra, sulla sua costituzionalizzazione e troppa facilità nella sua legittimazione?” riceve la risposta appropriata: “Autocriticamente ritengo di sì. Tutti, la sinistra e l’insieme delle forze democratiche, abbiamo sottovalutato quel che negli ultimi mesi è avvenuto nella destra italiana”. Le “sottovalutazioni” in questione concernono quattro punti: il separatismo della Lega, il peso dell’alleanza elettorale del centrodestra col Msi-Fiamma tricolore di Pino Rauti, la politica del Vaticano (dalla lettera pastorale di Biffi alla visita di Haider) e, infine:


Quarto ma non ultimo: abbiamo sottovalutato la campagna sul revisionismo storico. Che ha tenacemente e meditatamente messo in discussione tre momenti cruciali della costruzione dello Stato nazionale e della Repubblica: l’unità d’Italia, col processo al Risorgimento allestito in agosto al meeting di Rimini; la Resistenza, col rovesciamento del valore fondativo dell’antifascismo nel “dovere morale” dell’anticomunismo; la Costituzione, con la volontà della destra non di riformarla ma di stracciarla, a partire dalla sua concezione del federalismo[7].


“Un’analisi tutta da rifare”, commenta l’intervistatrice. Ma è una conclusione esorbitante in rapporto alla pochezza della diagnosi che, riducendo il problema a una sorta di svista, per di più limitata a pochi mesi, opera una duplice minimizzazione: della portata del pericolo di destra, in particolare dell’offensiva revisionista, e delle responsabilità delle sinistre che, da ormai più di un decennio, non si sono limitate a “sottovalutare”, ma si sono adoprate a rivalutare e valorizzare.

È il progetto di costituzione di un paese normale, elaborato alle origini della Nuova Destra tedesca, che sintetizza la strategia adottata dalla sinistra di governo italiana nel corso degli anni Novanta. Condizione essenziale di questo progetto è l’opera di revisione della storia efficacemente criticata da Klinkhammer:


in Italia negli ultimi anni è stata fortemente auspicata una “conciliazione nazionale”, considerata un elemento fondamentale per una società “postfascista”. Il “superamento” del passato fascista da parte di una presunta società postfascista presuppone però l’offuscamento dei lati negativi di questo passato[8].


Il processo di pacificazione, abbellimento e “armonizzazione” della storia si è necessariamente articolato nel Grande Dialogo[9] tra destra e sinistra, promosso da quest’ultima come elemento innovatore al di là della “residua” pregiudiziale antifascista, nella ripresa più o meno consapevole della strategia da tempo messa a punto dalla Nuova Destra.

Di qui il vizio congenito delle “mobilitazioni” periodiche e dei relativi rituali autocritici, che devono correggere i singoli “guasti” prodotti da questa strategia senza mai metterne in discussione i presupposti. La figura dell’impostore inverosimile[10], capace di svolgere, alternativamente o simultaneamente, i ruoli di agitatore e imbonitore, è un ingranaggio indispensabile di questo marchingegno e riceve immancabilmente la meritata promozione mediatica. In contropartita ogni critica radicale di questo impianto incontra una censura non dichiarata e tanto più efficace.

Ritornando al fatidico 1994, e più precisamente al periodo successivo alla vittoria elettorale di Fini-Berlusconi-Bossi, si può ricordare una lettera aperta al quotidiano il manifesto, all’epoca impegnato nella promozione della manifestazione nazionale del 25 aprile a Milano. La lettera, non pubblicata dal quotidiano, sollevava la stridente contraddizione tra la volontà di riattivazione di una scadenza antifascista e la presenza, nel novero dei collaboratori de il manifesto ‑ e del suo supplemento Suq – di figure che si erano distinte nella collaborazione a iniziative e pubblicazioni della destra nuova ed estrema:


Crediamo che un giornale che ha tra i suoi redattori Rossana Rossanda, la quale ha lanciato, insieme con diversi intellettuali europei, un appello contro le collaborazioni con la nuova destra[11], dovrebbe scegliere con maggiore attenzione i propri collaboratori e interlocutori, soprattutto nel momento in cui si fa promotore di una manifestazione antifascista importante come quella del prossimo 25 aprile.

Vi invitiamo a non compensare la solerzia con cui avete denunciato le collusioni tra sinistra francese e estrema destra, con l’inerzia per quanto concerne il caso italiano: qui la situazione è ancor più grave, dato il clima di generale omertà che, salvo rare eccezioni, attanaglia la sinistra istituzionale e non[12].


Il fatto che, nel variopinto coro di comunicati, prese di posizione e lettere che il quotidiano ha diffusamente pubblicato per giorni e giorni, su pagine e pagine, in preparazione del 25 aprile, un testo di questo tipo non abbia trovato spazio, manifesta bene la presenza di un confine invalicabile alle cicliche (ri)animazioni del conflitto.

Al di qua di questo confine, la distribuzione dei ruoli prevede, ad ogni avanzata del dialogo, il contrappunto di quello che si potrebbe chiamare l’intransigente improbabile, il cui dissenso testimoniale completa il quadro, piuttosto che scardinarlo.


Marco Tarchi, politologo ex missino, va al Festival dell’Unità e pubblica un saggio su una rivista del Pds. Dice: “Vorrei far parte di un’area che non ha etichette”. Sul suo periodico lancia un appello al Manifesto. Ma il quotidiano replica: “noi coi fascisti non parliamo”[13]


Ciò che non impedirà a Le Monde Diplomatique – il manifesto di pubblicare, senza un minimo cenno di critica, l’appello del comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila” che comprende, tra le adesioni internazionali, la firma del maître à penser della Nouvelle Droite Alain de Benoist[14].


Lather Blister” e altri spot


Ma sarebbe illusorio contrapporre un universo della sinistra “ufficiale” ormai avviata sulla strada del revisionismo e uno spazio “altro” che si porrebbe, nel suo insieme, in controtendenza. Nell’ambito dell’ex-estrema sinistra, almeno dalla prima metà degli anni Novanta, gli operatori impegnati alla distruzione delle “vecchie identità” hanno varato da più parti un insieme di grandi manovre comprendenti, tra i propri bersagli principali, “l’antifascismo residuale”. Sono così spuntati un insieme di “esperimenti” tesi a provocare, “stanare”, cortocircuitare e neutralizzare i focolai di resistenza al nuovo corso revisionistico patrocinato, con sfumature e motivazioni diverse, tanto dalle destre riemergenti quanto dalla sinistra di governo.

Tra questi, la “provocazione revisionista” imbastita dal collettivo Transmaniacon di Bologna è stata certamente una delle più apprezzate dall’estrema destra e delle più insabbiate dalla sinistra istituzionale e non[15].

È questo collettivo che, nel novembre 1992, immette nella rete telematica Ecn il file “La provocazione revisionista”[16]. Il testo è la trascrizione di un intervento transmaniaco trasmesso dall’allora neonata Radio K Centrale, una delle emittenti che, durante le giornate anti-G8 di Genova, ha animato Radio Gap (The Global Audio Project), un nome che – riferisce uno degli immancabili instant book – “comunque giocava provocatoriamente col nome di uno dei gruppi che hanno (sic) sono stati parte attiva nel processo di liberazione dall’occupazione nazifascista durante la guerra”[17].

Nel file, il primo di una lunga serie, spicca la lapidaria frase di Faurisson:


Le pretese camere a gas hitleriane e il preteso genocidio degli ebrei formano una sola e medesima menzogna storica, che ha aperto la via ad una gigantesca truffa politico-finanziaria, i cui principali beneficiari sono lo stato d’Israele e il sionismo internazionale, e le cui principali vittime sono il popolo tedesco, ma non i suoi dirigenti, il popolo palestinese tutto intero e, infine, le giovani generazioni ebraiche che la religione dell’Olocausto chiude sempre di più in un ghetto psicologico e morale.


Non limitandosi alla dimensione delle “idee” (spericolate arditezze teoriche che spaziavano tra “l’uso anticapitalistico di Faurisson” e un untuoso “garantismo” verso i carnefici nazisti) questa operazione rivelava connessioni meno eteree, che hanno permesso ai transmaniaci di preannunciare trionfalmente in Ecn iniziative più tardi realizzate dall’editrice negazionista Graphos[18].

Consumata la “provocazione revisionista”, il collettivo Transmaniacon troverà nella clonazione del Luther Blissett nostrano ‑ con cui condivide diversi nomi e qualche pseudonimo -‑ un’opportuna occasione di riciclaggio in un anonimato posticcio che, tanto per gli avversari quanto per i nuovi e vecchi compari, è stato fin dall’inizio un segreto di Pulcinella.

Leonardo Lippolis, nello scorso numero di Invarianti, ha mostrato come una lettura interna delle tracce vere e/o false che i Luther Blissett hanno copiosamente distribuito nella produzione del proprio mito commerciale e mediatico, permetta uno smontaggio del dispositivo mitopoietico stesso, e ha ricostruito gli intrecci che precedono il “lancio” della tardiva copia italiana di Luther Blissett:


Nel maggio 1993, mentre Stewart Home fonda la Neoist Alliance, Healy ha la folgorazione, il nuovo nome multiplo: Luther Blissett. Dall’accordo tra Coleman Healy, Kipper/Cooper e Stewart Home nasce adesso, nel maggio 1993, il Luther Blissett Project. Nel luglio successivo Healy, tornato negli Stati Uniti, sottopone l’idea al vecchio Ray Johnson […] il quale l’accoglie con entusiasmo e scrive per l’occasione il primo Luther Blissett Manifesto, inviandone uno, tra gli altri, anche a Vittore Baroni […]. La svolta avviene durante l’estate quando Kipper/Blissett/Cooper compie un viaggio-vacanza in bicicletta in Italia e si mette in contatto con Baroni e Ciani; il suo soggiorno trova il clou a Bologna, dove la gioventù alternativa, sempre assetata di novità “controculturali” (a Bologna ci sono centri sociali “all’avanguardia” come il Link e il Livello 57) accoglie con entusiasmo il suo progetto[19].


La considerazione della “provocazione revisionista” ‑ che, come altre “provocazioni”[20], non viene ovviamente mai ricordata in modo esplicito nelle variegate ricostruzioni blissettiane del proprio mitico passato ‑ come antecedente forte della duplicazione italiota della “creatura una e multipla”, può a nostro avviso contribuire alla proposta di aiutare i Luther Blissett “a recuperare la memoria delle proprie origini[21]. L’aggiunta di questo tassello mancante al mosaico presenta il vantaggio di restituire al termine “revisionismo” ‑ impiegato da Lippolis in relazione alla riscrittura blissettiana dei percorsi dell’Internazionale Situazionista ‑ il significato specifico che esso assume in relazione alla negazione dello sterminio nazionalsocialista. La peculiarità dell’innesto italiano può essere meglio focalizzata, in quanto alcune direttrici delle posteriori metamorfosi sono chiaramente intravedibili nel funzionamento del ripescaggio transmaniaco del negazionismo sinistrorso:


La cifra ideologica dell’intera operazione è l’uso del materiale negazionista ai fini di uno smantellamento – da un punto di vista “rivoluzionario e di classe” – dell’antifascismo. Ma la critica dell’antifascismo consensuale e celebrativo sviluppata dai movimenti di estrema sinistra nel dopoguerra subisce una torsione verso un anti-antifascismo che ne altera violentemente la valenza e la cui pretesa efficacia “sovversiva” diviene sempre più inverosimile, a fronte delle trasformazioni postfasciste in atto nella cultura e nella costituzione italiana.

Questo carattere improbabile è accentuato dal fatto che la sequenza dei messaggi disegna un’oscillazione tra il richiamo a matrici di ultrasinistra e una cultura del disincanto (“fine della Storia” e delle “ideologie”, estraneità alla dicotomia destra/sinistra, etc.). Si potrebbe parlare, da questo punto di vista, di un revisionismo commutatore, o “di cerniera”, che riversa relitti di ideologie rivoluzionarie e scampoli di fraseologia marxista sulle spiagge piatte del “dopo-storia”[22].


Dopo l’impiego all’introduzione del “nuovo”, il vecchio arnese negazionista si dissolverà, almeno apparentemente, nella creazione di “una mitologia dell’improbabile e dell’ubiquo” e di “situazioni al cui interno non esista responsabilità individuale”[23] e, archiviato come “provocazione”, riaffiorerà tra le notti e nebbie del no name attraverso variegate forme di implicitazione (ripresa di pseudonimi, sigle e altri orpelli impiegati nell’operazione).

Del resto, persino Q, polpettone blissettiano lanciato nel 1999 come best seller dalla berlusconiana Einaudi che dichiara copiose ristampe (ma non quantifica il numero di copie-omaggio di quest’ennesimo miracolo italiano inviate a destra e a manca), non fa che riprendere il titolo della traduzione italiana di Ich will spaβ, terza fatica letteraria – si stenta a crederlo – di Falko Blask, collaboratore di Play Boy nonché della rivista tedesca di destra Focus.

Q come caos annuncia l’emergere di un’ennesima “nuova tendenza giovanile”. L’evento epocale consisterebbe nel fatto che, a detta del prolifico autore, “i giovani”, nella “solita crisi di senso di fine secolo”, abbandonate “le tradizionali reazioni: protesta caparbia o incondizionato adeguamento”,


cavalcano il fattore Q. Q, il semidio che vive nel Continuum, l’universo parallelo di Star Trek, fa da padrino a questo nuovo principio di piacere: un buffone cosmico, fantasioso ed egocentrico, che rappresenta l’incarnazione ideale del mascalzone privo di principi, ma equanime, al di là del bene e del male.

Negli anni Novanta non usa più tirare bilanci morali, ci si dedica piuttosto a perfezionare il piacere egocentrico dell’avventura[24].


L’elenco degli “indizi del fattore Q nella società del caos” (dal fenomeno dei serial killer alle fantasie di onnipotenza individuale e al culto dell’Io) comprende le “teorie del complotto”, accomunate dall’idea “che tutto è assolutamente diverso da come sembra”. Tra questi modi di “creare per se stessi un mondo più drammatico, che va oltre la banalità dell’universo quotidiano”[25], l’autore annovera “il revisionismo storico sulla Shoah[26].


Chi si attiene a una concezione diversa da come viene intesa la realtà non è soltanto, come spesso si asserisce, un visionario pericoloso, ma anche una persona che adotta una tecnica creativa per sfuggire alla deprimente insensatezza e causalità dell’esistenza. Si tratta del tentativo di rafforzare ciò che potrebbe essere a discapito di ciò che effettivamente è. Le teorie del complotto, pertanto, non sono un tormento o un peso per i loro fautori. Rendono la vita più eccitante, se si è in grado di coltivarle con un minimo di senso dell’umorismo e autoironia[27].


Un inesorabile scetticismo verso i goffi tentativi di restaurazione dei bei tempi andati in cui l’Autore impartiva ai lettori lezioni sul “significato politico-ideologico” della propria opera, conduce a cercare fuori dalle autointerpretazioni smerciate a seguito del “romanzo storico-attuale” Q qualche chiave di lettura. Forse, piuttosto che ad inverosimili Nemici dello Stato[28], occorre riandare ai “sociopatici” eroi incensati da Ich will spaβ con un’euforia che ricorda, certo involontariamente, la festante allegrezza dei passeggeri del Titanic:


Nella società postideologica non dovrebbe più esistere alcun tabù che non si possa trascinare nel fango del divertimento. In definitiva, abbiamo appena superato la fase dell’orgia dei grandi ideali e dei valori fededegni […] I sociopatici edonisti fomentano la confusione proprio là dove si impongono le verità assolute; vivono secondo il principio situazionista di fare con ogni mezzo di ogni circostanza una realtà assurda che valga la pena essere vissuta”[29]


Il resto è cronaca recente. Ribattezzatosi Wu-Ming, l’“individuo multiplo” si adopra a confondere le proprie sorti con quelle dei “nuovi movimenti”: Tute bianche, “no global” e – perché no? – un poco del deprecato antifascismo debitamente rivisitato… Quale che sia la corrente, la funzione della schiuma è restare a galla.


Dall’ammorbidente postideologico alle ricette non violente della nonna


Una radiografia delle attuali strategie delle destre permette di cogliere nella lotta alla globalizzazione e all’“omologazione” condotta in nome della difesa delle identità locali, il principale operatore delle sinergie tra destre di governo (in particolare An e Lega), Nuova Destra e neofascisti “militanti” (Fiamma Tricolore, Forza Nuova e diversi gruppi naziskin)[30]. Questa intelligente rottura delle classificazioni correnti basate sulla giustapposizione di destre “rinnovate” ed “ultra” rischia però di suggerire, come per contraccolpo, l’esistenza di un sicuro discrimine tra destre e sinistre, come se la rivendicazione delle identità locali contro l’“omologazione” fosse esclusivo retaggio delle prime, mentre troppi elementi mostrano che in realtà le cose non sono così semplici.

Sulla copertina del numero di settembre 2001 di Diorama letterario, periodico della Nuova Destra diretto da Marco Tarchi, campeggia una fotografia. Sullo sfondo persone in tunica e kefiah, in primo piano un manifestante dal volto coperto, una mano levata in segno di vittoria e l’altra che regge un cartello: “Resist Corporate Tyranny. Wto- Just say no! The people have spoken”. L’uomo indossa una sorta di mantella bianca con cappuccio, che – a prima vista – è facile confondere con le Tute bianche che hanno popolato i media soprattutto negli ultimi mesi. Un effetto ambivalente, tra mistificazione e ammiccamento. Sotto la foto, il titolo del fascicolo: “Globalismo e dovere di resistenza”.

Il pezzo di apertura si accolla la difesa delle ragioni del “movimento no global” dalle infondate imputazioni giornalistiche di “marxismo”:


che nel pulviscolo di organizzazioni che hanno fatto del no global la loro bandiera ve ne siano un buon numero – a partire dalla costellazione dei “centri sociali” – in cui allignano, sia pure a livello più simbolico che dottrinario, reminescenze di marxismo, classismo, operaismo e altri detriti delle effervescenze politico-sociali degli scorsi tre decenni, è senz’altro vero. Ma lo è altrettanto che né questi materiali si sono condensati in una piattaforma ideologica monolitica, né essi sono le uniche fonti di ispirazione di un movimento che, come spesso succede nei fenomeni di protesta, convoglia forme di antagonismo molto eterogenee e caratterizzate assai più in negativo, per i bersagli polemici che si scelgono, che in positivo, per una proposta organica di soluzione dei problemi che indicano[31].


Celebrando i progressi del “superamento” dell’opposizione destra/sinistra, che ha aperto nuove possibilità a temi un tempo squalificati come “la difesa delle identità territoriali e delle ‘piccole patrie’” e a “istanze potenzialmente trasversali” come il pacifismo, il localismo e il comunitarismo, il testo riserva un apprezzamento degno di attenzione alla “crisi della sinistra già comunista” che ha “confuso le carte in tavola”:


Quelle componenti che non si sono riciclate in appendice progressista del fronte liberale solo in parte si sono accontentate di tener duro attorno a posizioni ortodosse. Molti di coloro che si sentivano di sinistra per un generico desiderio di equità o per disgusto dell’ordine sociale e culturale esistente hanno aperto le proprie inquietudini ad altre influenze, fra le quali il rifiuto dell’omologazione all’american way of life e dell’occidentalizzazione planetaria ha assunto, pur tra molte contraddizioni, un ruolo rilevante[32].


Per chi voglia mantenere una distanza critica dalla doxa autocelebrativa che ha caratterizzato il “dopo Genova”, non è difficile reperire nella formazione della versione italiana del “popolo di Seattle”, pesanti tracce delle altre influenze guardate con tanto comprensibile interesse dalla Nuova Destra. Scegliamo, a titolo di semplice campione tra i molti possibili una tappa rilevante di questa formazione: le giornate del vertice Ocse del giugno 2000 a Bologna e le relative contestazioni.

Rinnovando i fasti della mediazione riedificata sulle ceneri del ’77, questa scadenza si era conclusa nella soddisfazione generale: “tutti hanno dichiarato di aver vinto come fosse stata un’elezione politica”[33], dal leader delle Tute bianche: “Bologna è stata come Seattle, in piccolo”, al questore: “Bologna non è stata Seattle”[34]. Soddisfazione “bipartisan” (in anticipo sulla diffusione massiccia del termine): dal sindaco della nuova maggioranza di centrodestra che, nel suo saluto al vertice, “ha sottolineato come Bologna difenda le radici, ma guardi al nuovo”[35], al premier di centrosinistra Amato, che blandiva i dimostranti dichiarando: “Le loro preoccupazioni sono le nostre”[36].

Queste valutazioni ‑ certo sfasate rispetto ai segmenti critici della protesta (che, come ogni realtà refrattaria al cretinismo creativo, sono autoritariamente identificati con le “ideologie residuali” e/o la “violenza”) ‑ rapportate alla gestione e alla regia dell’immagine del “movimento” mostrano una certa pertinenza. La bolognesissima coniugazione della tradizione e del “nuovo” esaltata dal sindaco Guazzaloca, la valorizzazione della piccola e media impresa in agenda del vertice Ocse, risultavano in effetti largamente componibili con la grottesca sagra paesana spacciata per contestazione, entusiasticamente ritratta nelle cronache locali di Repubblica:


Il tortellino No Ocse diventa il piatto forte della contestazione. La tradizione fresca di giornata contro l’hamburger fritto del gigante multinazionale. Il cibo bolognese doc contro la blanquette di coniglio proposta ai ministri nella cena di gala esterofila di stasera. Se protesta dev’essere, a Bologna, allora lo sia fino in fondo. A tavola. L’anima contestatrice, quella dei centri sociali cittadini, usa la fantasia come più volte promesso. E le ricette non violente della nonna. Livello 57, Teatro polivalente occupato e Atlantide, alla globalizzazione da BigMac rispondono con un’arma neanche tanto segreta: il little tortellino. Le Tute bianche della rete No Ocse, in versione ‘chef&camerieri’ […] hanno fatto un blitz a Mc Donald’s di via Rizzoli. Una manifestazione in nome e per conto del più tipico dei prodotti nostrani, acquistato per l’occasione nel tempio gastronomico di Tamburini, ormai emblema della resistenza anti transgenica in un Quadrilatero blindato da polizia e carabinieri. Lì, tra i tavolini del fast food, i centri sociali hanno distribuito a passanti e clienti spaghetti al sugo e vini ‘genuini’ (oltre ai simbolici tortellini made in Bologna) [37].


La critica delle connotazioni etniciste e campanilistiche della politica del sindacato, del Pci e delle amministrazioni locali “rosse” ‑ che nel ’77 si era tradotta in slogan provocatòri come “La rivolta nel paradiso della mortadella” – si è così platealmente rovesciata, per opera dei perenni “rappresentanti”, dal rilancio del tortellino doc al recupero del dialetto bolognese come linguaggio “di lotta”[38]. Un penoso riciclaggio in chiave alternativa (?) dello storico impiego della lingua nella produzione di etnicità fittizia[39]. Ma nel tempo in cui il leader della Lega nord, incoronato ministro, si presenta in televisione per recitare poesie in napoletano[40], le potenzialità “sovversive” dei dialetti, l’apologia delle “comunità” e delle “culture” locali, dovrebbero ormai destare qualche pur tardivo sospetto anche tra i più sprovveduti “contestatori”.

La contestazione dei Mc Donald’s, ormai divenuta per metonimia un cliché della lotta al nemico “globale”, ha subito una gamma di declinazioni fin troppo ampia, in cui il confine tra “popolarità” e populismo si è pericolosamente stemperato. Al di là della cronaca, il duello tortellino-hamburger può assumere una paradossale valenza simbolica, sintetizzando il disastroso smottamento dalla lotta al capitale multinazionale allo scontro tra “culture”. Del resto, solo una smisurata fantasia creativa può pretendere di opporsi a Mc Donald’s in nome di una regionalizzazione alimentare ormai già operativa nelle più avanzate strategie di rinnovamento del colosso della ristorazione rapida[41].


Un altro mondo è possibile?


Curiosamente, il “nuovo movimento” non sfugge alla rituale inibizione della critica, che correda “spontaneamente” l’acuirsi del pericolo. Come per incanto, le più squalificate formule di contabilità velleitaria presiedono ai “bilanci”: la repressione come “prova” della radicalità del “movimento”, lo “smascheramento” della repressione come vittoria e, dulcis in fundo, l’unanimismo di fronte all’emergenza.

Così, la violenta (ri)scoperta del nocciolo duro degli apparati di Stato e il complementare trionfalismo per l’“esserci in tanti, e diversi” sono per ora riusciti a esorcizzare una seria disamina del funzionamento delle macchine organizzative e pubblicitarie deputate alla produzione di “eventi”.

Ma l’arcano della contraddizione tra il preteso carattere di assoluta novità del “movimento” e la riproduzione di vecchi vizi che presentano tutta l’inerzia delle storie di lunga durata potrebbe rivelarsi come la semplice differenza strutturale tra le due facce di una stessa medaglia. Si pensi alla ricorrente denegazione del rapporto con gli anni Settanta che, come un vero e proprio lapsus, tradisce, in forma negativa, una relazione costitutiva con i nodi non sciolti – cioè illusoriamente recisi – di una storia.

Il mito di una generazione “giovane”, finalmente liberata dagli opprimenti fardelli del passato e il culto dell’innocenza sono d’altra parte gli immancabili ingredienti di ogni revisionismo: dalla matrice negazionista alle più diverse forme di relativizzazione e pacificazione della storia. Si spiega forse anche così la sorprendente tolleranza che discorsi quali la “provocazione revisionista” hanno, a loro tempo, incontrato proprio nei settori più protesi al “nuovo” e al “rinnovamento”.

Un soggetto assolutamente nuovo è aprioristicamente garantito dell’alterità di ciascuno dei propri atti, essendo dotato del potere taumaturgico di trasmettere la propria novità a tutto ciò che tocca: una volta, può trasformare il vecchio armamentario negazionista in un’interessante provocazione, un’altra, può scodellare le “ricette della nonna” come l’ultima e più aggiornata trovata, e così via. La possibilità stessa della critica è preclusa: come si potrebbe scandagliare uno spessore dove non c’è che pura superficie? E quale parametro potrebbe far fronte a cotanta novità senza risultare, per ciò stesso, “vecchio” e “superato”?

In questo quadro, elementi di invenzione delle tradizioni comunitarie ‑ dal conio degli “autonomi padani” (in nome di un “federalismo dal basso” quale improbabile alternativa strategica alla Lega) che, nel nordest, precede le Tute bianche, alla kermesse anti-Ocse – sono stati impiantati senza traumi significativi nel campo delle “nuove forme di opposizione”.

Alla foce di un processo ormai più che decennale di “sperimentazioni” disperse, riscontriamo oggi le prime avvisaglie del formarsi di una neolingua, attraverso la circolazione in ambito alternativo di neologismi come glocalizzaione (o il condensato anglicizzante glocal) che, contemporaneamente, figurano nel lessico delle destre più aggiornate. Il programma declamato da un dirigente “postfascista” in occasione di una manifestazione della destra antiglobal a Roma nel luglio 2001, può sintomaticamente evidenziare lo stadio di avanzata con-fusione dei gerghi nei “nuovi movimenti”:


Il nostro nemico è l’omologazione. Accettiamo la sfida della globalizzazione economica ma vogliamo che le identità dei popoli vengano salvaguardate, che il mercato rispetti tradizioni e culture. Con il neologismo “glocalizzazione” intendiamo rappresentare una vera e propria apologia della differenza rispetto all’annullamento delle culture nazionali. È una posizione che viene da lontano, lungamente elaborata negli anni ’80 all’interno del Fronte della Gioventù e che ha come riferimenti culturali Alain de Benoist e gli esponenti del differenzialismo francese[42].


Da tempo la più attenta riflessione sulle trasformazioni del discorso razzista (dalla biologia alla “cultura”, dall’affermazione della gerarchia tra le razze all’elogio della differenza etnica e culturale) ha richiamato l’attenzione sulle preoccupanti omologie tra le varie forme di elogio della differenza diffuse nella sinistra e il differenzialismo elaborato dalla Nuova destra[43]. Ma la potente sollecitazione critica impressa dalla messa a fuoco dell’inquietante emergenza di un neorazzismo dedito alla ritorsione di concetti e parole d’ordine in un investimento politico di segno inverso centrato sulla difesa delle “identità”, richiederà nuovi spostamenti a fronte di un’ulteriore rotazione della scena in cui i contendenti intraprendono, su bordi opposti, il collaudo di una lingua comune.

Al di là delle marce, resta molta strada da fare per dare un senso desiderabile all’affermazione che “un altro mondo è possibile”.



[1] Giosue Carducci, Il bove (1872), in Rime nuove, 1877.

[2] Renzo Paris, “Caro Andrea, pensaci…”, il manifesto, 27 dicembre 2000.

[3] Relativamente ai rapporti tra Insabato e i neofascisti di Forza nuova, e tra questi ultimi e la destra di governo, rinviamo a Anubi D’Avossa Lussurgiu, “Insabato e i suoi amici”, Liberazione, 30 dicembre 2000 e Guido Caldiron, “Un’area inquietante. Tutti i ‘link’ tra il presidente della regione Lazio e gli eredi del neofascismo estremo”, il manifesto, 28 dicembre 2000. Le interpretazioni psicologizzanti o psichiatrizzanti del gesto di Insabato da più parti suggerite sembrano confermare le osservazioni di Debord sulla distanza che separa il nostro tempo da quello dell’attentato a Jaurès. Vedi Guy Debord, Commentaires sur la Société du spectacle, Éditions Gérard Lebovici, Paris 1988, § XXV.

[4] Per una lucida contestualizzazione critica del discorso di Violante alla Camera del 10 maggio 1996 (e di analoghe dichiarazioni del presidente Scalfaro) rinviamo a Cesare Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), Odradek, Roma, 1997, in particolare pp. 74-80. L’esigenza di una rinnovata unità nazionale, nel quadro dell’adesione alla guerra all’Afghanistan, è stata recentemente rilanciata, nel solco aperto da Violante, dal presidente della repubblica “bipartisan”, con un discorso sui “ragazzi di Salò” variamente riportato e commentato dai principali quotidiani italiani del 15 ottobre 2001 e dei giorni seguenti.

[5] Per queste dichiarazioni di Massimo D’Alema e Luca Casarini rinviamo ai maggiori quotidiani italiani del periodo.

[6] Guy Debord, Commentaires sur la Société du spectacle, cit., § XXVIII.

[7] Ida Dominijanni, “Quella destra rimossa”, intervista a Gavino Angius, il manifesto, 28 dicembre 2001.

[8] Lutz Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Donzelli, Roma 1997, p. VIII. Sul transito da destra a sinistra del concetto di “paese normale” rinviamo a Rudy M. Leonelli, “Un revisionismo normale”, Arcipelago, n. 4, 1999.

[9] Rudy M. Leonelli, “Il Grande Dialogo”, Atti del convegno Anni ’70-Anni ’90, Bologna 1994, in Vis-a-vis, n. 3, 1995, poi ripubblicato in formato “millelire” da FreePress, Bologna 1995.

[10] Jorge Luis Borges, “Tom Castro, l’impostore inverosimile”, in Storia universale dell’infamia (1935).

[11] Riferimento all’appello contro la legittimazione dell’estrema e nuova destra pubblicato da Le Monde, 13 luglio 1993, e ripreso, lo stesso giorno, da L’Unità, il manifesto e altri quotidiani italiani.

[12] Lettera aperta a il manifesto promossa da un’assemblea all’aula magna di Lettere e filosofia dell’università di Bologna. Mai pubblicata dal quotidiano, la lettera può essere richiesta alla redazione di Invarianti.

[13] Francesco Erbani, “La Nuova Destra? A sinistra”, La Repubblica, 2 settembre 1994.

[14] “Per non dimenticare Sabra e Chatila”, Le Monde Diplomatique - il manifesto, settembre 2000, p. 13.

[15] Financo l’ideologo del “revisionismo olocaustico”, Carlo Mattogno, cita come positiva testimonianza del successo del negazionismo a sinistra, la “provocazione revisionista” di Transmaniacon in una lettera di precisazioni a Marxismo oggi, n. 3, 1996.

[16] Per una ricostruzione critica di queste vicende rinviamo a Rudy M. Leonelli, Luca Muscatello, Vincenza Perilli, Leonardo Tomasetta, “Negazionismo virtuale: prove tecniche di trasmissione”, Altreragioni, n. 7, 1998; Guido Caldiron, “Liaisons romaines”, in A. Bihr et al., Négationnistes: les chiffonniers de l’histoire, Golias- Syllepse, Villeurbanne-Paris, 1997; Centro di comunicazione autonomo di Bologna, “Contro il revisionismo storico di ‘sinistra’”, La Comune-Progetto Memoria, n. 15, 1994.

[17] Angelo Quattrocchi, La battaglia di Genova, Malatempora, Roma, 2001, p. 103. Sarebbe troppo chiedere a quest’opuscolo, capace di concludere che la “tre giorni” di Genova è stata “una battaglia psichica, una battaglia metaforica” (p. 104), un minimo di informazione storica sull’esistenza di una certa Radio Gap che, nella primavera 1970, realizzò proprio a Genova le sue prime interferenze sui Tg-Rai. Il libello mostra del resto fin troppo bene come lo svuotamento della storia effettiva per mezzo dell’inflazionata “provocazione” parodistica possa estendersi alla “teoria” generando un pastiche in cui Raul Vanheigem e Hakim Bay (sic) figurano come “i Marx ed Engels contemporanei” (p. 90). Nessun chiarimento è invece fornito da Quattrocchi sulla voce (forse una leggenda metropolitana?) che, probabilmente sulla base del gran parlare di felpe e cappucci nel dopo Genova, riconduce l’attuale uso della sigla “Gap”, a una sponsorizzazione ufficiosa dell’omonimo marchio di abbigliamento giovanile.

[18] Segnatamente la nuova traduzione italiana de Le mensonge d’Ulysse di Paul Rassinier, sfornata dall’editrice genovese nel 1996, a trent’anni da quella realizzata dalla neonazista Le Rune, dedicata “a Giovanni Preziosi eroe e martire della verità”. La produzione editoriale di Graphos, che mixa una copiosa produzione negazionista ad opere della sinistra rivoluzionaria, ha trovato – difficile dire se per ignoranza, indifferenza o connivenza – una certa diffusione in alcuni ambiti di estrema sinistra.

[19] Leonardo Lippolis, “‘Togliti i baffi, ti abbiamo riconosciuto’. La vera storia di un bluff (il Luther Blissett Project e i suoi padrini) e della sua cattiva coscienza (l’Internazionale Situazionista)”, Invarianti, n. 34, 2000, pp. 20-21.

[20] Per una ricostruzione delle “provocazioni” transmaniache nel contesto alternativo bolognese, riproduciamo ampi stralci dal volantone Diamoci un taglio, diffuso a Bologna nel marzo 1997 da un ironico “Centro studi femministi Lorena Bobbit”, un testo che ricompone diversi frammenti critici circolati in numerosi scritti e volantini negli anni precedenti:

[…] Nel '92 i Lion Horse Posse (LHP) - un gruppo rap italiano già attaccato da femministe a Roma e Milano per i testi sessisti - vengono pesantemente contestati da alcune compagne a Bologna durante un concerto sulla questione del carcerario per la liberazione dei detenuti politici comunisti. Durante lo scontro (verbale e non) che ne segue, le compagne femministe vengono accusate di avere un atteggiamento “non politico”, di porre questioni “moralistiche” su problemi in quel contesto meno importanti e, naturalmente, di essere portatrici di un atteggiamento “censorio” […]

In seguito alla contestazione bolognese degli LHP, alcune compagne tedesche, informate dell'accaduto, bloccano una serie di concerti del gruppo in Germania. Dall'ambiente rap bolognese, dominato da uno spirito di solidarietà di corpo e di corporazione con i compari LHP, nel febbraio ‘93 parte una provocazione contro alcune compagne femministe e lesbiche (coll. Artemide e le Furie) che si riunivano in una sede “separata” nelle case occupate di via del Pratello. Un componente dell'Isola Gay Posse (IGP), attraverso una finestra, scatta fotografie durante una riunione delle compagne che reagiscono inseguendolo e pretendendo la restituzione del rullino. Lo scontro, provocato ad arte, e la legittima autodifesa delle compagne, che non avrebbe scandalizzato nessuno in qualsiasi altro ambito politico, fa da pretesto per scatenare una vera e propria “caccia alle streghe” contro femministe e lesbiche “intolleranti e settarie”.

L'attacco alle compagne raggiunge l’apice in una trasmissione di Radio Kappa Centrale, condotta dal collettivo Transmaniacon e con “ospiti in studio”, Isola gay posse, ex Isola nel Kantiere (una parte di questi ultimi si é di lì a poco riciclata nel neonato progetto Link) e alcuni personaggi dell'ambiente “alternativo” bolognese quali Hélena Velena e Pina D’Aria. Da questa trasmissione partono minacce contro le compagne e vengono date informazioni false e faziose sui fatti. Gli IGP & CO, indicono una “festa” all'interno del cortile di via del Pratello, festa che viene annunciata con i toni di un vero e proprio "regolamento di conti". I compagni interni al progetto radio non prendono una decisa posizione contro il collettivo dei transmaniaci, nascondendosi dietro la foglia di fico della “libertà d'opinione” e del rifiuto di atteggiamenti censori. Le trasmissioni del collettivo Trasmaniacon continuano infatti come se niente fosse.

Pochi giorni dopo, il 17 febbraio '93, le compagne lesbiche e femministe - coll. Artemide e le Furie e coll. Siam Tornate (eravamo a far la spesa) - occupano RKC nelle ore destinate alla trasmissione Trasmaniacon.[…] Nei giorni seguenti il transmaniaco R. B. (che di lì a poco indosserà la nuova non-identità di Luther Blissett) preleva i nastri registrati della trasmissione “incriminata” e li ripulisce opportunamente regalandone copie a destra e manca. In questo modo si prepara a passare da aggressore a calunniato. Contemporaneamente diffonde un comunicato dove attribuisce alle compagne rivendicazioni di tipo identitario e differenzialista, come dire: neorazzista.

Ai primi di Marzo dello stesso anno, immediatamente dopo una festa femminista e lesbica organizzata dal coll. Siam Tornate al Circolo Berneri (Cassero di Porta S. Stefano), la banda di RKC e i loro collaboratori della libreria di "movimento" Grafton 9 (che ancora non avevano “occupato” il Livello 113), lanciano l'ennesima provocazione chiedendo i locali del Berneri per una propria festa. Le compagne del collettivo – che da circa un anno utilizzavano, nel pieno rispetto della propria autonomia, quegli spazi per i loro incontri –, chiedono agli anarchici di assumere una precisa posizione rispetto ai fatti, ma tra questi prevale “un atteggiamento più liberale che libertario” e i transmaniaci & Co ottengono i locali. Le compagne femministe, giudicando oramai inaccettabile la condivisione di quello spazio, abbandonano il Cassero. Per non ridurre il fatto ad un caso isolato, basti ricordare che gli anarchici di Porta S. Stefano qualche mese fa hanno messo a disposizione i locali del Berneri per una tre giorni organizzata da tal Caffè Acratico: tra gli eventi un incontro con Hélena Velena, già “ospite” di Trasmaniacon, già organizzatore/trice di varie edizioni della manifestazione “Erotica” e già autore/autrice di Dal cybersex al transgender. Tecnologie, identità e politiche di liberazione, dove, dopo aver ringraziato l’amico Luther Blissett, l’avvelenata Velena per spiegare come “liberarsi” tramite il sesso mediatico (dove sì “le donne la fanno vedere” ma “mica gliela danno”), a p. 36 sentenzia: “le vetero femministe continueranno a parlare di sfruttamento del corpo femminile... autoproducendo la propria condizione di subalternità e schiavitù” (detto altrimenti: la colpa è nostra!).

Il testo di Hélena Velena è stato pubblicato nel '95 da Castelvecchi, casa editrice già tristemente nota per pubblicazioni che celebrano le delizie della “contaminazione” con la Nuova Destra, tra cui Come si cura il nazi di monsieur Bifo […]

Da questa prima panoramica, oltretutto lacunosa, emergono alcuni fili e snodi di una fitta rete di scambi e relazioni. È proprio questa struttura reticolare ad essere significativa […] Al di là dei meri “dati” (che comunque servono e auspicheremmo un lavoro di mappatura di eventi e situazioni più articolato) su un piano più “teorico” assistiamo […] all’emergere di una cultura fortemente reazionaria dietro la maschera movimentista. Soprattutto vorremmo attirare l’attenzione da una parte sulle “accuse” che nella maggioranza dei casi vengono mosse alle compagne – settarie, censorie, presunte portatrici di discorsi identitari e differenzialisti –, dall'altra su discorsi quali il meticciato, la contaminazione e l'anti-identitarismo, ormai moneta corrente in ambito “alternativo”. Questi discorsi, nella loro “banalizzazionemovimentista sono molto più vicini ai discorsi del femminismo differenzialista […] e ai discorsi della Nuova Destra di quanto, apparentemente, non possa sembrare o vogliano far credere. Qui si aprono nuovi problemi. Non basta, anche se è indispensabile, denunciare singoli episodi, e neppure - come abbiamo cercato di fare qui - vedere i legami, le sequenze, le reti che li collegano, ma occorre cercare di capire come si stia formando (o si sia già formata) una nuova cultura. E' una cultura nemica della nostra autonomia che è fatta di comportamenti, piccoli enunciati di ogni giorno, ma anche di vere e proprie “linee” e indirizzi teorici che collegano in diagonale la cultura “alta” e le sottoculture (dalla musica alle radio, dalle fanzine alle scritte sui muri, anche quelle sulle pareti dei cessi del 36, ecc.) […].

[21] L. Lippolis, “‘Togliti i baffi, ti abbiamo riconosciuto’, cit., p. 31.

[22] R. M. Leonelli, L. Muscatello, V. Perilli, L. Tomasetta, “Negazionismo virtuale: prove tecniche di trasmissione”, cit., p. 178.

[23] Gilberto Centi, Luther Blissett. L’impossibilità di possedere la creatura una e multipla, Synergon, Bologna 1995, p. 61.

[24] Falko Blask, Q come caos. Un’etica dell’incoscienza per le giovani generazioni, Marco Tropea Editore, Milano 1997, pp. 9-10.

[25] Ibid., p. 27.

[26] Ibid, p. 29.

[27] Ibid., p. 31.

[28] Sul supplemento politico al romanzo blissettiano rinviamo al citato saggio di L. Lippolis (pp. 30-31).

[29] F. Blask, Q come caos, cit., p. 159.

[30] Guido Caldiron, “Antiglobalismo razzista”, Liberazione, 21 luglio 2001.

[31] Marco Tarchi, “La cultura dell’intimidazione e il dovere di resistenza”, Diorama Letterario, n. 247, settembre 2001, p. 3.

[32] Ibid., p. 4.

[33] Luigi Spezia, “Dopo le botte i sorrisi, l’Ocse fa tutti contenti”, La Repubblica – Bologna, 16 giugno 2000.

[34] Si vedano i trafiletti dedicati a “I contestatori” e “Il questore”, che corredano l’articolo sopraccitato. Il bilancio del questore è del resto in perfetto accordo coi guru della contestazione virtuale: “Bologna non è stata Seattle. Forse lo è stata nella dimensione virtuale, attraverso Internet. Ma, tutto sommato, c’è stata una manifestazione composta”.

[35] Valerio Varesi, “Guazza: disagi limitati. Soddisfatto date le attese della vigilia”, La Repubblica – Bologna, 15 giugno 2000.

[36] “L’impresa emiliana”, il manifesto, 15 giugno 2000.

[37] Andrea Chiarini, “La protesta nuda con i tortellini. Bifo & company si spogliano in piazza”, La Repubblica – Bologna, 14 giugno 2000.

[38] Il cronista può così incontrare, “in una improvvisata conferenza stampa, Valerio Monteventi […], che gira con una originale scritta sulla maglietta, “C’at vegna un Ocse” (che ti venga un Ocse, come fosse una malattia incurabile)”; Luigi Spezia, “No-Ocse blocca il centro per bersi il contro-aperitivo”, La Repubblica ‑ Bologna, 13 giugno 2000.

La proverbiale giovialità petroniana si prestava, del resto, straordinariamente bene a classificare ogni tensione divergente come “violenza”(?) estranea all’anima profonda – si direbbe quasi alle “viscere” – della città conviviale per eccellenza. Una volta (re)introdotto, il discorso potrà essere ripreso altrove, in circostanze più drammatiche – pensiamo a Genova – dove si cercherà di addebitare, come alle origini dell’“emergenza”, ogni insubordinazione alla violenza di Stato ai “violenti”: estranei, meglio ancora “stranieri”, “venuti da fuori”. Ben prima delle uscite di Agnoletto, rilanciate da giornalisti e politici della sinistra, a proposito degli insufficienti controlli della polizia alle frontiere che non avrebbero impedito l’entrata in Italia dei violenti , Paola Ferraris ha sottolineato gli analoghi distinguo messi i campo in occasione del World Economic Found di Melbourne: “Ma il movimento, salvo marginali ‘disgraziati’ violenti e perciò ‘non australiani’ per il paterno primo ministro, resta saldo nella resistenza pacifica e così ottiene perfino la solidarietà dei delegati del Forum […]”; P. Ferraris, “’Movimento di libertà’? Fra Seattle e Praga, la rappresentazione unificata di eventi imprevisti e di incidenti preparati”, Invarianti, n. 34, 2000, p. 64.

[39] Sulla produzione di etnicità fittizia rinviamo ai saggi di Étienne Balibar, in É. Balibar – I. Wallerstein, Razza nazione classe. Le identità ambigue, Edizioni Associate, Roma, 1990.

[40] Leandro Palestini, “Bossi, una voce per Eduardo. In tv da Ranieri, il leader della lega recita in napoletano”, La Repubblica, 3 ottobre 2001. L’articolo riferisce con sorpresa approvazione le dichiarazioni di Bossi, del resto perfettamente conformi alle dottrine etnopluraliste della Nuova Destra: “La canzone napoletana emerge da un dialetto popolare, io preferisco un potere che viene dal basso e un federalismo culturale. Non credo che il mondo vada regolato dall’alto, dai banchieri […] È sbagliato dire d’essere superiori […] io penso che nessuna civiltà sia veramente superiore a un’altra. Sarei cauto. Diciamo che siamo diversi rispetto all’Islam e dovremmo accettare la diversità”.

[41] Come spiega una responsabile di MacDonald’s France in un’intervista a un settimanale a massiccia diffusione gratuita nella metropolitana parigina, la multinazionale si è lanciata da tempo nella “battaglia del gusto” con una serie di campagne improntate alla logica della “prossimità culturale”, culminate quest’estate nell’operazione “Une touche de région” (“MacDo se met au goût du jour”, A nous Paris!, n. 113, 13-18 novembre 2001).

[42] Basilio Catanoso, responsabile nazionale di Azione Giovani e deputato di An, intervistato da G. Caldiron, “Antiglobalismo razzista”, cit.

[43] Su questi temi, un testo di referenza, sebbene di impianto teorico criticabile (cfr. Rudy M. Leonelli, “Le sventure della virtù. Per la critica del post-antirazzismo”, Altreragioni, n. 4, 1995) è Pierre-André Taguieff, La force du préjugé, La Découverte, Paris 1987, tr. it. La forza del pregiudizio, Il Mulino, Bologna 1994. Riteniamo altresì fondamentale, oltre al già ricordato libro di É. Balibar e I. Wallerstein, il lavoro di Colette Guillaumin e in particolare i saggi raccolti in Sexe, race et pratique du pouvoir. L'idée de nature, Côté-Femmes Editions, Paris 1992. Per una problematizzazione degli inquietanti esiti dell’applicazione del paradigma differenzialista (nella sua versione femminista) alla storiografia del nazionalsocialismo rimandiamo a Liliane Kandel, (a cura di) Féminismes et nazisme, en hommage à Rita Thalmann, Publications de l'Université Paris 7-Denis Diderot, Paris 1997 (cfr. Vincenza Perilli, “L’innocenza di Eva”, Altreragioni, n. 8, 1999).