Negli ultimi decenni il lavoro e la riflessione femminista (storica e non solo) ha invece messo in luce l'importanza del ruolo svolto dalle donne nella lotta contro il nazifascismo. Cercando di uscire dall'agiografia (dominante dal dopoguerra fino agli anni 60), la ricerca femminista ha mostrato come, al di là di alcune figure esemplari spesso restituite in termini fortemente retorici (pensiamo alla gappista Irma Bandiera "eroina purissima degna delle virtù delle italiche donne"), la partecipazione delle donne (lesbiche, ebree, jugoslave ...) alla Resistenza fu molto più massiccia di quanto si potesse comprendere attenendosi ai soli dati numerici che concernevano le donne impegnate in attività "organizzate" ( nei gruppi combattenti, nei Gruppi di difesa della donna ...), o le donne perseguite, imprigionate, torturate, massacrate o deportate.
Era necessario considerare non solo queste donne (la maggioranza delle quali non rientrava comunque nei criteri molto rigidi adottati alla Liberazione per il riconoscimento del titolo di resistente), ma anche la grande massa anonima delle donne che avevano aiutato i partigiani, i disertori, gli/le ebrei/e ... Del resto è chiaro che senza questo largo tessuto di sostegno, costituito principalmente da donne, la lotta partigiana stessa non sarebbe stata possibile. E' stata dunque incoraggiata l'introduzione della categoria di "resistenza civile" (elaborata da Jacques Sémelin in un contesto differente), uno strumento di analisi che ha permesso di comprendere la molteplicità delle condotte, non immediatamente riconducibili alla resistenza "armata" o "organizzata". Malgrado l'interesse di queste ricerche i rischi derivanti dall'assunzione di questa categoria non sono trascurabili, basti pensare a quel processo di estensione del concento di "resistenza civile" che ha portato all'inclusione nelle "pratiche di resistenza" di pratiche che potremmo definire di "sopravvivenza (tipo sfidare il coprifuoco per la ricerca di cibo). E' chiaro che in questo modo si finisce per "banalizzare" (o mettere in ombra) la lotta di quelle donne che, anche con armi in pugno, hanno fatto qualcosa di più che "sopravvivere", spesso anzi pagando con la vita il loro impegno militante. Ma si rischia anche di produrre una versione femminile del "siamo tutti resistenti ", altra faccia del mito "italiani, brava gente". Rischio che mi sembra tanto più reale, se si pensa al fatto che molte di queste ricerche, privilegiando il periodo 1943-1945, eludono una riflessione sul consenso, anche femminile, al fascismo durante il "ventennio" e sulla partecipazione delle donne a gruppi e organizzazioni fasciste.
Ma su queste questioni avremo modo di ritornare durante l'incontro promosso dal Laboratorio femminista Kebedech Seyoum a Bologna in occasione del 64 anniversario della battaglia di Porta Lame il 7 novembre (iniziativa di cui presto posterò qui il programma completo). Per intanto mi preme riprendere la questione che ponevo all'inizio di questo post, ovvero di come la privazione della memoria delle lotte passate e contemporanee è una forma di dominazione. E' chiaro che questo processo diviene vera e propria rimozione quando queste lotte riguardano donne di altri contesti nazionali, soprattutto se, come nel caso delle donne resistenti etiopi che lottarono contro l'invasione coloniale italiana, questa rimozione si intreccia con la smemoratezza (voluta e imposta) delle imprese coloniali fasciste e con l'immaginario sessista e razzista (tuttora operante, si pensi a molti dei discorsi sulle "migranti") che vuole le donne (in specie "non bianche") come vittime passive e consenzienti (e magari anche "felici").
La conoscenza del passato, della storia, di "questa" storia, che come sottolinea Gabriella Ghermandi nel suo Regina di fiori e di perle, "è anche la nostra", la conoscenza di queste ed altre "resistenze", di un passato di lotte che come donne ci ha viste protagoniste o comunque coinvolte, (pur se non sempre dallo stesso lato della "barricata"), ci sembra essenziale per mettere a punto nuove pratiche di resistenza per opporci efficacemente al fascismo, al razzismo e al sessismo nelle loro attuali articolazioni.
In molt* mi hanno chiesto negli ultimi mesi il perchè del nome Laboratorio femminista Kebedech Seyoum, spero di aver risposto almeno in parte. In molt* hanno anche lamentato la difficoltà di reperire foto e materiali sulla partecipazione delle donne etiopi nella lotta contro l'impresa coloniale italiana. Un ricco dossier è disponibile on line nel sito della Ossrea, con sede ad Addis Abeba. Ci sono molte informazioni su Kebedech Seyoum e su altre resistenti, sia per quanto riguarda il periodo dell'impresa coloniale fascista degli anni 30, che per la fase precedente culminata nella sconfitta dell'esercito italiano ad Adua. Ricchissima la bibliografia in appendice. Grazie ancora a Gabriella Ghermandi per la preziosa segnalazione.
La foto che illustra questo post è stata scattata nell'isola dell'Asinara. La donna che vi /ci guarda è Yodbar Gebru, musicista di fama internazionale. Nata il 12 dicembre 1923 ad Addis Abeba in un'agiata famiglia, all'età di sei anni si reca in Svizzera con la sorella , dove studia violino e pianoforte. Nel 33 torna in Etiopia, ma nel 37 - appena quattordicenne - , viene fatta prigioniera e poi deportata con il resto della famiglia prima sull'isola dell'Asinara poi a Mercogliano, vicino Napoli. Il destino di molte è stato molto più terribile.
Qui invece trovate la foto di un gruppo di veterane, scattata ad Addis Abeba nel 1973, durante una cerimonia di commemorazione della vittoria contro l'invasore italiano.