E Ustica è arrivata. E' arrivata rileggendo Angelo Del Boca. La rappresaglia italiana dopo la sconfitta subita da parte dei ribelli libici a Sciara Sciat: la caccia "all'arabo traditore" per le vie di Tripoli (circa 4000 morti), le impiccagioni collettive nella piazza del Pane (e forche fiorirono in seguito ovunque in Libia) e poi le deportazioni verso l'Italia. Donne, uomini, bambini ammassati come bestie su piroscafi. Scarsa l'acqua e il cibo nei quattro giorni di navigazione. Sporcizia. Malattie: tifo, vaiolo, colera. I morti venivano gettati in mare. Corpi galleggianti sull'acqua. Le destinazioni erano Gaeta, Favignana, Ponza.
E Ustica.
Lì , dal 29 ottobre al 31 dicembre 1911 morirono 69 internati (su circa 800). Ma le deportazioni continuarono per anni, con punte notevoli nel 1915 in seguito alla grande rivolta araba. Nella sola Ustica , nel marzo 1916, i libici confinati erano 1300. Molti non sono mai tornati. E ancora oggi, scrive Del Boca, "a quasi cent'anni da Sciara Sciat, ci sono famiglie in Libia che vorrebbero almeno sapere dove sono sepolti i loro cari" (A. Del Boca, Italiani, brava gente?, 2005).
E nessuno dei responsabili di questi (ed altri ) crimini ha mai pagato.
Come meravigliarsi se altr*, in Italia, dopo 28 anni, aspettano ancora la verità sull'abbattimento dell'Itavia nei cieli di Ustica?
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Vincenza Perilli, Tutto quel che rimane
Portici, n. 3, settembre 2007.
Di famiglia ebrea, segnato dal genocidio nazista, l’artista francese Christian Boltanski si è da sempre confrontato con il tema ossessivo del tempo, della memoria e degli aspetti effimeri dell’esistenza umana. Tutte le opere di Boltanski – dalle prime, dichiaratamente autobiografiche come Trois Tiroirs, alle ultime installazioni – ci espongono il/al passato, quello reale o fittizio dell’artista stesso, ma anche, più estesamente, il passato dell’intera umanità, dall’infanzia perduta alla morte.
Le scatole di metallo e le vetrine colme di oggetti – spesso sottratti alla vista – , testimoniano l’urgenza di conservare, attraverso l’archiviazione, ciò che altrimenti andrebbe perduto, così come la stanza colma di abiti usati di Réserve riporta alla memoria i magazzini in cui i nazisti ammassavano gli oggetti sottratti ai deportati, frammenti di storia, tracce di esistenze cancellate, altrimenti destinati all’oblio.
Scatole, riquadri neri specchianti e voci sussurrate in sottofondo come in Les images noires, lampadine che pulsano al ritmo del respiro o del battito cardiaco dell’artista come Le coeur , sono elementi ricorrenti (ma che acquistano il loro senso solo all’interno degli spazi in cui vengono inseriti) della poetica di questo artista, teso a dare forma concreta e tangibile all’immaterialità del ricordo, che spesso lapidi e monumenti non sono capaci di preservare.
Ed è a Boltanski che Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione dei parenti delle vittime della strage di Ustica, ha chiesto di creare un’installazione per il Museo della Memoria di Bologna, dedicato alle 81 vittime della strage.
Circa 500 persone hanno visitato il Museo il giorno della sua inaugurazione, il 27 giugno di quest’anno, precisamente a ventisette anni dall’abbattimento del volo Itavia “in una guerra di fatto non dichiarata” come dice la sentenza del 1999 del giudice Priore.
Progettato dall’architetto Gian Paolo Mazzuccato (che, morto nell’aprile 2007, non ha potuto vederlo concluso), il Museo nasce sotto l’impulso e grazie alla determinazione dell’Associazione dei parenti delle vittime. Nel maggio 2001 un protocollo impegna Comune, Provincia, Regione e i ministeri di Grazia e giustizia e Beni culturali; nel maggio 2006 la custodia del relitto passa al sindaco di Bologna; un mese dopo, i resti dell’aereo vengono trasportati – con un lungo viaggio che impegna 15 tir – dal deposito di Pratica di Mare dove per anni erano rimasti, ai capannoni dismessi di via Saliceto 5, dove oggi sorge il Museo.
Luogo non statico, che raccoglie – e continuerà a raccogliere – la documentazione (cartacea, ma anche televisiva e cinematografica) relativa alla tragedia; consultabile dai visitatori – finora circa un centinaio al giorno – in una saletta attrezzata, mentre presso l’istituto della Resistenza Parri è consultabile la parte archivistica e storica, comprese le carte del lungo iter processuale che, nel 1999, vide il rinvio a giudizio di due generali, poi assolti.
Ma il punto focale del Museo è la grande sala in cui è stato pazientemente ricostruito ciò che resta del Dc9, “corpo smembrato” che, come dice in Ultimo volo Pippo Pollina, è “tutto quello che rimane” delle 81 vittime. Intorno a questa “carcassa” che “ora si chiama memoria”, adagiata al centro della sala, in una zona col pavimento ribassato, Boltanski ha disposto scatole nere di diversa grandezza, che celano allo sguardo gli effetti personali dei passeggeri, inventariati in un piccolo opuscolo con foto, un po’ sfocate, in bianco e nero.
Il relitto, illuminato da 81 lampadine pulsanti come al ritmo di un respiro, è circondato da una sorta di ballatoio, lungo il quale 81 specchi neri riflettono l’immagine dei visitatori. 81 altoparlanti diffondono un mormorio, frammenti di frasi, pensieri comuni di donne, uomini, bambini in viaggio: a rendere vivo e pulsante il ricordo, nella consapevolezza e nel sentimento della casualità con cui la strage ha scelto le sue vittime e ha ridotto l’astratto “chiunque fosse là” a 81 esistenze reali. Un’opera che ci apre alla dolorosa memoria di qualcuno, che … “potevamo essere noi”.