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L'immagine è tratta da Kamikaze Women, un'installazione di Gioraro.
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Abbiamo recentemente assistito all'ennesimo tentativo di mettere a tacere le voci che denunciavano politiche paternalistiche e neo-imperialiste battendosi contro posizioni islamofobiche e di attivismo omonazionalista. Il 7 settembre il libro Out of Place: Interrogating Silences in Queerness/Raciality (2008), a cura di Adi Kunstman e Esperanza Miyake, è stato dichiarato fuori stampa dal suo editore Raw Nerve. Il testo, primo volume accademico che si interroga sulla connessione tra queer e etnicità in Gran Bretagna, contiene un importante articolo - scritto da Jin Haritaworn, Tamsila Tauqir and Esra Erdem - , dal titolo "Imperialismo gay: discorso su genere e sessualità nella guerra del terrore", che spiega come discorsi sui diritti gay vengano strumentalmente utilizzati per giustificare politiche neo-imperialiste, "anti-migranti" e islamofobiche. Gli autori appartenenti ad etnie diverse da quella bianca, islamici queer e femministe migranti, partendo da posizioni Trans/queer, sottolineano come l'equazione di "Islam" con "omofobia" (tanto quanto sessista) ha contribuito al restringimento dei margini, alla ri-costruzione dell'occidente come campione di civilizzazione e modernità e alla vittimizzazione di queer islamici. In Germania, ai/alle migranti provenienti da "paesi islamici" che chiedono la nazionalità, viene richiesto di passare un "Test islamico", nel quale vengono poste domande del tipo: “Cosa faresti se tuo figlio fosse gay?” In Olanda, viene chiesto ai/alle richiedenti di reagire ad un video che mostra due uomini che si baciano. Prendendo spunto da Chandra Talpade Mohanty (1991) e Jasbir Puar (2007) l'articolo mostra la non casualità dell'attenzione puntata sui regimi non occidentali e sulla questione di genere e sessualità all'interno della comunità islamica, da cui deriva - allo stesso tempo, come nel caso della "Guerra del terrore" – l'aumento delle restrizioni delle politiche migratorie e, più in generale, l'accrescimento dell'islamofobia. Gli autori mettono in rilievo come i diritti gay e l'uguaglianza di genere, anche se sono stati raggiunti molto recentemente e non in modo esaustivo, sono divenuti nei paesi occidentali simbolo di civilizzazione e modernità. Pur se l'importanza (anche se limitata) di questi diritti e dell'uguaglianza non è messa in discussione, gli autori mettono in guardia dalla politica emancipatoria di matrice bianca e occidentale che si richiama all'universalità appropriandosi di donne e queer non bianch* e islamici non-occidentali e servendosi di discorsi razzisti e neo-imperialistici. Sembra piuttosto ovvio tracciare una linea parallela con le femministe abolizioniste occidentali che nutrono le leggi sulla sicurezza - criminalizzando migranti, lavoratori e sex worker - alimentando politiche di deportazione e marginalizzazione in nome della lotta contro la violenza di genere. Queste stesse società, che discriminano e negano le persone islamiche, criminalizzano sempre più i/le sex worker utilizzando l'idea dell'omofobia e della violenza di genere come strumenti per deportare e detenere migranti, sex worker e “people of colour”. Ci sono molti paralleli tra i discorsi abolizionisti e quelli islamofobici: la tendenza per la maggior parte dei bianchi e delle bianche occidentali di gruppi queer e di gruppi sui diritti gay, è quella di parlare per loro stess*, di salvare se stess*, ignorando e rafforzando una multipla oppressione, invece di lavorare con organizzazioni islamiche o non bianche e non occidentali (o anche semplicemente ascoltando che cosa questi gruppi abbiano da dire). Allo stesso modo, le femministe abolizioniste occidentali non ascoltano le voci dei e delle migranti sex worker, e così facendo li relegano in uno stato di vittime che necessitano per salvarsi della politica femminista occidentale o, anche, della polizia di frontiera che li assisterà nel ritorno a casa. Le/i Sex worker migranti sono paragonate/i con le vittime di tratta, viste solo come donne passive e ingenue, prive - contrariamente alla realtà -, di un vero e proprio progetto migratorio. L'articolo Gay Imperialism porta avanti proprio questa critica e traccia un' acuta analisi, fornendo bibliografia e riferimenti ai testi criticati. Gli autori, purtroppo, hanno fatto l'errore di citare, senza nasconderli dietro nomi inventati o in codice, esempi di politiche bianche sui diritti queer/gay che riproducono un approccio islamofobico e paternalistico nei confronti di persone queer islamiche - incluso Peter Tatchell in Gran Bretagna. Come risposta, l'editore Raw Nerve ha pubblicato scuse formali a Peter Tatchell, scuse che possono essere lette sul sito http://www.rawnervebooks.co.uk/Peter_Tatchell.pdf e ha ritirato l’intero libro dalla vendita. Le scuse ritengono l'articolo una falsa accusa di razzismo e islamofobia nei confronti di Peter Tatchell ed elencano una lunga serie di presunte falsità contenute nel testo, citate fuori dal contesto e erroneamente rappresentate come accuse a titolo personale. Proprio per questo, gli autori sottolineano ironicamente la difficoltà di avere una voce critica contro Peter Tatchell. L'intransigente censura è in forte contrasto con la radicale difesa della libertà di cui si fa promotore Tatchell. Questa sua intransigente difesa della libertà lo ha portato a partecipare nel 2006 alla Marcia Free Expression, a cui hanno aderito vari gruppi fascisti e razzisti. Ancora una volta, voci marginalizzate sono state minacciate e messe a tacere, ma questa volta, tale silenzio è stato deciso da chi si professa campione e promotore della libertà. Le campagne di Peter Tatchell sono esplicative dei limiti del modo post-politico dell' attivismo da celebrità, dove i bisogni di molti sono sacrificati per dare celebrità e potere a pochi. Questa sua tendenza all'autocelebrazione si riflette nel fatto di aver denominato con il suo stesso nome la fondazione di cui è a capo (come la Peter Tatchell Human Right Fund). "Peter Tatchell", molto più che OutRage!, è uno dei nomi più citati nelle rappresentazioni dei media occidentali riguardo l'attivismo sui diritti gay. Le scuse di Raw Nerve trasformano in personalismi questioni che sono invece politiche facendo sì che la giusta e documentata critica portata avanti da Haritaworn, Tauqir e Erdem , e la successiva censura e ritiro del libro, sia vista come un problema personale fra gli autori e Peter Tatchell. Questo tuttavia elude il punto principale. Nessuno ha qualcosa di personale contro Peter Tatchell. Nessuno, inoltre, contesta che lui si consideri sinceramente antirazzista, antimperialista o anti-islamofobico. Comunque, fa parte del lavoro di alleanze assumersi la responsabilità di affermazioni o azioni che riproducono strutture oppressive. Fa parte dell'essere una persona pubblica l'apertura alla critica piuttosto che il volerla azzittire con la forza. Purtroppo, questa non è la prima volta che queer non bianch* e queer non occidentali hanno criticato Peter Tatchell e sono stati puniti per averlo fatto. Le campagne in Africa di Tatchell e Outrage! sono state fortemente criticate per non aver ascoltato gli/le attivist* LGBT africani che dichiaravano quanto le loro azioni fossero infatti dannose. In una lettera aperta citata dagli autori di Gay Imperialism, alcun* attivist* hanno descritto come Tatchell e Outrage! abbiano ripetutamente non rispettato vissuti, danneggiando le lotte e mettendone a repentaglio la sicurezza, di chi lotta per la difesa dei diritti umani africani (fonte: http://mrzine.monthlyreview.org/increse310107.html). Questo modo di agire viene definito neo-colonialismo, interpretazione che noi condividiamo. Questa dichiarazione, che si può ancora fortunatamente trovare nella rete, è stata anch'essa vittima di una risposta punitiva, risposta punitiva che è reiterata, nei confronti degli autori di Gay Imperialism dalle "scuse" di Raw Nerve. Condanniamo questo tentativo di reprimere le voci di queer of colour e di queer non occidentali ed esprimiamo il nostro supporto sia a chi difende i diritti umani dei queer africani, sia agli autori di Gay Imperialism che resistono alle dichiarazioni e alle azioni razziste e imperialiste fatte in nome delle politiche bianche e occidentali sui diritti della comunità LGBTQ. È senza dubbio all'interno della logica neo-imperialista che un uomo gay bianco e occidentale può ottenere il ruolo di colui che salva queer non-occidentali e islamici vittimizzati, e al contempo rafforzare i discorsi islamofobici che costruiscono un occidente moralmente superiore. Ed è ancora all'interno della logica neo-imperialista che si possono vedere le femministe bianche abolizioniste unire le forze con lo Stato che si fa portatore di un razzismo istituzionale in nome dei diritti delle donne. Come sappiamo dal nostro lavoro, per i/le sex worker migranti questo spesso significa il diritto di essere salvato e deportato, non il diritto di decidere sul proprio lavoro e sulle proprie vite. X:talk è nato dalla necessità di far sentire le voci marginalizzate, opponendole ai discorsi paternalisti e criminalizzanti che ci negano il diritto di parlare per noi stess*. Perciò condanniamo la censura di Out of Place come atto di forza che conferma la validità e la necessità politica di quell'articolo. La censura di Gay Imperialism e della raccolta Out of Place conduce verso una nuova preoccupante direzione. Molti di noi possono aver pensato che fosse stato raggiunto un certo grado di libertà di espressione per le voci marginalizzate. Invece è stato ribadito che vi è un prezzo da pagare quando si fa apertamente e seriamente critica antirazzista e, soprattutto, è stato ribadito chi è a pagare. Abbiamo perso un importante documento e la possibilità di formare un' opinione autonoma e non vincolata dai discorsi dominanti. Abbiamo la speranza che questa censura abbia l'effetto opposto: quello di intensificare e di far sentire ancora più forte le nostre voci; di potenziare nuove alleanze attraverso l'attivismo e i movimenti accademici, per combattere le oppressioni in tutte le sue facce – incluso il mantello con cui si veste il movimento femminista e il movimento dei diritti gay.
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Noi non siamo complici! è il titolo del volantino che un gruppo di antirazziste, femministe e lesbiche, ha distribuito oggi pomeriggio, a Bologna, durante un'azione di agit-prop sul bus 14 A, quello che dal centro porta in via Mattei, dove è situato il Centro di identificazione ed espulsione della città. "Sapete dove porta questo autobus?", così esordisce una donna del gruppo. "Questo autobus porta al Cie. E sapete cos'è un Cie?". E comincia a leggere il volantino, in cui si denunciano le violenze che le donne subiscono all'interno dei Centri di identificazione ed espulsione. Ed è sotto il Cie di via Mattei, che si è concluso il presidio itinerante. Per alcune ore le antirazziste hanno portato la loro solidarietà alle donne lì detenute e alle "rivoltose" di via Corelli , con interventi, striscioni e fuochi d'artificio, circondate da un esagerato dispiegamento delle cosiddette forze dell'ordine. Dieci probabili denunce per presidio non autorizzato hanno chiuso la giornata ma resta una grande determinazione. Non è che l'inizio: noi non siamo complici!
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Quante volte, studiando la storia del Novecento, è capitato di chiedersi perché durante il nazismo la gente facesse finta di non vedere quanto avveniva nelle strade delle proprie città – rastrellamenti, soprusi, violenze – e di non sapere ciò che succedeva nei lager? E quante volte la risposta è stata “Io non avrei potuto far finta di niente”? E allora perché oggi tante, troppe persone, fingono di non vedere quello che succede nelle strade, fingono di non capire gli effetti mortali che il cosiddetto “pacchetto sicurezza” ha sulla vita di migliaia di esseri umani, fingono di non sapere che nelle città in cui viviamo ci sono luoghi che, per come ci si viene rinchiusi/e e per alcune delle violenze che vi vengono esercitate, ricordano i famigerati lager di stampo nazista? Questi luoghi si chiamano Cie – Centri di identificazione ed espulsione, nuovo nome per i Cpt – Centri di permanenza temporanea creati nel 1998 con la legge Turco-Napolitano e disseminati su tutto il territorio nazionale. Da tempo le migranti e i migranti detenute/i denunciano le spaventose condizioni di vita all’interno dei Cie, le continue violenze e umiliazioni, i pestaggi, le malattie non curate e le morti sospette. Ciononostante il ministro Maroni ha annunciato recentemente, in nome della “sicurezza”, la costruzione di nuovi Centri di identificazione ed espulsione. Hanno provato a raccontarci che nei Cie vengono rinchiusi i “clandestini” perché gli stranieri sarebbero tutti, secondo la retorica del razzismo istituzionale, criminali e potenziali stupratori, e che quindi, anche senza che abbiano compiuto alcun reato, è giusto che stiano rinchiusi lì anche per 6 mesi per poi venire espulsi dall’Italia. Ma noi sappiamo cos’è la sicurezza di cui ci parlano. Sappiamo cosa sono i Cie. Sappiamo cos’è il razzismo istituzionale. E sappiamo cos’è la violenza. Sappiamo per esperienza che i luoghi pericolosi per le donne sono soprattutto le case in cui viviamo, i luoghi in cui lavoriamo, le canoniche e le questure nelle quali abbiamo la sventura di avventurarci o di essere portate. E anche le quattro mura di un Cie, dove tantissime donne subiscono molestie, torture e stupri da parte dei loro guardiani. Umiliazioni e violenze che le donne migranti non hanno mai smesso di denunciare. Come Raya, una delle donne migranti rinchiuse nel Cie di via Mattei a Bologna, che lo scorso maggio è stata picchiata da un poliziotto in borghese e poi lasciata svenuta sul pavimento sotto gli occhi indifferenti degli operatori della Misericordia, il “misericordioso” ente che gestisce il Centro. O come le donne migranti che nel Cie di Lampedusa hanno intrapreso, all’inizio dell’anno, una lunga rivolta per protestare contro i rimpatri, denunciare le condizioni all’interno del Cie e chiederne la chiusura. O come la protesta delle compagne di Mabruka, donna di origini tunisine da 30 anni in Italia, che si è impiccata nel Cie di Ponte Galeria a Roma ad aprile pur di non essere deportata, protesta che si è poi estesa alle camerate degli uomini. O come Joy, una donna africana imprigionata e processata a Milano per essersi ribellata, lo scorso agosto, ad un tentativo di stupro da parte dell’ispettore-capo del Cie Vittorio Addesso e alle condizioni disumane in cui, con altre donne e uomini, era costretta a vivere nel Cie di via Corelli. Per le sue dichiarazioni Joy rischia, ora, un processo per calunnia, perché nell’Italia del terzo millennio questi lager non si possono mettere in discussione, e quello che accade lì dentro deve restare omertosamente nascosto. Proprio come la violenza sessista che le donne subiscono in famiglia e nei luoghi di lavoro. Noi sappiamo e non vogliamo tacere. Non vogliamo essere complici delle violenze perpetrate contro le donne migranti in nome della “sicurezza”. In concomitanza con la sentenza per la rivolta nel Cie milanese di via Corelli, abbiamo scelto di trovarci davanti al Cie di Bologna per esprimere alle donne rinchiuse lì la nostra vicinanza solidale, ma anche e soprattutto per denunciare all’esterno quello che accade dentro questi lager del terzo millennio. E tu? Continuerai a far finta di non sapere?