Di fronte agli stupri degli ultimi giorni accompagnati dal vergognoso rito delle strumentalizzazioni in chiave "anti-immigrati" e "sicurezza" (e con il solito contorno di decreti legge urgenti e istituzioni di ronde fasciste), mi chiedo se siamo condannate alla ripetizione, una ripetizione oramai logorante e che sembra smentire quel repetita iuvant che tante volte in questi anni mi sono ripetuta (e credo tante altre con me).
Mi chiedo (ma sia chiaro: con molta rabbia e nessuna rassegnazione) quante volte ancora sarà necessario denunciare quella che potremmo definire (parafrasando Christine Delphy) economia politica dello stupro? Quante volte ancora sarà necessario ripetere che gli stupri non sono prerogativa degli "stranieri" e che sono commessi anche (e in maggioranza) da "italiani"? Quante volte sarà necessario ripetere che gli stupri (per i quali si intende generalmente quelli che avvengono ad opera di "sconosciuti" e "per strada") sono solo una piccola parte delle violenze subite quotidianamente dalle donne? Quante volte sarà necessario ripetere che la violenza sulle donne si esercita per la maggior parte tra quelle che vengono definite (a mio parere impropriamente) "pareti domestiche" ad opera di uomini perfettamente conosciuti dalle vittime? Quante volte ancora sarà necessario ripetere che gli stupratori e i massacratori sono in primis padri, amanti, figli, fratelli, ex-fidanzati o "inconsolabili respinti"(italiani e non) ma anche datori di lavoro, insegnati, medici, preti e tutori delle forze dell'ordine (in questi casi quasi esclusivamente italiani)? Quante volte ancora saremo costrette a scrivere che rifiutiamo "la sciagurata equazione stupratore/immigrato", equazione che serve unicamente a fomentare il razzismo e la xenofobia, a giustificare la deriva securitaria pesantemente in atto e pratiche sempre più autoritarie e levise della libertà di tutti e tutte e in particolare proprio di quei soggetti che si vorrebbero "tutelare", cioè noi "donne" (e tra queste in particolare le migranti)? Quante volte ancora saremo costrette ad urlare "non in nostro nome"?
E quante volte ancora sarà necessario ripetere che la violenza sulle donne (native, migranti, lavoratrici, precarie, disoccupate, casalinghe, lesbiche, etero, trans, vecchie e bambine, universitarie e analfabete) è frutto di un rapporto di dominio degli uomini sulle donne che è insieme sociale, economico e politico? E che è questo rapporto di dominio che va criticato, scardinato e distrutto? Quante volte ancora sarà necessario ripeterlo, scriverlo, urlarlo?
E in quante lingue?
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