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lunedì 7 settembre 2020

Colette Guillaumin: Sesso, razza e pratica del potere. L'idea di natura

Per molteplici ragioni, molte delle quali attinenti a questioni personali che non è il caso di espilicitare qui, ho progressivamente negli ultimi annidiradato i miei interventi in questo blog (inaugurato con tanta passione nel lontano 2005), fino a abbandonarlo definitivamente nel maggio del 2017. Da qualche tempo meditavo di riocminciare, anche grazie a sollecitazioni che mi sono venute da singol@ ma anche da appassionate discussioni collettive come l'incontro Femminismi digitali. Movimenti, archivi, ricerche, organizzato a Torino nel 2018 dal'Archivio delle donne in Piemonte. Oggi mi decido quindi a "riaprire" ufficialmente Marginalia, e noto che l'ultimo post pubblicato aveva come oggetto Colette Guillaumin, con la citazione tratta da un suo saggio che ho molto "amato" (e continuo a amare): Femmes et théories de la société : remarques sur les effetsthériques de la colère des opprimées (qui il pdf con il testo completo in lingua originale). Ed è proprio questo saggio che qualche mese fa, in occasione dell'uscita della traduzione italiana, curata da me, Sara Garbagnoli e Valeria Riberio Corossacz per Ombre Corte di Sexe, Race et Pratique du pouvoir, abbiamo chiesto all'editore di mettere a disposizone in libera lettura (qui il pdf). Penso dunque che non poteva esserci maniera più bella per riaprire questo spazio, anche se ancora devo rivedere/aggiornare tante cose e, confesso, non so ancora come si evolverà questa "avventura". Ma è un (nuovo) inizio ...

mercoledì 20 maggio 2015

giovedì 9 ottobre 2014

Le dita tagliate / Una recensione di Alessandra Pigliaru

Di seguito la recensione di Alessandra Pigliaru al recente volume di Paola Tabet, Le dita tagliate (Ediesse, collana sessismoErazzismo, 2014), pubblicata qualche giorno fa da Il Manifesto con il titolo La beffa del dono patriarcale. Con un grazie all'autrice e a Il Manifesto, buona lettura // Si intitola Le dita tagliate (pp. 323, € 15) ed è il nuovo generoso libro di Paola Tabet pubblicato per Ediesse nella collana sessismoerazzismo, diretta da Lea Melandri, Isabella Peretti, Ambra Pirri e Stefania Vulterini. Etnologa, antropologa e femminista, Tabet riprende i temi di ricerca che la caratterizzano dagli anni ‘70 a oggi. Il titolo del volume attiene a una pratica presso i Dugum Dani, in Nuova Guinea, secondo cui alle bambine vengono amputate alcune dita delle mani in segno di offerta durante le cerimonie funebri. Questa mutilazione diventa per Tabet motivo di riflessione più ampia intorno alle forme coercitive che fondano le società patriarcali, da quelle più semplici di caccia e raccolta a quelle capitalistiche. Centrale nella sua ricerca è da sempre l’analisi del rapporto sociale tra i sessi («un rapporto di classe»), le condizioni della dominazione maschile e dei mezzi con cui tale dominio si edifica e conserva. Tutto ciò la colloca accanto al gruppo femminista materialista nato intorno alla rivista Questions Féministes (in particolare Christine Delphy, Nicole-Claude Mathieu, Colette Guillaumin e Monique Wittig) con cui entra in contatto a Parigi nel 1978. Negli stessi anni comincia a occuparsi della divisione sessuale del lavoro e dell’utilizzo dei vari strumenti, rivolgendosi in particolare alle società di caccia e raccolta e indagando la gestione o meno dei mezzi di produzione. Il fuoco del primo capitolo è sullo scambio sessuo-economico inteso come gestione sociale della sessualità. Confortata da una solida documentazione etno-antropologica e dalle numerose interviste sul campo (importanti sono state quelle effettuate in Africa, in particolare in Niger), Tabet arriva a segnalare «la grande beffa» (titolo di un suo volume del 2004) insita nello scambio sessuo-economico non prima di averne definito il segno: anzitutto l’idea dello scambio investe la prostituzione così come il matrimonio e i cosiddetti rapporti amorosi, cioè «l’insieme delle relazioni tra uomini e donne che implicano una transazione economica». Transazione quest’ultima che prevede la fornitura di servizi (variamente dal sessuale al domestico) da parte delle donne, e un compenso (che sia o meno quantificabile in denaro, status sociale, prestigio e regali) offerto dagli uomini. Il punto fondamentale su cui si è basato il dominio degli uomini sulle donne è infatti secondo la studiosa la preclusione e il mancato accesso di alcune risorse. Chiamando in causa Malinowski, Mauss e Levi-Strauss, gli esempi riportati si riferiscono alle popolazioni del Mali, della Nuova Guinea, delle isole Trobriand e di molte altre parti del mondo visitato. Il fatto che Tabet si riferisca a paesi non occidentali non significa che il fenomeno sessuo-economico sia assente dalle attuali e più note società capitalistiche. Il problema sono proprio le relazioni tra uomini e donne, e affermando ciò esclude consapevolmente una serie non trascurabile di cose. L’oggetto di riflessione è infatti la gestione sociale dello scambio e non la sessualità in sé, per esempio, il desiderio, le pratiche di conflitto o la relazione tra donne e quella tra uomini. Dal Ghana all’Etiopia, dall’Uganda al Kenya, le indagini sul campo rafforzano invece il suo osservatorio secondo cui molte sono state le occorrenze in cui si è verificato il passaggio dal dono alla tariffa. Pagine interessanti sono dedicate al tema controverso del continuum perimetrato appunto da prostituzione e matrimonio nello scambio sessuo-economico. Difficile dare un significato universale di prostituzione, ne andrebbero contestualizzati i dati secondo le diverse strutture sociali e le risorse materiali. Per questa ragione, quando Tabet parla di prostituzione si riferisce in generale a definizioni politiche relative a un’area di rapporti tra i sessi. È pur vero che in questi anni molte sono state per Tabet le occasioni di confronto con numerose esperienze di donne, comprese – per quanto riguarda l’Italia – quelle di Carla Corso e Pia Covre e il Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute. Il continuum degli scambi prevede certo variazioni e diversità eppure, nota Tabet, vi sono ancora delle riluttanze – soprattutto nelle società occidentali – a soffermarsi sullo «scambio» nelle relazioni «legittime». In uno scenario simile sono da tenere presenti le forme violente alle quali sono state sottoposte le donne, non solo in Africa ma – per esempio - in tutti i luoghi di guerra. Dallo stupro all’infibulazione, queste forme rappresentano un altro tassello della dominazione maschile sulle donne. In tale direzione vanno intese le migrazioni di donne che dai villaggi si dirigono alle città; una forza intesa come ricerca di autonomia che consente loro di smarcarsi dall’appropriazione privata del proprio corpo e della propria sessualità. Storicamente la modalità repressiva per normare la trasgressione delle donne «fuorilegge» non si è fatta attendere; dai reclutamenti delle prostitute ai riformatori per la «riabilitazione» forzata delle disobbedienti. Nonostante ciò, la storia delle femmes libres e delle free women, delle prostitute d’Africa con le quali Tabet ha intrattenuto numerose conversazioni, è pur sempre «la storia, difficile e complessa, di una resistenza». «Scrivi presto, lavora, prima che anche a te taglino le dita». È quel che Valeria Bertolucci Pizzorusso raccomanda all’amica Paola Tabet nel 1980. L’invito si è trasformato in una promessa mantenuta con coraggio e gratitudine, per raccontare l’orizzonte difficile e crudele ancora presente in alcuni luoghi del mondo. E per dire che le dita tagliate appartengono al distinguo doveroso secondo lo spettro materiale - e aggiungerei simbolico - singolare e collettivo delle vite di ciascuna. Una questione che si intreccia altrettanto saldamente alla libertà, quando la si può scegliere, agire e desiderare fortemente come ha fatto Paola Tabet nel corso della sua vita, personale e politica.

martedì 9 settembre 2014

Non si nasce donna a Bologna

Presentazione del n. 5 dei Quaderni Viola Non si nasce donna. Testi, percorsi e contesti del femminismo materialista in Francia (Venerdì 12 settembre, alle ore 18.30, Palazzina in Via Del Piombo, 5 - Bologna) a cura dell'Associazione Orlando e del collettivo Mujeres Libres. Raffaella Lamberti e Paola Guazzo ne discutono con le curatrici Sara Garbagnoli e Vincenza Perilli // Sull'incontro rinvio al sito del Server donne, mentre sul volume si vedano le  recensioni di Paola Guazzo sul Guazzington Post, di Silvia Nugara su Iaph Italia, di Clotilde Barbarulli su Letterate Magazine e Alessandra Pigliaru sul Manifesto. 

sabato 3 maggio 2014

Vita materiale e parole che ti uccidono

Sull'ultimo numero di Letterate Magazine, la rivista online della Società Italiana delle Letterate, (n. 94, 2014) una recensione di Clotilde Barbarulli (che ringraziamo) a Non si nasce donna. Percorsi testi e contesti del femminismo materialista in Francia (a cura di Sara Garbagnoli e Vincenza Perilli, Alegre / Quaderni Viola, 2013). Prima di lasciarvi alla lettura vi ri-segnaliamo i link delle altre recensioni a Non si nasce pubblicate finora (rispettivamente di Silvia Nugara per Iaph Italia, di Alessandra Pigliaru per Il Manifesto e di Paola Guazzo per il Guazzington Post) che non sono poche  per un volume che non è per tutti i palati (anche femministi) ... Buona lettura! //Ai primi di marzo è morta Nicole-Claude Mathieu, femminista lesbica materialista che ha condotto fin dagli anni Settanta un’analisi radicale antinaturalista dell’eterosessualità intesa come regime politico fondato sulla gerarchia tra i sessi, tra le autrici raccolte nel volume Non si nasce donna.Il lavoro suo, come quello del gruppo, in Italia è poco conosciuto, soprattutto per la prevalenza del paradigma della differenza sessuale, perciò questa ricerca su teoriche che hanno segnato profondamente il femminismo francese e possono suscitare molti interrogativi, è importante. Il riferimento di partenza è la celebre frase di Simone de Beauvoir volta ad indicare che “la donnità è segnata da un ruolo a lungo subalterno e dal monopolio maschile della tradizione simbolica”. Le femministe del gruppo, impegnate in un radicale antiessenzialismo, si sono raccolte nel 1977 intorno alla rivista Questions Féministes che – contaminata da varie influenze, fra cui il  marxismo, la psicanalisi, le teorie anticoloniali e il movimento afroamericano – intende mantenere un forte legame fra teoria e “femminismo-movimento”, tra ”rivoluzione della conoscenza” ; “rivoluzione della realtà sociale” (Perilli). Colette  Guillaumin definisce le analisi delle pensatrici del gruppo (Christine Delphy, Nicole-Claude Mathieu, Paola Tabet e Monique Wittig ) come una “rimessa in questione delle ‘evidenze’, forma sacralizzata dell’ideologia” con riferimento al sesso e alla razza che dicotomizzano lo spazio sociale. Rivisitando il pensiero marxista, analizzano l’intreccio tra rapporti materiali e di senso nelle relazioni di dominio da cui nasce la naturalizzazione che s’iscrive efficacemente nei corpi, nel linguaggio, nelle categorie mentali e istituzionali. In realtà   il sesso e la razza non emergono come un dato, un’essenza, ma come un marchio (l’equivalente del feticcio marxiano) che nasconde e cristallizza i presistenti rapporti di dominio e sfruttamento. Le curatrici intendono con questo libro colmare il vuoto esistente in Italia su tali autrici,come evidenzia la bibliografia allegata,  e dar conto di un paradigma che da dieci anni dialoga con una nuova generazione di femministe, nell’intreccio con il Black Feminism, gli studi gay e lesbici, l’approccio queer e gli studi postcoloniali. Allo scopo offrono articoli inediti in italiano con brevi introduzioni: dal saggio di Di Cori sull’invenzione statunitense del French Feminism alla riflessione sul genere di Delphy, dall’antropologia materialista di Mathieu alla costruzione sociale della disuguaglianza tra i sessi di Tabet; fino al linguaggio fatto di “parole che ti uccidono”  in quanto veicola l’ordine straight (intreccio delle nozioni di normalità, rettitudine, ordine e eterosessualità) del pensiero per Wittig. Interessante in particolare appare Guillaumin per la sua critica al  concetto di differenza perché nasconde l’ideale secondo cui “tutti appartengono allo stesso universo, ma in termini di differenti forme dell’essere, per sempre fissate”, perciò mette in guardia di fronte alla sostanziale ambiguità del “diritto alla differenza culturale” (1980). Già nel 1972, come sottolinea Siebert,  anticipa sia alcune impostazioni postcoloniali considerando l’ideologia razzista “una organizzazione percettiva della individuazione del simile e del differente”, lo “stato cristallizzato di un immaginario”, sia altre tematiche cruciali, quali  i dibattiti tra posizioni femministe bianche/occidentali e posizioni postcoloniali, tra femminismo del privilegio e femminismo della “classe delle donne”: negli odierni processi le conquiste dell’emancipazioni femminile nei paesi ricchi sono state pagate con lo sfruttamento delle immigrate e Guillaumin può aiutare; a riflettere ulteriormente sull’uso politico del concetto di differenza nei movimenti delle donne, nella tensione fra liberazione individuale e liberazione collettiva per focalizzare la coscienza di classe. Mathieu, evidenzia Ribeiro Corossacz,; ha studiato le donne come una comunità di oppressione attraversata da altre forme di gerarchizzazione (la classe, l’etnia, la sessualità…) e socialmente percepita come “un gruppo naturale specifico”. Sottolinea, come Tabet, la vocazione comparativa dell’antropologa per allargare il senso delle possibilità umane illustrando modi diversi “per ciò che riguarda la categoria sociologica di sesso e i rapporti tra i sessi”. Fin dai primi anni Novanta ha criticato però le correnti queer del femminismo, in particolare Butler, per il rischio che nascondino le condizioni materiali oggettive dei rapporti di oppressione delle donne e  non  indaghino le possibilità di agire dei soggetti sessualmente minoritari. Verrebbe cioè lasciata in secondo piano l’organizzazione del sesso sociale che continua a poggiare sull’oppressione, privilegiando gli aspetti simbolici, discorsivi e periodici del genere a scapito della realtà materiale e storica. Se ogni rottura epistemologica richiede un vocabolario nuovo ,e, come invita Wittig, occorre passare al vaglio ciascuna parola, “scuotere il linguaggio nel caleidoscopio del mondo, e, nella misura in cui lo si scuote, operare rivoluzioni nella coscienza” (1992), questo libro stimola a riflettere anche oggi su teoria, parole, esperienze, contribuendo a creare “i germi” di una “rivoluzione cognitiva, ovvero politica”, per non dimenticare mai i rapporti materiali che sottendono qualsiasi problematica (Clotilde Barbarulli, LetterateMagazine, n. 94, 2014).

giovedì 13 marzo 2014

Un frammento da «Sexe, Race et Pratique du Pouvoir»

L'entrée des minoritaires dans le domaine théorique ne conduit pas à proprement parler à un "affinement" ou à une "diversification" des connaissances. Cela certes peut se produire, mais l'essentieln'est pas là, il est dans le bouleversement des perspectives, dans la subversion qu'ils introduisent. [...] Ces textes minoritaires, dont déjà la publication n'est pas aisée, sont à leur parution considérés à la fois comme légers et dangereux, comme plaisanterie de plus ou moins bon goût et menace. Mais après, il n'est plus jamais question de poser les problèmes de la même façon qu'antérieurement (Colette Guillaumin, Sexe, Race et Pratique du Pouvoir, Côté-femmes, 1992).

lunedì 13 gennaio 2014

Non si nasce donna al Maurice

Segnaliamo con gioia che l'ultimo Quaderno Viola, Non si nasce donna. Percorsi, testi e contesti del femminismo materialista in Francia, sarà prossimamente presentato al Circolo Maurice glbtq di Torino con Cristian Lo Iacono, Liliana Ellena, Sara Garbagnoli e Silvia Nugara. Per maggiori info sull'incontro rinvio al sito del Maurice, mentre per riflessioni sul volume alle recensioni di Alessandra Pigliaru, Silvia Nugara e Paola Guazzo. Segnalo infine che sulla rivista online InGenere potete leggere un estratto della lezione inaugurale di Joan W. Scott al VI congresso della Società Italiana delle Storiche , pubblicata in Non si nasce donna nella traduzione di Sara Farris (il testo completo è ora incluso nella raccolta di scritti di e su Joan W. Scott, Genere, politica, storia, pubblicata lo scorso anno da Viella a cura di Paola Di Cori)

domenica 5 gennaio 2014

Mfla / Un regalo per il nuovo anno

L'ultimo post di Marginalia del 2013 è stato un invito a regalare un abbonamento a Zapruder a Natale (e grazie infinite a quante/i lo hanno fatto, contribuendo in questa maniera a portare avanti un progetto interamente autofinanziato dal quale coloro che ci lavorano non traggono alcun profitto se non uno spazio di espressione autonoma), quindi mi sembra carino cominciare il nuovo anno segnalando la pagina "materiali" del Mfla, un "regalo" graditissimo che mi/ci permette di inaugurare il 2014 all'insegna della condivisione. Molto spesso quanto facciamo/scriviamo/produciamo non ha la visibilità, circolazione e/o facilità di reperimento che meriterebbe, con il risultato paradossale che a volte anche "tra noi" non sappiamo dell'esistenza di molti di questi materiali. Personalmente, ad esempio, ignoravo la traduzione del 2003 (a cura di Daria) di Non si nasce donna di Monique Wittig e che per questo motivo non risulta nella bibliografia dell'ultimo dei Quaderni Viola dedicato al femminismo materialista francese (Delphy, Guillaumin, Mathieu, Wittig, Tabet) che ho recentemente co-curato con Sara Garbagnoli. Quindi grazie ancora alle infaticabili redattrici del Mfla e buon inizio anno a tuttE

mercoledì 27 novembre 2013

Violenza sessista: né rigurgito dell’arcaico, né anomalia della modernità

Un articolo di Annamaria Rivera appena pubblicato sul sito di MicroMega, Violenza sessista: né rigurgito dell’arcaico, né anomalia della modernità. Buona lettura e riflessioni // Ora che il femicidio e il femminicidio hanno guadagnato l’attenzione dei mediae delle istituzioni, il rischio è che, costituendo un tema in voga, la violenza di genere sia usata per vendere, fare notizia, sollecitare il voyeurismo del pubblico maschile. Un secondo rischio, già ben visibile, è che la denuncia e l’analisi siano assorbite, quindi depotenziate e banalizzate, da un discorso pubblico – mediatico, istituzionale, ma anche ad opera di “esperti/e” –, costellato di cliché, stereotipi, luoghi comuni, più o meno grossolani. Proviamo a smontarne alcuni, adesso che, spentisi i riflettori sulla Giornata internazionale contro la violenza di genere, anche la logorrea si è un po’ smorzata. Anzitutto: la violenza di genere non è un rigurgito dell’arcaico o un’anomalia della modernità. Sebbene erediti credenze, pregiudizi, strutture, mitologie proprie di sistemi patriarcali, è un fenomeno intrinseco al nostro tempo e al nostro ordine sociale ed economico. E comunque è del tutto trasversale, presente com’è in paesi detti avanzati e in altri detti arretrati, fra classi sociali le più disparate, in ambienti colti e incolti. Del tutto infondato è il dogma secondo il quale la modernità occidentale sarebbe caratterizzata da un progresso assoluto e indiscutibile nelle relazioni tra i generi, mentre a essere immersi/e nelle tenebre del patriarcato sarebbero gli altri/le altre. Per riferire dati ben noti, nell’ultimo rapporto (2013) sul Gender Gap del World Economic Forum, su 136 paesi di tutti i continenti, le Filippine figurano al 5° posto su scala mondiale per parità tra i generi (dopo Islanda, Finlandia, Norvegia e Svezia), mentre l’Italia è solo al 71°, dopo la Cina e la Romania e in controtendenza rispetto alla maggior parte dei paesi europei. Eppure non sempre c’è un rapporto inversamente proporzionale tra la conquista della parità di genere e la violenza sessista. Esemplare è il caso della Svezia (ma anche, in diversa misura, della Danimarca, Finlandia, Norvegia). Questo paese, da sempre in prima linea nel garantire la parità fra i generi, tanto da occupare, come si è detto, il 4° posto su 136 paesi, registra un numero crescente di stupri: negli ultimi vent’anni si sono quadruplicati, al punto da interessare una donna svedese su quattro. Ciò dipende non solo dal fatto che il numero di denunce sia aumentato rapidamente quale effetto di una crescente consapevolezza femminile, ma anche da un reale incremento dei casi. Ancora a proposito dell’Europa e volendo fare un riferimento ormai storico, si può ricordare che un paese come la Jugoslavia, il quale all’epoca si distingueva per un livello alto di emancipazione femminile, di sicuro più elevato che nell’Italia di allora, ha conosciuto nel corso della guerra civile l’orrore degli stupri etnici. Il pene usato come arma per colpire i nemici attraverso i corpi femminili mostra, fra l’altro, la continuità tra l’odio e la violenza “etnici” e la violazione delle donne, finalizzata al loro annientamento: lo stupro nasconde sempre un desiderio o una volontà di colpire l’identità e l’integrità della persona-donna. Ci sono ragioni varie e complesse che possono spiegare come mai in società “avanzate”, avanzi pure il numero di stupri e femicidi. Per citarne una: non tutti gli uomini sono in grado o disposti ad accettare i cambiamenti che investono i ruoli e la condizione femminile, che anzi spesso sono vissuti come minaccia alla propria virilità o al proprio “diritto” al possesso se non al dominio. La narrazione della virilità è divenuta oggi meno credibile che in passato. E molti uomini appaiono spaventati dalle rappresentazioni e dalle immagini dell’intraprendenza, anche sessuale, delle donne (più che dalla realtà di una loro autonomia effettiva, almeno in Italia, dove è alquanto debole). Questa inadeguatezza della società (maschile) si riflette anche nelle prassi delle istituzioni rispetto alla violenza di genere, spesso tardive e/o inadeguate. Per esempio, in molti casi che hanno come esito il femicidio, le vittime avevano denunciato più volte i loro persecutori. Tutto questo per dire che il sadismo, la volontà di reificare e/o annientare le donne e gli altri sono all’opera dentro le nostre stesse società, in forme più o meno latenti, finché certe condizioni non ne rendono possibili le manifestazioni palesi. Il sistema di dominazione e appropriazione delle donne (per usare il concetto-chiave della sociologa femminista Colette Guillaumin) tende a colpire – con lo stupro o il femicidio – non solo le estranee o quelle che, come in Jugoslavia, sono state alterizzate e nemicizzate, ma anche le donne con le quali s’intrattengono relazioni d’intimità o prossimità. Basta dire che, su scala globale, il 40% delle donne uccise lo sono state da un uomo a loro vicino. E, per riferirci ancora all’Europa, secondo le Nazioni Unite la metà delle donne assassinate tra il 2008 e il 2010 lo sono state da persone cui erano legate da qualche relazione stretta (per gli uomini lo stesso dato scende al 15%). Per tutto ciò che abbiamo detto finora, conviene diffidare degli schemi evoluzionisti e dei facili ottimismi progressisti: il pregiudizio, la dominazione e/o la discriminazione in base al genere – come quelli in base alla “razza”, alla classe, all’orientamento sessuale – non sono necessariamente residuo arcaico del passato, segno di arretratezza o di modernità incompiuta, destinato a dissolversi presto. Sono piuttosto tratti che appartengono intrinsecamente e strutturalmente anche alla tarda modernità; o forse dovremmo precisare alla modernità decadente. Per dirla nei termini delle curatrici de “Il lato oscuro degli uomini”, un libro prezioso, appena pubblicato nella collana “sessismoerazzismo” dell’Ediesse, la violenza maschile contro le donne è sia “prodotto dell’ordine patriarcale”, sia “frutto delle moderne trasformazioni delle relazioni fra donne e uomini” (p. 33). Secondo un altro luogo comune corrente, per contrastare e superare la violenza di genere sarebbe sufficiente un cambiamento culturale, tale da archiviare finalmente i residui della cultura patriarcale e di tradizioni retrive. Una pia illusione: la Svezia può dirsi forse un paese dominato da cultura patriarcale? Insomma, se è vero che la violenza di genere è un fenomeno strutturale, come si ammette, essa è incardinata in dimensioni molteplici. Per dirla in modo succinto, il dominio maschile ha una matrice culturale e simbolica, certamente, ma anche assai materiale. Se ci limitiamo al caso italiano, il neoliberismo, la crisi del Welfare State, l’esaltazione del modello del libero mercato, le privatizzazioni, poi la crisi economica e le politiche di austerità hanno significato per le donne arretramento in molti campi. E arretramento significa perdita di autonomia, dunque incertezza di sé, maggiore subalternità e vulnerabilità. Certo, in Italia, un contributo rilevante alla reificazione-mercificazione dei corpi femminili lo ha dato la televisione, in particolare quella berlusconiana. Per lo più volgare, sessista, razzista, è stata ed è elemento cruciale dell’offensiva contro le donne e le loro pretese di uguaglianza, autonomia, liberazione. Essa ha finito per condizionare non solo il linguaggio dei politici, sempre più apertamente sessista, ma la stessa struttura del potere politico e delle istituzioni. Per non dire dell’uso dei corpi femminili come tangenti: merci di scambio di un sistema di corruzione ampio e profondo a tal punto da essere divenuto sistema di governo. Ed è innegabile che oggi in Italia vi sia una notevole complicità della società, delle istituzioni, dell’opinione pubblica, perfino di una parte della popolazione femminile rispetto a un tale immaginario e a un simile utilizzo dei corpi femminili. E allora non c’è niente da fare? Tutt’altro. Ma la questione va declinata anzitutto in termini politici. A salvarci non sarà il recente provvedimento – tipica misura da larghe intese – che affronta il tema della violenza maschile in termini tutti emergenziali (e accanto a misure repressive contro il “terrorismo” dei NoTav, i furti di rame e cose simili). E neppure possiamo illuderci che l’attenzione riservata a questo tema dalle istituzioni e dai media mainstream rappresenti un avanzamento certo e irreversibile. Né compete principalmente alle donne la cura (ancora una volta!) del “lato oscuro degli uomini”. A noi tutte spetta, invece, contribuire a ricostruire una soggettività collettiva libera, combattiva, consapevole della propria autonomia e determinazione. E tale da sabotare l’esercizio del dominio maschile, su qualunque scala e in qualunque ambito si manifesti

lunedì 11 novembre 2013

Non si nasce donna al Mfla

Nello spazio approfondimenti della trasmissione radiofonica del martedì di Mfla, presentazione dell'ultimo dei Quaderni Viola, Non si nasce donna. Percorsi, testi e contesti del femminismo materialista in Francia(Alegre, 2013), al quale il Mfla aveva già dedicato uno spazio a maggio nella rubrica Fatti e misfatti. Palinsesto dettagliato di questa nuova puntata qui. Buon ascolto a tutte/i! // (Alcuni) articoli correlati in Marginalia: Audre Lorde e Adrienne Rich su Mfla, Non si nasce donna / Una recensione di Paola Guazzo, Le potenzialità e l'abuso di un passepartout nato per scardinare le discipline del sapere, Non si nasce donna / Una recensione su Iaph Italia, Femministe di tutto il mondo unitevi (ai microfoni del Mfla).

venerdì 25 ottobre 2013

Non si nasce donna / Una recensione di Paola Guazzo

Dopo le recensioni a Non si nasce donna (Alegre, 2013) di Silvia Nugara per Iaph Italia e Alessandra Pigliaru per Il Manifesto, ripubblichiamo ora la recensione  di Paola Guazzo (che ringraziamo infinitamente) comparsa qualche giorno fa sul suo Guazzington Post. Buona lettura! // Finalmente esce un libro di sintesi su un fenomeno consistente e relativamente poco conosciuto in Italia: il femminismo materialista francese, che va alle radici del celebre assunto di De Beauvoir ( “non si nasce donna”) per dirci che “la donnità è una costruzione storica e sociale” (p.6), mettendo in questione “le evidenze, questa forma sacralizzata dell'ideologia” (p.8). Elaboratosi a partire dalla creazione della rivista “Qf” (“Questions Féministes”) nel 1977, il femminismo materialista francese è innanzitutto un potente strumento di indagine e messa in questione di un ordine sociale che “naturalizza” le proprie gerarchie di potere; sesso, razza e sessualità vengono considerate fatti naturali, non fatti sociali, e pertanto fissate in “evidenze” immutabili. Per contro: “Lo studiare i modi con cui i rapporti sociali diventano talmente solidi da sembrare naturali permette di iscriverli nella storia, aprendo, in tal modo, uno spazio di possibilità perché le cose possano essere altrimenti” (p.9). Il femminismo materialista francese è stato poco seguito, o comunque sottovalutato nella sua portata euristica, in Italia. Sono pochi i testi tradotti e conosciuti nel nostro paese, dove si è passate direttamente da un femminismo della “differenza”, ispirato da Luce Irigaray – ed anche, in una prima fase, da assidui scambi con il gruppo francese di “Psyc et Po”, con il quale le femministe di Qf furono in polemica implicita ed esplicita - ad una queer theory incarnata dal costruzionismo (lacaniano) di Judith Butler e dal costruzionismo (freudiano) di Teresa de Lauretis. Un trionfo psicoanalitico, sia nella versione essenzialista che in quella costruzionista. Gli scritti delle teoriche francesi presentate dal libro di Garbagnoli e Perilli, per contro, sono quasi tutti svolti nell'ambito di ricerche antropologiche, accademiche e non (penso all'eccezione-Wittig, che è scrittrice, lavora sul linguaggio, è una sorta di “battitrice libera”, come sarà poi Michèle Causse; due lesbiche dichiarate, sia detto non en passant). Un'analisi comparata dei concetti antropologici e psicoanalitici di “cultura” utilizzati nei feminist studies di varie tendenze sarebbe utile? Lascio la questione aperta. Non si nasce donna presenta in apertura il denso saggio di Paola Di Cori, French Feminism: tra Christine Delphy e Gayatri Spivak, Appunti, che chiarisce fra l'altro alcuni aspetti della diffusione del pensiero della Holy Trinity (Irigaray, Cixous, Kristeva) negli Stati Uniti fra anni 70 e 80, demistificandone la portata alternativa e anche femminista. Vengono poi presentate opere e teoria del femminismo materialista francese, seguendone le incarnazioni soggettive e presentando per ognuna un significativo essay. Christine Delphy, Colette Guillaumin, Nicole-Claude Mathieu, Paola Tabet e Monique Wittig sono sapientemente introdotte, da studiose-militanti ad esse vicine, nella loro portata epistemologica ed anche “umana” ( e qui il termine universalistico-maschile andrebbe ovviamente sostituito, in un linguaggio che non c'è ancora e che Wittig ha cercato di inventare). Non è stato insignificante, per me, questo stile di Non si nasce donna, che dice (anche) dell'ironia di Nicole-Claude Mathieu e del post-sessantotto, fra viaggi e tentativo di vita in una comune, di Paola Tabet, per citare solo le prime due tranches de vie che mi vengono in mente. Non si nasce donna è un'esperienza forte e liberatoria, come può esserlo solo l'analisi materialistica di un'oppressione che giace, profondamente radicata e difficile da estirpare, nella stessa definizione di “donna”, nonché in linguaggi, forme di vita, poteri e strutture economiche ad essa connessi. Mi ricollego, infine, alle parole delle curatrici: “ Il volume aspira ad essere uno strumento di introduzione ad un approccio che, iscrivendo nell'immanenza della politica ciò che l'ordine sociale produce come “natura”, ha contribuito a creare i germi di una vera e propria rivoluzione cognitiva, ovvero politica” (p.11)

sabato 19 ottobre 2013

Introduzione agli studi di genere e queer

Scrivere e continuare a fare ricerca precariamente e ai margini (o al di fuori) dei circuiti (accademici e non) di produzione dei saperi non è facile, come ben sappiamo in molte/i. Parimenti quello che, con molta fatica, riusciamo a produrre resta spesso poco visibile, fuori dai grandi circuiti della distribuzione e quindi letto e discusso da poche/i. Anche per questo ci ha fatto un piacere enorme trovare, insieme ad altri volumi, il "nostro" Non si nasce donna (Alegre, 2013) nella bibliografia del Laboratorio di introduzione agli studi di genere e queer di Marco Pustianaz al Dipartimento di Studi Umanistici di Vercelli (qui il programma). Approfittiamo di questo post per segnalare a quante/i hanno difficoltà a reperire il libro che questo può essere acquistato direttamente dall'editore, presso il quale tra l'altro in questi giorni, e fino al 27 ottobre, è possibile usufruire dello sconto del 40%. Per info cliccare qui.

domenica 1 settembre 2013

Non si nasce donna / Una recensione su Iaph Italia

Di seguito la recensione all'ultimo volume dei Quaderni Viola sul femminismo materialista francese, Non si nasce donna, scritta da Silvia Nugara, che ringraziamo, per Iaph Italia. Buona lettura! // La nuova serie della collana Quaderni Viola edita da Alegre si propone di mettere a disposizione “delle donne che desiderano fare politica per le donne” - così in quarta - materiali per conoscere la storia e l’attualità delle riflessioni femministe attraverso dossier monotematici. Dopo aver riflettuto su lavoro (Lavorare stanca, 2008), razzismo e sessismo (La Straniera, 2009), lesbismo (Orgoglio e pregiudizio, 2010) e lotta sindacale nella crisi (Sebben che siamo donne, 2011), questo quinto volume è dedicato non a un tema ma a un filone di pensiero: il femminismo materialista francese. Con questa denominazione si fa riferimento a un gruppo di teoriche il cui lavoro, al di là dei diversi problemi esplorati e degli apparati concettuali elaborati da ciascuna, si è impegnato a restituire la dimensione culturale, storica e ideologica delle divisioni dicotomiche e gerarchiche attraverso cui sono organizzati sesso (uomo/donna), sessualità (etero/omo) e razza (bianchi/neri; noi/loro). Come testimonia il titolo del libro, tale impresa anti-essenzialista si staglia sullo sfondo dell’“affermazione più sovversiva e liberatoria dei discorsi femministi” (Introduzione, p. 6) enunciata da Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso: “non si nasce donna”. Dopo un’articolata ma sintetica sezione introduttiva, il volume è strutturato in cinque parti, ognuna dedicata a una figura di rilievo del gruppo raccoltosi attorno alla rivista Questions féministes a partire dal 1977: Christine Delphy, Colette Guillaumin, Nicole-Claude Mathieu, Paola Tabet e Monique Wittig. Le curatrici hanno scelto di dare voce alle stesse autrici pubblicando di ognuna un articolo rappresentativo (inedito in italiano) preceduto da un saggio di inquadramento teorico (di Perilli su Delphy; di Renate Siebert su Guillaumin; di Valeria Ribero Corossacz su Mathieu; di Gabriella Da Re su Tabet e di Garbagnoli su Wittig) e seguito da una breve scheda bio-bibliografica. Come spiegano Garbagnoli e Perilli nell’apertura intitolata Non si nasce (donna). La denaturalizzazione come “questione femminista (pp. 8-11), il materialismo di queste pensatrici va ben oltre l’accezione marxiana e prende a oggetto dell’analisi la compenetrazione tra rapporti materiali e di senso nelle relazioni di dominio che fa sì che la loro naturalizzazione, operante attraverso l’iscrizione nei corpi, nel linguaggio, nelle categorie mentali e istituzionali delle gerarchie sociali, sia tanto efficace. Il materialismo di queste femministe produce, in tal modo, la comprensione del rovesciamento da causa a effetto attraverso cui operano le diverse forme di oppressione. Ciò che è socialmente appreso come origine dell’oppressione (la forma di un sesso, il colore della pelle, e così via) ne è, in realtà, l’effetto: il “sesso” (la “razza”) non è un dato, un’essenza, una proprietà inerente ai soggetti che ne esprimerebbe la natura, ma un marchio – feticcio marxiano – socialmente pertinente ed efficace perché cristallizza, nascondendoli, presistenti [sic] rapporti di dominazione e sfruttamento (p. 9). Questo libro costituisce quindi un importante invito alla lettura di pensatrici francesi da noi ancora poco tradotte e studiate (per esempio, tra tutte solo Monique Wittig figura nell’antologia Le filosofie femministe di Cavarero e Restaino). In Italia, infatti, il ruolo di maggior rilievo è stato giocato dal femminismo della differenza e, per quanto riguarda il pensiero transalpino, tanto da Psychanalyse et Politique con cui le materialiste erano in polemica, quanto dalla triade Kristeva-Irigaray-Cixous tramite una triangolazione con gli Stati Uniti e quel French Feminism di cui Paola Di Cori ricostruisce in modo avvincente la parabola intellettuale nel saggio French Feminism: tra Christine Delphy e Gayatri Spivak. Appunti (pp. 13-20). La riflessione materialista si articola in modo dinamico ed evolutivo lungo tutti gli assi portanti del femminismo dagli anni Settanta a oggi: il rapporto tra lotta di classe e lotta contro il patriarcato (si pensi alle analisi di Christine Delphy ne L’ennemi principal); le relazioni tra biologia, cultura e soggettività e quindi la diade sesso-genere; le relazioni razzismo-sessismo-classismo prima che emergesse il concetto di “intersezionalità” (si vedano in particolare i lavori di Colette Guillaumin a partire da L’Idéologie raciste del 1972 e di Paola Tabet); la violenza contro le donne (Delphy e Nicole-Claude Mathieu); il lesbismo (particolarmente creativi e pugnaci sono gli scritti letterari e teorici di Monique Wittig) e l’analisi politica dell’eterosessualità (su cui la redazione di QF si divise dando luogo nel 1981 a Nouvelles Questions Féministes); la riproduzione come lavoro nell’economia capitalista globale (l’antropologia di Paola Tabet); gli aspetti problematici delle pratiche politiche identitarie e della nozione di differenza ma anche di approcci post-identitari come il queer (Nicole-Claude Mathieu). L’impresa denaturalizzatrice di queste teoriche costituisce una rottura epistemologica che ha richiesto l’elaborazione di nuove griglie concettuali attraverso cui leggere – ma soprattutto immaginare (“spensare” dice Guillaumin) – la realtà perché, come spiega Delphy nel suo saggio del 2001, qui riproposto, Pensare il genere: problemi e resistenze: per conoscere la realtà, e dunque per eventualmente cambiarla, bisogna abbandonare le proprie certezze e accettare l’angoscia, temporanea, di una accresciuta incertezza sul mondo; […] il coraggio d’affrontare l’ignoto è la condizione dell’immaginazione e la capacità di immaginare un mondo altro è un elemento essenziale dell’approccio scientifico: essa è indispensabile all’analisi del presente (p. 29). Da ciò deriva l’elaborazione di ottiche d’analisi nuove. Per esempio, Maria Gabriella Da Re ricostruisce come Paola Tabet in Les mains, les outils, les armes, del 1979, analizzi la divisione sessuale del lavoro non domandandosi “chi fa che cosa” ma “chi fa con che cosa” mettendo perciò in luce non tanto le classiche “limitazioni naturali delle donne” quanto piuttosto il loro “sottoequipaggiamento”. Le rotture epistemologiche richiedono anche un vocabolario nuovo, ragione per cui il materialismo francese è anche una fucina di innovazioni terminologiche mai accessorie: Christine Delphy abbandona il concetto statico ed essenzialista di “condizione della donna” in favore della più esplicita nozione di “oppressione”; Colette Guillaumin elabora la distinzione tra ”razzismo autoreferenziale” e “razzismo eteroreferenziale”; Nicole-Claude Mathieu parla di “sesso sociale” e Guillaumin di “sexage”; Paola Tabet concepisce l’idea di “scambio sessuo-economico” e Monique Wittig fa del linguaggio un terreno di elezione per immaginare e costruire quell’utopia androgina per cui lavorò tutta la vita. Se la riflessione su natura e cultura, su sesso e genere, su genere e non genere attraversa tutti i testi qui raccolti, particolarmente interessante risulta la scelta delle curatrici di proporre in appendice il saggio della storica francesista americana Joan Scott intitolato Genere: usi e abusi (pp. 159-166) che insiste sulla dimensione evolutiva della nozione di genere e riprende in gran parte la lectio tenuta a Padova nel febbraio 2013 al VI congresso della Società Italiana delle Storiche. Per concludere, di questo Quaderno Viola non inganni l’agile formato: si tratta di un volume denso e ricchissimo, un compendio di cui si sentiva la necessità e forse per questo è stato tradotto un po’ troppo di corsa, corredato da una bibliografia indispensabile per l’approfondimento. I saggi introduttivi e gli articoli antologizzati lasciano infatti a chi legge la voglia di consultare analisi di più ampio respiro in cui trovi spazio non solo il pensiero ma anche l’esperienza, dimensione fondamentale proprio di quel Secondo Sesso sotto il cui segno questo lavoro si iscrive //

sabato 17 agosto 2013

Le potenzialità e l'abuso di un passepartout nato per scardinare le discipline del sapere

Nell'edizione de Il Manifesto del 14 agosto Alessandra Pigliaru, che ringraziamo ancora, ha dedicato una puntuale recensione a due saggi "sull'uso e la critica del concetto di genere". Si tratta della raccolta di scritti di Joan W. Scott recentemente pubblicata da Viella - di cui avevamo ri-parlato solo qualche giorno fa - e del nuovo Quaderno Viola curato da Sara Garbagnoli e dalla sottoscritta sul femminismo materialista francese, Non si nasce donna. Di seguto la recensione, buona lettura // «Coloro che si propongono di codificare i significati delle parole combattono una battaglia perduta, poiché le parole, così come le idee e le cose che sono chiamate a esprimere, hanno una storia». Così Joan W. Scott, nel 1985 a New York, apriva il suo intervento al convegno dell'American Historical Association. La parola a cui si riferisce viene svelata dal titolo della comunicazione: Il «genere»: un'utile categoria di analisi storica. Docente a Princeton e impegnata in prima linea nel rinnovamento delle discipline storiche e degli studi delle donne, Scott è stata poco tradotta in Italia seppure la sua ricezione sia stata fondamentale per gli studi di genere. Dobbiamo ringraziare Ida Fazio che ne ricostruisce gli interventi sul tema per comporre un volume importante e rigoroso. Si intitola Genere, politica, storia (Viella, pp. 320, euro 28) e oltre i quattro importanti scritti di Joan W. Scott - discussi e redatti dal 1985 al 2013 - raccoglie i saggi di Maria Bucur, Dyan Elliott, Gail Hershatter, Joanne Meyerowitz, Heidi Tinsman e Wang Zheng, storiche di diverse aree geografiche, intervenute nel 2008 al Forum dell'«American Historical Review». Il volume, con una generosa postfazione di Paola Di Cori, è uno strumento prezioso per avere un'idea chiara di quanto il percorso di Joan Scott sia stato rilevante e quale sia il punto nell'assimilazione del genere in capo agli studi storici. Il genere, costruzione sociale che offre interessanti possibilità analitiche ed epistemologiche, ha avuto infatti un destino e una diffusione importanti proprio grazie alle riflessioni di Scott e di altre studiose, in prevalenza storiche, che dalla metà degli anni Ottanta in poi hanno contribuito sensibilmente alla ricerca dentro e fuori l'Accademia. Le diffidenze iniziali a considerare il genere come un'efficace categoria storica e politica - in quel pericolo ravvisato dalla confusione e dal depotenziamento della storia delle donne mutata in storia di genere - è stata l'occasione di mettere a tema numerose questioni, insieme alla interlocuzione potente delle posizioni Lgbqt e della critica queer. Il punto di vista generazionale e la possibilità di dialogo con i diversi approcci, sono gli elementi che hanno portato in Italia più di una riflessione dialogante sul genere. In questo scenario, il lavoro della Società Italiana delle Storiche ha molto influito sullo stato del dibattito. Certo che le analisi risentono del contesto socio-culturale in cui attecchiscono; così negli Stati Uniti si è radicalizzata la difficoltà tra storia delle donne e storia di genere, mentre in Europa la relazione tra i due orientamenti tende ad essere meno marcata. Ciò che Scott mostra riguardo l'utilità del genere come categoria storica è la consapevolezza della sua valenza critica, ma non è tutto. Mostra infatti magistralmente la genesi del concetto e tutte le relative declinazioni; riconosce inoltre la pericolosità del suo abuso. L'attenzione al lavoro sul genere, come costruzione storico-sociale che dunque non può essere né naturalizzata né ricacciata in un antagonismo acritico e dicotomico tra donne e uomini, proviene anche dal recente volume curato da Sara Garbagnoli e Vincenza Perilli dal titolo eloquente Non si nasce donna (Edizioni Alegre, pp. 187, euro 5). Il solco scandagliato non è quello di matrice statunitense bensì, come recita il sottotitolo, attiene ai percorsi, testi e contesti del femminismo materialista in Francia. Eppure non a caso, in questo intenso progetto editoriale, uno dei saggi tradotti è proprio il più recente di Scott relativo all'uso e all'abuso della categoria di genere. Inserirne la riflessione accanto a quelle di femministe materialiste quali Christine Delphy, Colette Guillaumin, Nicole-Claude Mathieu, Paola Tabet e Monique Wittig, ha una sua ragionevolezza politica. Le prime quattro, ancora viventi, sono entrate in relazione con Garbagnoli e Perilli acconsentendo non solo alla pubblicazione di alcuni loro saggi all'interno del volume ma sostenendole - seppure in lontananza - nell'intero progetto.Si parte dai punti di comunanza riguardo ai concetti di denaturalizzazione e storicizzazione: nonostante le evidenti influenze marxiste (di cui si avverte la consonanza linguistica per esempio nel concetto di classe), psicoanalitiche e quelle relative alle teorie delle rivolte anticoloniali, il materialismo che riecheggia in questo tipo di femminismo prevede un netto allontanamento dal determinismo biologico e dalla trappola della scissione tra attivismo e teoria. Così dalla fine degli anni Settanta in Francia, la riflessione femminista si intreccia con la desacralizzazione delle apparenti evidenze di genere, sesso e razza. Fino a quel momento pensate «come fossero invarianti sociali, dati di natura», vengono ripensate e ridiscusse nel contesto socio-politico della radicalità femminista francese. La fucina delle idee prende avvio nell'alveo di due riviste, prima Questions Féministes (diretta da Simone de Beauvoir) e dopo qualche anno Nouvelle Questions Féministes che radunarono attorno alle rispettive redazioni alcune tra le personalità di spicco dell'attivismo politico e teorico del femminismo materialista. I testi presenti nel volume, quasi tutti inediti in Italia e introdotti finemente dalle stesse curatrici e da Renate Siebert, Valeria Ribeiro Corossacz, Maria Gabriella Da Re e Sara R. Farris, ci consegnano le principali questioni dibattute sul contrasto circa le varie forme di oppressione e dominazione insieme allo statuto delle soggettività minoritarie e allo studio dei processi di alterizzazione. In questo senso, si introducono numerosi elementi di novità del dibattito femminista per andare a comporre la plurale cartografia in divenire degli approcci antinaturalisti - seppure con alcuni distinguo per esempio rispetto a Butler. Dare voce ad altre esperienze di lotta e teoria politica diventa così una possibilità importante di conoscenza e apertura nel presente.

domenica 7 luglio 2013

Il colore come marchio

Nel suo Race e Nature. Système des marques, idée de groupe et rapports sociaux (1977) - che abbiamo recentemente tradotto e pubblicato in Non si nasce donna - Colette Guillaumin ricostruisce la storia della (recente) nascita del "sistema dei marchi" (e tra questi i tratti somatico-morfologici come il "colore"), aspetto cruciale nella genealogia del razzismo. Non è esattamente la stessa cosa (mi sembra ovvio ma specifico a scanso di equivoci), ma leggendo su Il Paese delle donne della ricerca di Jo B. Paoletti (Pink and Blue: Telling the Girls From the Boys), sul fenomeno del rosa e dell’azzurro come colori di genere, è scattata immediatamente l'associazione

giovedì 23 maggio 2013

Femminismo materialista / Non si nasce donna a Roma

Sabato 25 maggio alle ore 19 presso la libreria Alegre (via Circonvallazione Casilina 72-74),  prima presentazione del volume Non si nasce donna. Percorsi, testi e contesti del femminismo materialista in Francia, a cura di Sara Garbagnoli e Vincenza Perilli e con saggi di Christine Delphy, Maria Gabriella Da Re, Paola Di Cori, Sara R. Farris, Sara Garbagnoli, Colette Guillaumin, Nicole-Claude Mathieu, Vincenza Perilli, Redazione Quaderni Viola, Valeria Ribeiro Corossacz, Joan W. Scott, Renate Siebert, Paola Tabet e Monique Wittig. A seguire aperitivo. Non mancate ;-) // Su Non si nasce donna vedi anche 1, 2, 3 ...