mercoledì 9 settembre 2009

Ancora sul presunto silenzio delle donne e le politiche di disciplinamento

Gridare al "silenzio delle donne" (o delle "femministe") è una forma discorsiva già molte volte sperimentata per soffocare il dissenso, ignorare prese di posizione scomode o non allineate, ed emarginare le pratiche di resistenza che quotidianamente le donne mettono in atto nelle strade, nei luoghi di lavoro e di "non lavoro". Ne avevamo già parlato qui a proposito delle oscene strumentalizzazioni dell'omicidio di Hina Saleem (e tante altre). Più volte abbiamo affermato che altrove andava denunciato un colpevole silenzio, quel silenzio che nell'Italia del pacchetto sicurezza, dei respingimenti, delle morti in mare e nei Cie, della progressiva clandestinizzazione, precarizzazione e criminilizzazione di strati sempre più ampi della società, non può che essere complice.
Ma gridare al silenzio delle donne è una pratica efficace, alcune se ne rendono (per quel perverso meccanismo che talvolta unisce vittime e carnefici o forse per questioni molto più pragmatiche, chissà) inspiegabilmente complici, stabilendo che è il momento, da questo silenzio, di uscire. Chi in silenzio non è mai stata (e non siamo poche) avverte, comprensibilmente, un certo fastidio tutte le volte che una tale forma discorsiva viene messa in campo. Ultimamente la strategia del "presunto silenzio delle donne" , dopo le rivelazioni estive sulle imprese sessuali del premier Berlusconi, ha rifatto capolino nel dibattito, e in grande stile. Domenica 5 settembre il quotidiano L'Unità ha ospitato un ampio resoconto del forum Il silenzio delle donne (costituito da giornaliste de L'Unità, deputate e parlamentari del Pd, femministe storiche), tutte a ribadire che è necessario "uscire dal silenzio, farsi sentire. Adesso. Perché le cose stanno già accadendo: la mortificazione, ogni giorno, di troppe donne". Qualcuna si è chiesta sgomenta leggendo: e tutto quello che ho fatto/detto/scritto (a volte anche urlato) finora, che fine ha fatto? Molto giustamente, qualche tempo fa, Floriana Lipparini (in un articolo dal significativo titolo di Non stiamo in silenzio) invitava le donne che avevano aperto il dibattito sul presunto silenzio delle donne, a non confondere "il non esserci con il non comparire", denunciando i meccanismi di potere che portano molte a non conquistare le prime pagine dei grandi quotidiani, una poltrona nei salotti televisivi o cinque minuti di celebrità nelle news dei telegiornali. Lipparini invitava anche a fare "un giro in internet", nei siti e blog gestiti da donne, a leggere quanto scrivono, fanno, propongono. Non so se Nadia Urbinati o altre del forum sul (presunto) silenzio delle donne lo abbiamo fatto. Non so quindi se hanno letto (o leggeranno) l'articolo di Adelaide Coletti, Il presunto silenzio delle donne e le politiche di disciplinamento. Ed è un vero peccato, perché illumina sulle ragioni che hanno portato tante donne, me compresa, non soltanto a provare fastidio per l'ennesima ingiunzione ad uscire da un silenzio nel quale non ci siamo mai accomodate, ma anche verso i termini nei quali il dibattito è stato costretto e gli intenti che ha rivelato. Scrive Coletti: "L’intento sembra essere quello di promuovere un mobilitazione femminile in autunno e la motivazione di fondo di questa chiamata alla piazza è l’indignazione circa le abitudini sessuali di Berlusconi, la mercificazione del corpo delle donne perpetrata dai mass media e da una politica che si sostanzia nell’intreccio sesso - denaro - potere usato come un’ arma di fascinazione e ricatto che ogni donna prima o poi incontra nel percorso volto alla sua realizzazione, considerata esclusivamente nell’accezione liberale e dunque come possibilità opportunistica di vincere la competizione con gli uomini e affermarsi nell’arena professionale. Questi argomenti sono l’unico focus di un dibattito che ne omette la connessione con le reali condizioni di vita delle donne -native e migranti- nel nostro paese, determinate da interventi etici che riportano i corpi a contenitori biologici, dalla privatizzazione dei servizi, dal doppio carico dal lavoro produttivo e riproduttivo, dalle politiche xenofobe, nonché della complicità femminile con i meccanismi di cooptazione del potere. All’omissione di questioni politiche nodali si somma l’esclusione dei soggetti della trasformazione: barricate dietro il paravento del presunto silenzio delle donne, escludono tutto ciò che si muove nella società". Poichè non sono certa che l'articolo di Adelaide Coletti sarà pubblicato sulle pagine del L'Unità (anche se pubblicarlo potrebbe essere un primo passo per rompere quel silenzio che si denuncia), ri-pubblico anche qui, come già altrove, Sul presunto silenzio delle donne e le politiche di disciplinamento. Buona lettura e riflessioni.

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Adelaide Coletti, Sul presunto silenzio delle donne e le politiche di disciplinamento


Sono numerosi i campi privilegiati d’osservazione della capacità dello Stato e delle sue istituzioni di esercitare attraverso le politiche di parità un’azione disciplinante in materia di relazione tra i generi. Si può ad esempio far riferimento alla gestione pubblica della violenza maschile sulle donne che si consolida assieme ai dispostivi sullo straniero, la marginalità, la psicopatologia, in una specie di esternalizzazione del problema. Si focalizza l’attenzione sulla donna che da soggetto di autodeterminazione diventa oggetto di normazione di uno Stato padre-padrone che si arroga il diritto di proteggerla con soluzioni legislative di stampo repressivo, e così procedendo recepisce e allo stesso tempo rafforza il pesante retaggio patriarcale della nostra società, salvo poi – per dirla con le parole dell’appello “maschilismo di stato, morte della democrazia”- ricoprire il ruolo di utilizzatore finale di prestazioni femminili per i propri svaghi, giocati in luoghi destinati a fini pubblici. Legittimare lo Stato nel ruolo di protettore significa dipendere dalle sue regole, le quali operano una costante divisione dei “bisognosi”. Così le donne che si comportano “ per bene” sono degne di protezione, alle altre che generalmente non sono italiane, ne bianche sono riservati i pacchetti sicurezza, la legge Carfagna, i centri di detenzione.


[continua QUI]

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1 commento:

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