Sul sito di Uninomade è stata pubblicata ieri, con il titolo di Parola di donne, una recensione di Cristina Morini - che ringraziamo per i tanti spunti di riflessione - al nostro volume Femministe a parole. Grovigli da districare. La ripubblichiamo anche qui sperando possa contribuire al dibattito in corso. Buona lettura! // Le parole per dirlo di Marie Cardinal, cioè il coraggio di ammettere finalmente la nevrosi femminile generata dalla solitudine e dall’ipocrisia di un interno borghese, sono diventate, nel 2002, Le parole per farlo in un libro curato da Adriana Nannicini, espressione del lavoro femminilizzato e relazionale che si dispiega all’esterno, sfruttando sopra ogni cosa proprio il linguaggio e dichiarando la generalizzazione della precarietà. Il rapporto delle donne con la “parola” e la “realtà”, entrambe plasmate dal potere maschile, è questione spinosa per non dire chiaramente di un’antinomia che il femminismo degli esordi denuncia ricorrendo alla pratica dell’autocoscienza come sblocco politico possibile: la parola scritta e il suo “valore mitico” oppure la scoperta di sé e il confronto con le altre, l’esperienza o la “cultura”? Il femminismo ha mantenuto sempre, anche in ambito teorico, una particolare attenzione al linguaggio – inteso come luogo che produce le cose che nomina – ma la domanda risulta particolarmente interessante in tempi di general intellect, nel meccanismo algoritmico della produzione e della diffusione della conoscenza attraverso i processi di cooperazione inseparabili dalla soggettività, nel disfarsi dei collegamenti immediati tra composizione tecnica e composizione politica connessi alla precarizzazione che fuorvia anche il concetto di classe, laddove entrano in crisi i dispositivi di divisione del lavoro e di divisione sessuale del lavoro. Un processo che potrebbe aprire prospettive inedite, ampiamente ricompositrici, pur all’interno della frammentazione non casualmente imposta dalla precarietà, riassumendo la potenza della soggettività in quell’“unica materia del mondo” evocata da Daniela Pellegrini (Una donna di troppo. Storia di una vita politica singolare, Franco Angeli, 2012). Infatti, nel saldarsi delle categorie di produzione e riproduzione, la soggettività attuale potenzialmente saprebbe, in modo inedito, autonomizzarsi dal potere, forse con ciò liberandosi, tra le altre cose, anche della storica dicotomia tra espressione di sé e “cultura” del cui amaro contrassegno patriarcale è stato consapevole il femminismo più stimolante e radicale. Così, la prima cosa che immediatamente attrae in un libro che s’intitola Femministe a parole. Grovigli da districare (Ediesse, 2012, pag. 363) è lo spingersi ad affermare adesso, rivendicando l’atto in modo il più possibile ampio e imponente, la forza della parola e del sapere delle donne nel mondo benché sempre al di fuori di ogni lusinga mainstream (tradotto: bianca, moderata, rigorosamente eterosessuale). Una parola che non sia ideologica, ovvero corrotta dalle tentazioni di un potere che finisce solo per rassicurare e confermare il potere stesso, ma che ricostruisca, voce dopo voce, la risonanza della produzione di pensiero delle donne, pensiero sovversivo rispetto ai dispositivi normanti e di comando sulla vita. Una parola che metta in crisi, definitivamente, ogni dominio annichilente perché è incompatibile con esso, e contemporaneamente non pretenda di dare risposte definitive. Una parola che non si dichiari salvifica, poiché non intende proteggere alcuno indicando la strada del futuro tra le macerie, ma che si proponga di disfare l’impianto esistente, tirando il colpo necessario con tutta la necessaria energia. Un lessico, dunque, un dizionario ragionato di parole femministe per tutte e per tutti, di cui tutte e tutti avevamo bisogno. Nell’introduzione, le curatrici, Sabrina Marchetti, Jamila M. H. Mascat e Vincenza Perilli, scrivono: “L’ironia sottesa al titolo del volume è un’ironia che rivendica e sottolinea la nostra esigenza, in quanto femministe, di fare i conti con le parole che usiamo e come le usiamo e con quelle che non usiamo e perché lo facciamo. La lezione che il femminismo insegna, infatti, è che il linguaggio non è affatto neutro ma riflette rapporti di dominazione che le parole, a loro volta, possono contribuire a riprodurre e a consolidare” (pag. 13). Il richiamo della prefazione a come i “soggetti assoggettati” abbiano costantemente sentito il bisogno di “condurre battaglie contro e dentro il linguaggio, rimuovendo alcune parole o inventandone di nuove” (pag.14), ha fatto scattare un’assonanza: “lo spazio della donna sarebbe tra questi due poli: tra il silenzio (la mancanza di simbolo) e la parola paterna, la Legge e il Valore” (Carla Lonzi, 1977). La contraddizione si risolse a quei tempi ponendosi al di fuori di ogni parlare che fosse interno a una formulazione maschile, rifiutando un riconoscimento pagato al prezzo di costruirsi sull’immagine voluta dall’uomo. Oggi, ricordando con bell hoock come la lingua sia anche “un luogo di lotta”, le 44 autrici che hanno affrontato i lemmi proposti nel testo hanno voluto mettere in risalto l’aggrovigliamento del tema trattato “con la consapevolezza che se la stanza tutta per se forse è diventata una certezza appena se ne esce fuori per le femministe cominciano i rompicapi” (pag. 12). Tuttavia gli oppressi lottano anche con la lingua per riprendere possesso di se stessi, per riconoscersi, per riunirsi, per ricominciare. E cioè, “le nostre parole significano, sono azione, resistenza”. Scrittura antagonistica, non asservita, una forma di esercizio del conflitto di cui, tra l’altro, non tutti comprendono e riconoscono la sofferenza e la fatica.
Ma c’è di più. Osserviamo bene i dispositivi attuali di esclusione dalla polis: essi sono senz’altro spietati nei confronti delle/degli “stranieri”, migranti “illegali” che forzano i muri delle fortezze occidentali ma sono viceversa, sempre più spesso, diventati sistemi di inclusione forzata/cercata per le donne native. A quarant’anni dalla rivoluzione femminista, non possiamo più tratteggiare un conflitto lineare fra “le” donne e lo spazio pubblico: non abbiamo affatto di fronte solo un’uniforme voglia di estraneità, non oppressioni né tanto meno diseguaglianze omogenee ma ancora più ampie varietà e stratificazioni che in passato. Ci confrontiamo con un nuovo desiderio di assimilazione e con un sconosciuto bisogno delle donne di essere viste, proprio dentro i luoghi istituzionali. Non c’entra direttamente con il libro e non è scopo di queste note entrare nello specifico di una bagarre sulle delizie e le miserie della rappresentanza femminile sulla quale molte opinioni verranno spese da qui alla attesa elezione di un 40% di parlamentari donne: questa discussione è stata già fatta e non riesce ad appassionarmi veramente (si vedano su questo sito gli articoli “Femminismo prêt à porter” e “Se il femminismo è un brand”). Certo, essa fa parte di insolite complicanze e di sconosciute torsioni, di conformismi e “chiamate” ieri impensabili (l’immagine e la figura della velina, per esempio, trattate nel libro da Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi). Mentre si scaricano vecchie zavorre (“Famiglie. Affettività non tradizionali”, lemma di Gaia Giuliani), si manifesta una neonata ma robusta tensione di una parte delle donne verso nuovi incarichi formalizzati e stabiliti dallo stato e dalle sue deformi strutture, nel bel mezzo della crisi più estrema della politica contemporanea tradizionale e proprio mentre parti dei movimenti europei si confrontano con la necessità di aprire processi costituenti. Un gesto, piaccia o meno, con il quale bisognerà fare i conti, qualcosa ci ha già detto, qualcosa ci dirà. Forse ennesimo accoglimento del ruolo tutelare del femminile, che tanta parte ha avuto nelle nostre culture: capaci, già nei miti antichi, di dissipare le tenebre e il male, riusciranno oggi le donne nel prodigio di vitalizzare la moribonda politica italiana? Forse, più prosaicamente, solo specchio inclemente delle nostre precarietà a cui non sappiamo trovare soluzioni: l’assenza di una radicale trasformazione sociale ci mette sempre più gravemente di fronte al problema del denaro e del tempo – e non è certo la prima volta che accade. La donna, “eterna ironia della comunità”: è stata, anche in questo caso, Carla Lonzi a rimarcare che già Hegel (sul quale consigliava di sputare) aveva capito come “l’arguzia della ragione” sarebbe stata in grado di rendere funzionale alla società patriarcale l’indistinto moto di dissidenza femminile (1970). Tuttavia, aggiungeremo noi, le donne non sono le sole custodi della cosiddetta “eccedenza”, consacrate, come le sante, a un voto di marginalità e povertà mentre tutti i “compagni” del mondo si possono misurare con le maschie contraddizioni della rappresentanza, comunque vada tra minori scandali, nausee e clamori. Questo per dire, tornando al tema, che le cose cambiano. Che cosa significano certi spostamenti? Come potremo interpretarli e con quali strumenti? Quali sono i femminismi oltre il nostro orizzonte provinciale, quante le posizioni sui vari temi? Soprattutto, quali le donne e quali le cose che vogliono? Quali i sessi, che cosa i generi? E infine, anche: chi è questo Lui, “significante assoluto del soggetto sociale pieno e libero rispetto al quale gli/le altri/i sono minoranze”, e cioè “l’Uomo” (“Uomo. Smascherare il maschile” del Laboratorio Smaschieramenti)?
Per questi motivi e altri ancora sui quali non mi dilungo, la condivisione di un lessico, la proposta di un bagaglio di parole-frasi che fungano da strumentazione dei femminismi contemporanei è fondamentale. Essa può essere non solo utile ma propedeutica a un ripensamento critico, qui e ora, delle nuove contraddizioni e problematiche che incontra sulla sua strada il soggetto sessuato, incarnato, situato, ancorato all’oggi. Certamente contro la concezione dell’universalismo astratto incardinata sull’individuo neutro (maschio) ma senz’altro dentro la necessità di una nuova modulazione e di un aggiornamento delle nostre categorie interpretative per accompagnare nuove battaglie. Le donne, dunque, completamente interne a tutti i processi, con le parole e i rischi di nuove soggezioni, fuori da ogni logica identitaria, tenendo conto di diversi luoghi e diverse condizioni, intendendo la pratica del posizionamento come modo di “interrogare e decostruire il privilegio della bianche” della classe media e ponendo molta attenzione a sogni di alleanza globale tra donne basati “sulla convinzione essenzialista che tutte le donne del mondo condividano una comune esperienza ‘in quanto donne’” (“Femminismo transazionale” di Elisabetta Pesole). Figure di un’antropologia sessuata di una nuova politica forse non più fallogocentrica e non più imprigionata nelle sue tradizionali antinomie ma che debbono rendersi consapevoli di inedite opposizioni e complessità, di inconsueti sistemi di cattura. I temi affrontati nelle voci proposte da questo testo sono importanti e rendono conto della produzione teorica delle donne che insieme animano il dibattito politico sul vivere contemporaneo, sui suoi recessi e sulle sue increspature, dentro un caleidoscopio di posizioni diverse che fa plurali i femminismi. All’interno di queste prospettive, il punto di vista femminista può rappresentare una chiave di lettura fondamentale, da rivisitare o da scoprire, a seconda che la lettrice o il lettore siano più o meno vicini o lontani dalla materia. Quindi, il testo si pone anche semplicemente come una raccolta di voci per approfondire, per conoscere, per capire meglio e di più. Effettivamente, si tratta di districare i grovigli, come dicono le curatrici, “senza eliminare le tensioni e i conflitti che ne sono all’origine e che sono parte del dna del femminismo”. La lezione biopolitica del femminismo, che ha consentito di comprendere alcuni nodi cruciali con grande anticipo rispetto alle modificazioni bioeconomiche che ci pone chiaramente di fronte il presente, ci ricorda che gli strumenti di indagine “a partire da sé”, vanno intesi come un concreto procedimento politico, come “pratica sperimentale della politica” che punta alla rivoluzione del mondo che conosciamo attraverso instancabili tentativi che possono muovere solo da ciò che conosciamo. Voglio qui ricordare quanto scritto – ed è esattamente così che io credo si debba procedere tutti, da qui in poi – da Judith Revel alla voce “Sperimentazione” per il Dictionnaire politique à l’usage des gouvernés: “La sperimentazione è precisamente la questione del campo attuale dei possibili. Ben lontana dall’utopia – che non lavora all’interno del “già-dato” delle cose presenti – essa tenta la scommessa al contempo dell’analisi di ciò che è, e della sua trasformazione radicale. Non si tratta né di ridursi alla mera registrazione delle necessità di un mondo subìto né di sognare un altro mondo, bensì di cambiare questo mondo qui. (…) Un’attitudine nei confronti del mondo che fa di ciascuno di noi colui che allo stesso tempo diagnostica la propria situazione e cartografa le proprie determinazioni, e colui che inventa una differenza possibile (Dictionnaire politique à l’usage des gouvernés, a cura di F. Brugère a G. le Blanc, Bayard, Paris, 2012. Vedi http://www.uninomade.org/sperimentazione/).
Saperi situati e voci per il nuovo mondo. I saperi a cui attingere per ri-trovare le parole per cambiare questo mondo, quelli a cui personalmente penso, in linea con il contesto del biocapitalismo cognitivo-relazionale che richiamavo frettolosamente in attacco, attengono dunque direttamente al soggetto, fattosi autonomo anche rispetto alle fabbriche del sapere, ai templi sfatti della conoscenza accademica, vuotamente arroccata su se stessa. A questi nuovi saperi non meramente libreschi e a un’autorevolezza che non ha più tutto questo bisogno – si è, appunto, almeno parzialmente, autonomizzata – dei filtri delle istituzioni storicamente deputate (università, giornali…) è necessario guardare per trovare il nuovo. La fase è faticosa, complessa, rischiosa e oggi, con la crisi economica e finanziaria, perfino disgraziata, ma il campo è anche più libero da certi fardelli: i partiti, i sindacati, i sessi, le separazioni tra il bene e il male o il privato e il pubblico sono in grande difficoltà. Addio a tutti voi, mai ci siamo amati. Dunque, evidentemente, questo contesto cambiato ci può consentire di imprimere un andamento diverso, giocando una funzione pienamente d’attacco ora che la materia stessa della produzione è la riproduzione sociale ed ora che anche la classe è più difficile da individuare. Un’occasione che, lungi dall’intendersi come una sciagura, può essere vista come una nuova possibilità di collegamento tra gruppi sociali, categorie, generi, nel fordismo comunque sclerotizzati improduttivamente da separazioni. Bisogna rompere con una soffocante identità ideologica tra donne che impedisce ogni emersione di coscienza critica distinta e che naturalizza le forme specifiche di “violenza razzista e di classe delle società europee” (si vedano le voci “Serva&Padrona” di Sabrina Marchetti e “Velate e svelate” di Chiara Bonfiglioli), ma nello stesso tempo evitare di ritenere che, per la prima volta nella storia, la precarietà ci abbia messe di fronte alla difficoltà delle frammentazioni. Perciò, interrogarsi insieme alle altre, scandagliando i labirinti di termini come colore, noir, bianchezza, razza, migranti, femminismo islamico, femminismo postcoloniale. Essi vengono assunti come parte integrante del bagaglio terminologico della cultura femminista contemporanea. “Subalterna” il lemma preso in carico da Angela D’Ottavio parte dal famoso saggio di Gayatri Chakravorty Spivak Can the subaltern speack? per inserire il tema della subalternità all’interno delle trasformazioni del capitalismo globale contemporaneo, sottolineando come sia necessario prestare attenzione a non abusare del termine per riferirsi a qualsiasi forma di subordinazione, quasi si andasse disperatamente alla ricerca del buon selvaggio a cui fare del bene. Istaurare invece una linea di comunicazione, una agency che può “far cominciare il lungo cammino verso l’egemonia”, spogliandosi da ogni eurocentrismo benevolente per creare le condizioni “perché la resistenza possa essere riconosciuta come tale”. Si tratta cioè di tenerci al riparo da ogni stucchevole relativismo, essendo tuttavia consapevoli delle possibili interrelazioni tra razza e genere, intese nei termini di una congiunta vigilanza critica sulle forme assunte dal capitalismo contemporaneo. Non a caso abbiamo ritenuto necessario mettere queste nozioni al centro del seminario di UniNomade del giugno scorso, a Napoli: “Oggi, il processo di razzializzazione deve essere considerato come parte costitutiva di un più largo esempio di governance locale postcoloniale orientata alla gestione delle principali trasformazioni politiche ed economiche degli ultimi vent’anni (la così detta transizione dal fordismo al postfordismo). Si tratta della riorganizzazione dell’intero tessuto sociale come esito dei processi di globalizzazione, delle ormai inarrestabili migrazioni e dell’irriducibile mobilità del lavoro. Ma anche come effetto delle lotte anticoloniali e delle enunciazioni del femminismo che hanno rimodellato il mercato del lavoro e le relazioni sociali dal 1970 in avanti” (Anna Curcio e Miguel Mellino, estratti da Race at Work. Rise and Challenge of Italian Racism, in Darkmatter Journal, 6, 2010, trad. it. http://www.uninomade.org/note-su-razzismo-e-antirazzismo/). Altri nodi, nel testo, si avviluppano intorno ai termini “Queer” (“Un soggetto senza identità?”, di Monica Pietrangeli) e “Postporno” (“Quel porno che non è un porno” di Rachele Borghi). Nel primo caso, ammettendo che ricostruire l’origine – da Teresa de Lauretis a Judith Butler a Preciado – di una parola pressoché intraducibile e che “trae un certo vantaggio dal mantenersi al di sotto della soglia dell’intellegibile”, è la perfetta figurazione lessicale della soggettività contemporanea, rizomatica, scomposta e composita, nell’esplosione della categoria di donna e nella proliferazione di varie categorie di genere. Nel secondo, descrivendo un fenomeno fluido, che rifiuta etichette e che rimette al centro il corpo e il suo desiderio e il suo piacere contro la (dis)erotizzazione mercificata imposta dal capitale, che mi pare l’aspetto più interessante da rimarcare. Performer di cultura postporno che fanno riferimento alla queer theory nel suo insieme che diventano veri e propri manifesti “di un femminismo dissidente tran-genere”. E così il lemma “Sesso e genere”, scritto da Liliana Ellena e Vincenza Perilli serve per dipanare i fili di una matassa particolarmente difficile da sbrogliare laddove, paradossalmente, la parola genere (da gender la cui traduzione nelle lingue romanze pone problemi e rischia slittamenti di significato), “nel linguaggio comune e nel dibattito culturale – inteso in maniera semplificatoria come ciò che attiene al sociale in contrapposizione alla sfera biologica rappresentata dal sesso – corre il rischio di reintrodurre quei presupposti naturalizzanti contro i quali aveva preso le mosse”. Beatrice Busi ci porta via con sé a visitare la “geografia degli organi senza corpo ritagliata dal dispositivo etero-normativo, il cui funzionamento richiede una rigida separazione tra maschile e femminile e i genitali rivestono il ruolo di significante socio-sessuale per eccellenza” e siamo alla voce “Modificazioni. MGF, trans e inter-sex”: “La sostituzione di un modello binario con un modello polimorfico del sesso e del genere non può di per sé assicurare la fine della violenza e delle discriminazioni” ma almeno assicurerebbe lo sforzo di una ginnastica mentale collettiva verso la legittimazione dell’“Altro”. Insomma, anche qui, un nucleo combinato di parole che ci inserisce nel solco tracciato dal “terzo femminismo” di Beatriz Preciado, “aprendo definitivamente la strada al transfemminismo, un femminismo trasversale al sesso e al genere che legittima l’esistenza di identità fluide caratteristiche delle società post identitarie in cui le nostre alleanze più prossime debbono essere transgeniche, transessuali, anticoloniali. Queste sono le nostre alleanze, questo è il luogo del femminismo oggi” (Rachele Borghi). Siamo arrivate alla fine. Dopo questa traversata sinceramente entusiasta tra le parole, non posso evitare dal fare un appunto al libro: mancano alcune voci, per esempio “precarietà”, nell’evoluzione/involuzione della figura della donna(uomo)-impresa-precaria e della precarietà di seconda o addirittura di terza generazione; avrei voluto leggere qualcosa su welfare del comune e reddito di base dal punto di vista delle donne, analisi che ha alle spalle una autorevole tradizione italiana, a partire da Lotta Femminista. Proprio per reagire alla normalizzazione complessiva del pensiero all’interno della quale anche il femminismo tende a diventare un’opzione puramente culturale, dentro un meccanismo di integrazione che ha oscurato, invisibilizzato e addomesticato l’elaborazione più radicale dei movimenti italiani delle donne, sarebbe stato soprattutto fruttuoso ricostruire-decostruire l’origine e gli effetti del termine “lavoro”, attualizzando – a partire da ciò che una parte del femminismo ha già detto – la sempre più assurda asimmetria concettuale “lavoro-non lavoro” che è forse quella che maggiormente avrebbe la necessità di essere rivisitata, setacciata e messa a critica. La scomposizione della soggettività è anche il frutto dell’inesorabile e problematica crisi dell’istituto sociale del lavoro, la retorica lavorista – che vogliamo respingere – ci ha agganciate solo di recente, guarda caso nel momento in cui il lavoro perde di significato da un punto di vista simbolico e del valore, e guarda caso mentre ne guadagna la riproduzione sociale contemporanea, ovvero un più ampio processo produttivo che ha a che vedere anche con la traduzione delle esistenze in forme di gestione e di controllo, ovvero con la produzione di ideologie e di consenso, di stili di vita, di riti, di norme comportamentali. Queste sono, a mio avviso, le parole che ci autorizzano di fare i ragionamenti con i quali ho aperto la mia lettura, ovvero quelle che consentono di sviscerare il cambio di paradigma e dunque di circoscrivere il quadro nel quale vanno inserite le lotte e i conflitti delle soggettività plurali al sistema del biocapitalismo totale, ciò che collega i grovigli e complica le complessità, rendendole possibili e visibili. Pur ammettendo che non esistono più gli scenari granitici e le spiegazioni univoche e definitive, ciò che stiamo evocando potrebbe anche essere definito biopolitica, con i suoi quadri di prescrittività sociale e di appropriazione del vivente: è la società vampirizzata e tradotta in mercato, dove si inducono le condizioni perché l’intreccio degli scambi non venga mai indirizzato a un bene collettivo. Dispositivo di biopolitica che coordina sottilmente la competizione tra interessi individuali, interiorizzati e diversi. Dispositivo di infelicità, presentismo che dà ansia. Che genera depressione perché avvilisce l’essenza della cooperazione (comunanza), esigendo di sussumerla e traducendola in valore di scambio. Ma che, d’altro lato, produce eccedenza, un meccanismo di enorme importanza per l’esistenza, rivincita della vita sulle forme di produzione finalizzate al profitto, trasformazione dei piani della produzione e della riproduzione sociale stessa. Eccedenza che intendiamo come capacità critica e di produzione di pensiero autonomo, di produzione di materiali improduttivi rispetto al criterio di “produttività” funzionale al profitto. Dunque proprio questa consapevolezza “materiale” dei processi in atto va posta al centro: oggi più che mai essa è il cuore di ogni capacità di presa di posizione responsabile e di sottrazione alle programmazioni sociali o ideologiche nelle quali siamo tutte e tutti inseriti.
Un filo rosso che già emerge, a tratti, sia chiaro, dalle matasse proposte dal testo ma che, a mio parere, sarebbe stato particolarmente interessante indicare. Nominare apertamente, appunto //
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