martedì 21 agosto 2007

Che cosa resta del femminismo?

Luisa Passerini, Femminismo nel mondo? E' più vivo che mai, in Liberazione, 19 luglio 2007

Che cosa resta del femminismo? - si chiedono le curatrici dell'ultimo numero di "Zapruder". Molto, posso rispondere come lettrice, dopo aver visto il fascicolo, evidentemente frutto di un lavoro lungo e meditato. Molto, perché nuove voci e nuovi punti di vista si sono manifestati negli ultimi tempi, da pubblicazioni provenienti dalla Società italiana delle storiche (come "Genesis" su femminismi e culture oltre l'Europa e Altri femminismi a cura di Teresa Bertilotti, Cristina Galasso, Alessandra Gissi, Francesca Lagorio) all'insieme degli scritti raccolti ora in "Zapruder" - Donne di mondo. Percorsi transnazionali dei femminismi , a cura di Liliana Ellena e Elena Petricola, Odradek, pp. 160, euro 10. Dopo e grazie a questi lavori, potremo riprendere in modo più meditato la riflessione su continuità e discontinuità del femminismo italiano. Alle origini di questo "Zapruder" sta l'intento delle curatrici - espresso nell'editoriale Femminismi di frontiera dagli anni settanta a oggi - di interrogarsi su temi come la discontinuità e l'eredità del neofemminismo, la dislocazione contemporanea delle soggettività femministe in nuovi contesti, e le diverse posizionalità all'interno del femminismo. Sebbene il taglio proposto sia apertamente decostruttivo - «ci ha guidate soprattutto il desiderio di mettere in primo piano quelle pratiche che hanno proposto, rivisto e scardinato le teorie elaborate negli ultimi trent'anni» - in realtà il fascicolo ha un carattere costruttivo rispetto all'intento di documentare i rapporti tra il femminismo occidentale e la nascita di movimenti femministi postcoloniali. Ciò è soprattutto evidente nella parte centrale, dedicata a due saggi rispettivamente sull'ecofemminismo in India, di Laura Corradi, e sulle biografie di tre femministe africane tra diaspora e afrocentrismo, di Sara Tagliacozzo. Questi scritti arricchiscono la nostra comprensione di tali realtà postcoloniali e contemporaneamente offrono spunti per aprire il dibattito su dilemmi e problemi che oggi ci interessano tutte e tutti. Il saggio di Corradi sul contrasto tra l'approccio essenzialista del femminismo indiano, che ha proposto il principio femminile come legame immediato con la natura dea-madre (per esempio: Vandana Shiva), da un lato, e l'approccio social-costruzionista, dall'altro lato. Questo secondo interpreta il rapporto donna-natura come una costruzione sociale e culturale, mentre accusa le essenzialiste di limitare la loro critica al colonialismo e alla globalizzazione, senza giungere ad attaccare a sufficienza l'oppressione patriarcale locale (per esempio: Bina Agarwal e Meera Nanda). A sua volta, Tagliacozzo mette in luce pensieri e attività di femministe africane che riprendono - in affascinanti utopie contemporanee - il retaggio delle società matriarcali pre-coloniali, rischiando tuttavia un "etnocentrismo invertito" che risulterebbe in una scorciatoia ideologica. Questa scorciatoia, che nasce in parte da una certa ostilità all'antropologia e alla storiografia femminista occidentali, ignora sul piano ideologico quello che le stesse intellettuali femministe africane - come la sociologa-etnografa nigeriana Ifi Amadiume, la scrittrice e drammaturga camerunese Werewere Liking, e la psicologa e teorica Amina Mama, attualmente direttrice dell'African gender institute di Cape Town - concorrono a mettere in luce, cioè che le loro realtà sono inserite a pieno titolo nei flussi transnazionali di persone e culture della modernità globale. E' un merito delle due autrici esporre con chiarezza questi dilemmi e problemi, senza nasconderli dietro un atteggiamento di mero ascolto, talvolta adottato - anche con buone ragioni - dagli intellettuali occidentali.
L'atteggiamento di ascolto è stata una giusta reazione alle precedenti posizioni eurocentriche, e per certi versi può essere tuttora valido. Tuttavia, ormai è tempo di riconoscere che dilemmi e conflitti intellettuali simili attraversano l'occidente che in passato fu colonizzatore e le aree che in passato furono colonizzate, che l'occidente non è affatto, e non lo è mai stato, un tutto unico e coerente, e che l'esito dei dibattiti che possono scaturire dal riconoscimento di diverse posizioni ci riguarda profondamente e da vicino. Tutto ciò mi sembra particolarmente vero per quanto riguarda il femminismo. Il solo ascolto è inadeguato non solo perché potrebbe nascondere un senso inconfessato di superiorità, ma anche perché i problemi in questione sono urgenti a livello globale: forme di essenzialismo femminista sono ancora diffuse ovunque, a vari livelli e in modi diversi, e altrettanto lo sono varianti dell'etnocentrismo, talvolta non bieche, ma ingenuamente ottimistiche nel rilancio di culture del passato. Per questo mi sembra più adeguata una conclusione problematica come quella di Sara Tagliacozzo che non quella più ottimistica di Laura Corradi. Un altro contributo importante di questo "Zapruder" è la rilevanza data alle immagini, in tutto il numero, ma soprattutto nell'inclusione di due dossier fotografici, l'uno di Marilaide Ghigliano sugli incontri femministi internazionali degli anni Settanta, e l'altro di Maila Iacovelli su donne del Mali in tempi recentissimi. In entrambi colpisce l'allegria di alcune donne al lavoro o in dialogo tra loro, ma soprattutto con entrambi si pone una sfida alla storiografia, di saper interpretare queste fonti, che rappresentano una nuova frontiera della ricerca storica.
Proprio sul piano storiografico, i due saggi che aprono il fascicolo sono consistenti e di notevole spessore critico. Vincenza Perilli ricostruisce con intelligenza e dovizia di documentazione la storia dell'analogia tra razza e genere, gettando nuova luce sulla storia del femminismo, e ricordando che questa analogia, "imperfetta", ha contribuito a rendere invisibili le donne non bianche. La sua analisi giunge a colpire il presente, nell'additare una certa "storiofobia" del femminismo italiano della differenza e soprattutto nel richiamare l'attuale dibattito sui-sulle migranti, che Perilli invita a maggior concretezza. Un filo comune a questo saggio e al successivo, di Paola Guazzo, è l'attenzione al linguaggio, una tradizione propria a molte ali del femminismo. Guazzo la declina con finezza a proposito della traduzione e ricezione di testi internazionali - come quelli di Adrienne Rich e Monique Wittig - nella riflessione dei gruppi lesbici italiani dagli anni Ottanta agli anni Novanta, con una rivisitazione che si rivela preziosa nel ripercorrere questa storia ancora insufficientemente conosciuta.

L'ultimo "Zapruder" contiene altri interventi più brevi su temi di notevole interesse, dalla questione del velo (Chiara Bonfiglioli) alla "questione femminile" in Antonio Gramsci (Martina Guerrini), dal pensiero di Mario Mieli (Cristian Loiacono) alle notizie sull'anagrafe dei partigiani e delle partigiane in Emilia-Romagna (Sara Galli), dall'Archivia della Casa internazionale delle donne a Roma (Emanuela Fiorletta) a una critica dei libri di testo sul concetto di totalitarismo (Gino Candreva) e a un pertinente bilancio dell'esperienza della "Feminist Review", che ha conosciuto conflitti laceranti, ma anche passi avanti significativi sul tema del rapporto tra razza e genere (Enrica Capussotti). Il fascicolo comprende anche tre belle interviste, la prima di Stefania Voli alla femminista storica Angela Miglietti, traduttrice di Noi e il nostro corpo ; la seconda di Silvia Bonanni a Gabriella Romano, regista e autrice che ha condotto e usato testimonianze di donne lesbiche per il suo lavoro; e la terza di Carla Pagliero ad Alina Marazzi, regista di documentari di natura storica e biografica di grande suggestione. Il fascicolo si chiude con un breve intervento a firma collettiva (una ben nota prassi dei movimenti delle donne) di A/matrix su biotecnologie, corpi e immagini. Mi rallegra udire questa voce che mi parla contemporaneamente da una vicinanza e una distanza. Riconosco (o ritrovo dopo lungo tempo, e apprezzo) la pervicacia nel voler «dire la nostra su tutto ciò che riguarda le nostre vite», il tono del dissenso radicale, la rivendicazione della politica come piacere, la volontà di autonomia ma anche di dialogo, la voglia di sovversione, l'interesse per l'immaginario e le parole da scegliere, nonché la passione per la performance di ispirazione situazionista. La lontananza non è sui temi, che reputo centrali e cruciali, e sui quali condivido le posizioni espresse («l'accesso per tutte e tutti alle nuove tecnologie» e la negazione della biologia come destino), ma - implicitamente - sul tema del limite. Un segno ne è la dichiarazione che «l'età ci interessa poco», il che può sembrare coerente dopo la negazione della determinazione biologica. Ma qui entra la consapevolezza del limite: a me l'età interessa invece molto, da qualche tempo, e in particolare la vecchiaia, proprio come tramite per toccare il limite, sia della vita sia della rivolta, limite che nessuna negazione del determinismo biologico può ignorare. Tuttavia mi piace che "Zapruder" si chiuda su questo rilancio al futuro e su questa apertura di una scommessa politica, apparentemente senza limiti.