domenica 27 gennaio 2008

Donne di mondo. Percorsi transnazionali dei femminismi


Elda Guerra e Stefania Voli
dialogano con

Liliana Ellena (curatrice), Paola Guazzo e Vincenza Perilli (alcune delle autrici) del numero 13 di Zapruder

Donne di Mondo.
Percorsi transnazionali dei femminismi

Giovedi 31 gennaio 2008, ore 18
Aula Magna, Convento S. Cristina - v. del Piombo, 5 - Bologna






Articoli correlati in Marginalia:

Donne di mondo. Una presentazione
Scambi di sguardi. Dimensioni transnazionali dei femminismi
Donne di mondo

Per ulteriori informazioni su questa presentazione bolognese:

Server Donne, La Nuova Towanda, Articolo 21, Zic.it e il sito di Zapruder. Storie in movimento.

Per Donne di mondo rinvio alla recensione di Luisa Passerini:

Femminismo nel mondo? E' più vivo che mai, in Liberazione, 19 luglio 2007.

mercoledì 23 gennaio 2008

Scuole matrigne

Un'ordinanza del Comune di Milano impedisce ai genitori migranti senza permesso di soggiorno di iscrivere i/le loro bambini/e alle scuole materne.
Contro questo provvedimento, contro il razzismo e per i diritti dell'infanzia, sabato 26 gennaio varie associazioni e movimenti invitano ad un "girotondo impertinente" in piazza della Scala.
Non possiamo avere la certezza che questa ordinanza resti un fatto locale e forse andrebbero subito pensate forme di protesta e di dissenso come gli striscioni esposti sulle facciate di alcune scuole parigine in segno di solidarietà con le famiglie di sans-papiers.

________________________

Articoli correlati:

Le colpe dei padri ricadano sui figli, in Scuole senza permesso
Girotondo impertinente. Contro il razzismo e per i diritti dell'infanzia, in Retescuole
Girotondo impertinente, in Artisti immigrati
Girotondo impertinente, in Lavoro e Salute
Giornata mondiale di azione globale, in Critical Mass Milano

e in Marginalia:

Scuola e quartiere senza frontiere

sabato 19 gennaio 2008

Multiculturalismo culinario

Tratto da: Doré Ogrizek, Il mondo a tavola. Guida brillante della gastronomia internazionale, Editoriale Domus, Milano 1953 (ed. or. Le monde à table, Ed. Odé, Paris), pp. 354-355.

"Le tradizioni si perdono. L'antropofagia sta per scomparire e oggi ha solo pochi adepti in qualche tribù del centro dell'Africa e dell'Oceania.
Secondo l'opinione di molte personalità scientifiche, la carne umana sarebbe quella che meglio coverebbe alla nutrizione della creatura umana, quella più facilmente e proficuamente assimilabile dall'organismo. Crediamo sulla loro parola.
Verso il 1890 il Padre Allaire, missionario dello Spirito Santo, fu accolto da queste parole urbanissime quando si presentò dinanzi al capo negro della tribù dei Bondjos: " La carne di un bianco, e soprattutto di un capo bianco, è eccellente con le banane; non ha pelle; vedo solo del grasso".
Alcuni anni prima si vendeva ancora carne umana sul mercato di Brazzaville, come da noi la carne di bue o di montone.
Fra le tribù cannibali del Congo, i Batetelas mangiano i loro genitori al primo segno di decrepitezza e son convinti di render loro un servizio cosi facendo. I Fans fanno a meno dei funerali e li sostituiscono con un banchetto. I Bondjios ingrassano degli schiavi per metterli in pentola. I Pahuin mangiano il nemico ucciso in guerra per assimilarne le virtù.
Le opinioni sono diverse sul sapore di questo alimento. Secondo i Canachi ha il gusto della banana; gli abitanti delle isole Figi assicurano che ha un gusto di nocciola; un gusto di vitello un pò scipito, o di maiale, precisano alcuni buongustai senza pregiudizi... Noi lasceremo il problema aperto.
Ma, secondo l'esploratore Roger Chauvelot, "la carne più apprezzata è quella dell'Australiano, perché quella dell'Europeo ha un gusto sgradevole (è questa, indubbiamente, la causa dello scarso successo avuto dal cannibalismo nei nostri paesi ...).
Noi ci accontenteremo di citare, senza garanzia, le parti scelte. Secondo gli intenditori sono il palmo della mano, le coste, il posteriore, le cosce. Ma vi faremo grazia della ricetta dell"arrosto di uomo allo spiedo" data da William Seabrook nel suo libro sull'Africa, pieno di coscienziose precisazioni tecniche, perchè probabilmente questi particolari toglierebbero l'appetito ai nostri lettori, e questo non è certo lo scopo che si prefigge questo libro di gastronomia".

martedì 15 gennaio 2008

Chi ha paura del separatismo?




Vincenza Perilli, Chi ha paura del separatismo?, in Il paese delle donne, dicembre 2007 *


Vorrei focalizzare l’attenzione sul dibattito, acceso e appassionato, che si è sviluppato – essenzialmente tra donne – nella fase preparatoria della giornata del 24 [1], discussione prevalentemente concentrata sulla scelta delle organizzatrici (e condivisa da molte delle donne presenti a Roma nelle due assemblee preparatorie nazionali e di molte che hanno partecipato alla discussione altrove) di caratterizzare l’iniziativa come una manifestazione di sole donne.
Ritengo che il confronto e le diversità siano elementi preziosi in ogni processo e progetto politico. Nondimeno vorrei rilevare come, a mio parere, questa discussione si sia svolta su delle false premesse che, se da una parte non sono state in grado di cogliere le reali motivazioni dell’opzione “separatista”, dall’altra hanno rivelato una non conoscenza delle molteplici e distinte espressioni storiche del separatismo, del dibattito che le ha accompagnate e delle inedite e “fluttuanti” configurazioni assunte da questa pratica politica nel contesto odierno, soprattutto in quelle che – con termine ambiguo, ma oramai corrente -, vengono definite “giovani generazioni” femministe.
Nonostante il singolare usato nel titolo che ho dato a questo mio intervento, sarebbe opportuno parlare di “separatismi, così come oramai si è da qualche anno consolidato l’uso di parlare di “femminismi”, non senza importanti conseguenze teoriche. Innumerevoli e diversificate sono le forme che la pratica separatista ha assunto nel corso della storia dei femminismi e soprattutto le riflessioni che ha generato.
Basti pensare al movimento suffragista che, pur essendo nella maggioranza “misto”, già percepiva distintamente il rischio costituito dalla presenza degli uomini, della loro tendenza (non “naturale”, ma che attiene a rapporti di potere asimmetrici) al leaderismo, l’attentato continuo all’autonomia delle donne, la maggiore difficoltà per queste ultime di prendere, in un ambito politico misto, parola e decisioni, di dimostrare (a se stesse e alle/agli altre/i) la propria capacità di assumersi – e di sapersi assumere – quelle responsabilità generalmente ritenute appannaggio esclusivo degli uomini. Da qui la necessità di ritagliarsi “spazi”, o anche soltanto “momenti”, tra “sole donne”.
Ciò nonostante, in un certo immaginario – soprattutto maschile, ma non solo – il separatismo è legato indissolubilmente al movimento femminista e lesbico degli anni 70, con l’immagine minacciosa di una guerra totale dei sessi, ciò che denota anche lo shock, non ancora superato, costituito dall’entrata in scena di un forte ed autonomo movimento delle donne.
Atto fondatore” del femminismo degli anni 70, come è stato definito da Françoise Picq nella sua bella ricostruzione delle vicende del movimento femminista francese degli anni 70 [2], il separatismo è, anche in quel periodo, lontano dall’essere una pratica totalmente condivisa e, soprattutto lontano dall’essere accettato “pacificamente” dagli uomini, anche da quelli che all’epoca, si chiamavano “compagni". In Italia, ad esempio, esistono in quegli anni, gruppi “misti” e che tali resteranno, donne che praticano la cosiddetta “doppia militanza”, cioè la contemporanea attività politica in gruppi della sinistra e dell’estrema sinistra e in gruppi di donne, gruppi che inizialmente sono aperti agli uomini (come ad esempio il Demau e Il cerchio spezzato) e che solo in seguito adotteranno la pratica separatista. Questa era, inizialmente, segno distintivo solo dei primissimi gruppi di autocoscienza (essenzialmente i gruppi di Rivolta Femminile) e del movimento lesbico, prima di diventare pratica condivisa dalla maggioranza del movimento delle donne.
Ma soprattutto il separatismo è una pratica multiforme: diverse erano le motivazioni e le modalità del “separarsi” che esistevano anche tra chi aveva fatto questa scelta, tra le militanti femministe e le militanti lesbiche. Delle differenze (importanti) sussistevano anche all’interno di queste due (principali) “configurazioni”, come ha mostrato, ad esempio, Nerina Milletti per il movimento lesbico, in un interessante saggio che ripercorre le due pratiche – per certi versi contraddittorie – del separatismo e della visibilità [3]. Il separatismo, quella necessità di “darsi la libertà di non essere referenziali al potere” (Daniela Pellegrini in una significativa intervista raccolta da Nicoletta Poidimani), pratica di “sottrazione”, piuttosto che di “esclusione” (ancora Milletti), poteva avere delle ragioni di ordine tattico o contingente, delle ragioni di tipo teorico o politico. Poteva andare da riunioni precluse agli uomini, senza che questo significasse una pratica separatista nella quotidianità, a forme di “nazionalismo” lesbico, contestate in un oramai celebre articolo di Ti-Grace Atkinson [4].
Poteva basarsi su un discorso di tipo “essenzialista”, o fatto proprio da gruppi decisamente anti-essenzialisti, si pensi soltanto ai gruppi separatisti che avevano come punto teorico di riferimento, l’analisi “materialista” sviluppata da Christine Delphy in L’ennemi principal, uno dei testi chiave di quegli anni. I gruppi potevano essere costituiti solo da donne (eterosessuali e lesbiche), o viceversa includere alcuni uomini (i gay). Potevano essere gruppi di sole lesbiche o, come ad esempio negli Usa, di sole donne nere (eterosessuali e lesbiche), o di sole lesbiche nere. C’è stata anche l’esperienza di chi, e penso al Combahee River Collective, – collettivo di donne e lesbiche nere, pioniere del Black Feminism – ha rifiutato, senza per questo desolidarizzarsi dal resto del movimento femminista, il separatismo, in nome della comune esperienza del razzismo con gli uomini neri.
In questo scenario piuttosto variegato, l’unico elemento che sembra realmente omogeneo è la reazione di rifiuto, anche violenta, che la pratica del separatismo ha suscitato negli uomini. Se la “secessione delle donne” – come ha sottolineato in un saggio sul “separatismo come metaforaLiliane Kandel [5]– , rianimava i fantasmi arcaici della guerra tra i sessi, il vero “scandalo” del separatismo risiedeva nel suo carattere metaforico o simbolico, nella sua capacità di veicolare – con immediatezza e “violenza”– un certo numero di messaggi. La scelta separatista denunciava il carattere “non misto” della nostra società (l’esclusione delle donne da luoghi, attività, istituzioni; esclusione che, quando non sancita dal diritto, lo era nei fatti), nominava l’esclusione e l’oppressione di tutte le donne in quanto gruppo e delle singole donne in quanto individuo, annunciava la presa di coscienza e la rivolta nascente, designava infine “l’identità dell’oppressore”, non più soltanto un “sistema” (capitalista o patriarcale), ma un gruppo sociale definito (e insisto sul gruppo sociale): quello degli uomini.
Sarebbe bastato, forse, gettare uno sguardo verso questo passato, verso questa storia così complessa e istruttiva, eppure inspiegabilmente dimenticata o mai appresa, per evitare alcune delle semplificazioni che hanno contraddistinto il dibattito sul separatismo (nella forma della rigida contrapposizione separatismo si/separatismo no) prima e durante la grande manifestazione del 24 a Roma “contro la violenza maschile sulle donne”.
Tornando brevemente sulla discussione pre-manifestazione
[6], la scelta di un corteo di sole donne - che tra l’altro ho condiviso -, viene contestata da alcune donne (e solo in seguito, e marginalmente, da uomini) in quanto giudicata “discriminatoria” soprattutto verso coloro che, pur se “biologicamente” di sesso maschile, subiscono e/o combattono la violenza in prima persona, come i gay, i trans FtM o gli uomini impegnati in una critica della “mascolinità”. Questa decisione viene inoltre percepita come un’imposizione dall’alto di una pratica non più condivisa e le donne che la sostengono vengono tacciate di “veterofemminismo” (creando, tra l’altro una fittizia contrapposizione tra "giovani" e "vecchie") e di farsi portatrici con questa scelta di un discorso di tipo identitario, essenzialista e finanche “razzista”. Visto come un pericoloso arretramento culturale che individua nell’appartenenza “biologica a un genere la legittimità di partecipazione e mobilitazione”, sordo adanni di contaminazioni queer e critica trans”, lo spettro del “separatismo” (parola invero mai nominata nel documento di convocazione della manifestazione), comincia ad aggirarsi nel dibattito.
Nei discorsi privati e pubblici, così come nelle mailing list, nei siti e nei blog di singole donne, gruppi e associazioni coinvolti nell’organizzazione, la discussione cresce in maniera esponenziale man mano che la data della manifestazione si avvicina. Il 18 novembre l’inserto domenicale di Liberazione, Queer, dedicato alla manifestazione del 24, pubblica due articoli che dovrebbero illustrare le due posizioni separatismo sì/separatismo no verso le quali si è rapidamente polarizzata – e, forse, cristallizzata – la discussione [7]. Se l’irrigidimento di questa contrapposizione ha rischiato di indurre, come è stato da più parti sottolineato, un rischioso allontanamento da quello che era l’obiettivo primario della manifestazione, esso ha anche prodotto una semplificazione drastica e riduttiva delle ragioni e dei problemi in campo.
Mi sono chiesta – e mi chiedo – perché è intorno alla scelta di “un” corteo separato che si è acceso il dibattito, un dibattito che ha posto in maniera forte il problema dell’essenzialismo e/o del “razzismo”, veicolato dai nostri discorsi e dalle nostre pratiche. _ Mi sono chiesta perché, se altre questioni si possono – strategicamente – "mettere nel cassetto" come sottolineava Gaia Maqi Giuliani nel suo articolo in Liberazione, senza (quasi) suscitare discussioni, questo non è possibile con il separatismo, nonostante in molte ne abbiano spiegato la contingenza.
Mi è sembrato, del resto, troppo “facile” e mistificante mettere sul conto dell’opzione in favore di una manifestazione separata, in una certa circostanza, un certo giorno e su un certo tema, i guasti prodotti da un essenzialismo che, in Italia, ha nutrito una lunga egemonia del "pensiero della differenza sessuale" e che ancora pervade pratiche e discorsi di diversi femminismi, talvolta in maniera “inconsapevole”, come ha sottolineato Lidia Cirillo nel suo Meglio Orfane [8].
Troppo facile, e forse consolatorio, mettere sul conto del “separatismo” le difficoltà storiche proprie a molt* di interrogarsi sul nodo cruciale sessismo e razzismo, tema che ha assunto con troppo ritardo - e solo "grazie" alla campagna ignobile montata da politici e media dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani - una posizione centrale nel dibattito pubblico, senza peraltro, e mi sembra sintomatico, suscitare una necessaria riflessione sul razzismo "interno" alle stesse teorie e pratiche femministe (e qui mi permetto di rinviare al mio contributo a Donne di Mondo, recente numero della rivista Zapruder sui femminismi transnazionali).
Mi sono chiesta ancora se le critiche mosse alla scelta separatista oltre a denotare una non conoscenza delle configurazioni assunte nel passato dal separatismo, manifestassero anche ignoranza di quelle attuali.
In una ricerca sulle giovani generazioni femministe in Francia, ad esempio, Liane Henneron [9], ha mostrato come – sullo sfondo del peculiare, e talvolta conflittuale, rapporto di rottura/continuità che lega le “giovani” militanti al femminismo degli anni 70 – , non esista una modalità univoca nelle forme adottate dalle militanti per relazionarsi con gli “altr*”. Se privilegiare situazioni “miste” sembra maggioritario (e talvolta con una volontà, non sempre esplicita, di “smarcarsi”, attraverso il rifiuto del separatismo, da una certa immagine del femminismo), non mancano situazioni in cui la strategia politica del separatismo è rivendicato e rimodulato in forme inedite. Basti pensare al gruppo parigino Les Furieuses Fallopes, che nel 2005 organizzarono una grande manifestazione separatista notturna contro la violenza sessista, manifestazione che suscitò, sia detto per inciso, una qualche ostilità da parte di alcune “vecchie” e l’entusiasmo contagioso delle più “giovani”.
La strategia politica separatista è reinventata a partire dalle “contaminazioni queer” e dall’opposizione a ogni tentazione naturalista: il separatismo delle Furieuses Fallopes è una militanza “tra donne”, ovvero tra tutte e tutti quelle/i che sono identificate/i, si sentono, si dichiarano, si “vivono” come donne. Del resto la maggioranza delle singole donne, dei gruppi, della associazioni che hanno condiviso la scelta separatista della manifestazione romana, praticano una felice e fruttuosa commistione tra momenti “separati” e “non separati”, militando magari in gruppi di sole donne ma partecipando attivamente ad altri progetti politici “misti” (lotte contro la deriva securitaria, il precariato, l’omofobia, la lesbofobia e la transfobia, contro il razzismo e per i diritti e la libertà dei/delle migranti).
Oltre a motivazioni tattiche o strategiche (l’evitare strumentalizzazioni da parte di forze politiche ed istituzionali, ad esempio), penso che quante hanno sostenuto la scelta di una manifestazione di sole donne, condividessero la necessità – in questa precisa congiuntura – che fossero i nostri “corpi” (dove “corpo” non è né genere, né “sesso”), a dire basta alla violenza e alla sua strumentalizzazione in chiave razzista e securitaria, a dire ancora una volta “non in nostro nome come scandiva lo slogan della rete femminista transnazionale Nextgenderation contro la guerra in Irak, ricordato nel suo intervento su queste pagine da Cristina Papa.
Il – sacrosanto – allontanamento delle “donne” ministre da parte delle manifestanti, oltre ad aver dimostrato (se ce ne fosse stato bisogno) quanto la scelta “separatista” fosse lontana da ogni nostalgia “biologica”, ha scatenato sulla stampa un nuovo attacco in nome della (presunta) violenza delle partecipanti al corteo, che si è in alcuni casi tradotta nell’equazione separatiste uguale violente.
Con questo intervento spero di aver contribuito, oltre a chiarire qualche equivoco di merito, a indicare di che cosa e di chi c’è (forse) da aver paura.

* Ripubblico anche qui in Marginalia questo mio intervento con la sola aggiunta di qualche nota esplicativa e di tipo bibliografico assenti nella versione pubblicata da Il paese delle donne. Nella fotografia uno scorcio del Buon Pastore (Casa internazionale delle donne) di Roma, dove sabato scorso si è tenuta un'affollata e partecipata assemblea nazionale femminista , importante momento di riflessione e confronto dopo la manifestazione del 24 novembre contro la violenza maschile sulle donne. Sono stati proposti due nuovi appuntamenti: una due giorni nazionale con tavoli di approfondimento (il 23 e24 febbraio a Roma) e un otto marzo nelle singole città da costruire in continuità con quanto espresso dalla manifestazione del 24. Relazioni sull'assemblea nazionale possono essere lette qui.
____________________________________

NOTE:


[1] Manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne, Roma, 24 novembre 2007.
[6] Per una trattazione più articolata di questo dibattito rinvio a A che cosa miriamo?.

mercoledì 9 gennaio 2008