Negli ultimi giorni si è molto discusso in rete di un articolo di Nancy Fraser pubblicato lo scorso 14 ottobre da The Guardian, How feminism became capitalism's handmaiden - and how to reclaim it, tradotto da Cristina Morini con il titolo di Come il femminismo divenne ancella del capitalismo. In questo articolo Fraser constata come "la seconda ondata del femminismo è emersa come critica al capitalismo di prima maniera, ma infine è diventata ancella del capitalismo contemporaneo", questione che solleva, come è stato da più parte rilevato, tutta una serie di interrogativi indubbiamente urgenti da mettere a tema. Ma tra i contributi alla discussione che questo articolo ha suscitato mi sembra particolarmente utile e interessante il provocatorio intervento di Brenna Bhandar e Denise Ferreira da Silva, White Feminist Fatigue Syndrome, ora tradotto in italiano da Incroci De-generi (La sindrome del fardello della donna bianca). Bhandar e Ferreira da Silva, mettono in evidenza come l'articolo di Fraser "che ad una prima occhiata sembra una ragionevole auto-riflessione, una di quelle che si assume il carico e la responsabilità di passate alleanze e celebrazioni di mosse strategiche per il miglioramento della vita delle donne, ad una seconda occhiata rivela l’innata e ripetitiva miopia del femminismo bianco nell’accettare, conversare e riflettere con le femministe nere e del terzo mondo". Denunciano con forza l'utilizzo di un "noi" e del termine "femminismo" al singolare che finiscono ancora una volta per invisibilizzare la presenza di altri percorsi femministi (come il Black Feminism) che, fin dagli anni 70 "hanno sistematicamente costruito una critica femminista non solo al capitalismo di stato, ma anche al capitalismo globalizzato radicato nell’eredità del colonialismo". Mi sembra che questo testo possa contribuire ad aprire una discussione quanto mai necessaria, quindi copio-incollo di seguito la traduzione di Incroci De-generi (che ringrazio per il gran lavoro scusandomi se per mancanza di tempo e una conoscenza piuttosto rozza dell'inglese non ho potuto contribuire a una revisione del testo come auspicato, limitandomi a piccoli interventi). Buona lettura e riflessioni // Nel suo recente articolo pubblicato sulla rubrica Comment is Free, Come il femminismo è diventato un’ancella del capitalismo – e come riprendercelo, Nancy Fraser traccia delle linee a partire dal suo lavoro di teoria politica per argomentare come, nella migliore delle ipotesi, il femminismo sia stato cooptato dal neoliberalismo e nella peggiore sia stato un elemento di compartecipazione capitalista del progetto neo-liberale. Quella che ad una prima occhiata sembra una ragionevole auto-riflessione, una di quelle che si assume il carico e la responsabilità di passate alleanze e della celebrazione delle mosse strategiche finalizzate al miglioramento della vita delle donne, ad una seconda occhiata rivela l’innata e ripetitiva miopia del femminismo bianco nell’accettare, confrontarsi e riflettere con le femministe nere e del terzo mondo. Dai primi anni 70 in poi, queste studiose ed attiviste hanno sistematicamente portato avanti una critica femminista non solo al capitalismo di stato, ma anche al capitalismo globalizzato radicato nell’eredità del colonialismo. Queste femministe non hanno dato la priorità al “sessismo culturale” sulla questione della redistribuzione della ricchezza. La letteratura è vasta, gli esempi sono miriadi ed è dunque ancora più fastidioso che le femministe bianche parlino della seconda ondata del femminismo come se fosse l’unico “femminismo” e usano il pronome “noi” mentre lamentano le sconfitte delle loro battaglie. Lasciateci almeno dire che non esiste nulla che si possa definire “femminismo” in quanto soggetto di qualsiasi proposizione che designa la singola posizione della critica al patriarcato. Per questa posizione c’è stata una frattura sin da quando Sojourner Truth disse “Non sono forse una donna anch’io?”. Tuttavia esiste una posizione femminista soggettiva, quella che Fraser lamenta, che si è seduta molto comodamente al posto del soggetto auto-determinato ed emancipato. Quella ovviamente è la posizione che lei identifica come un contributo al neoliberalismo. Ma non c’è niente di cui meravigliarsi, dal momento che sia il suo femminismo che il suo neoliberalismo condividono la stessa anima liberale che le femministe nere e del terzo mondo hanno identificato e denunciato sin dai primi passi nella traiettoria dei femminismi. Il lavoro di Angela Y. Davis, Audre Lorde, Himani Bannerji, Avtar Brah, Selma James, Maria Mies, Chandra Talpade Mohanty, Silvia Federici, Dorothy Roberts e numerose altre hanno frantumato la natura limitata ed escludente delle strutture concettuali sviluppate dalle femministe bianche nel mondo anglofono. Queste studiose ed attiviste hanno creato strutture di analisi che simultaneamente eccedono una “sfida a” e forniscono un correttivo alla narrazione di entrambe le teorie del marxismo nero e dell’anticolonialismo che fondamentalmente non sono riuscite a teorizzare il genere e la sessualità, e del pensiero femminista marxista e socialista che continua a fallire, per molti aspetti, nel dar conto della razza, della colonizzazione e delle ineguaglianze strutturali fra gli stati nazione cosiddetti sviluppati ed in via di sviluppo. E certo, Mies, Federici e James sono bianche, ma i femminismi neri e del terzo mondo aspirano ad una solidarietà politica che attraversi la linea del colore. Le studiose di cui abbiamo parlato hanno coerentemente sviluppato delle critiche alle forme capitaliste della proprietà, dello scambio, del lavoro retribuito e non, insieme alle forme culturali strutturalmente incorporate nella violenza patriarcale. Prendiamo l’esempio dello stupro e della violenza contro le donne. In quel lavoro spartiacque che è Donne, Razza e Classe, Angela Y. Davis sostiene energicamente che molte delle più attuali e pressanti battaglie politiche affrontate dalle donne nere sono radicate nel particolare tipo di oppressione che hanno sofferto da schiave. Lo stupro e la violenza sessuale riguardano donne di tutte le classi, razze e sessualità, come Davis nota, ma c’è una valenza differente per uomini e donne nere. Il mito del violentatore nero e dell’uomo nero violentemente ipersessuale ha causato migliaia di linciaggi nell’anteguerra in America. Questo persistente mito razzista fornisce un valore esplicativo per la iper-rappresentazione di uomini neri in prigione condannati per stupro ed ha spinto una parte delle donne afro-americane ad essere riluttanti nel lasciarsi coinvolgere nel primo attivismo contro lo stupro che si focalizzava su un rafforzamento della legge e del sistema giudiziario. L’espropriazione del lavoro nero fondato sulla logica della schiavitù si ripete esso stesso nella espropriazione del lavoro del detenuto nell’era post-schiavista e oggi nel lavoro schiavistico endemico nel complesso industriale carcerario. La violenza sessuale è conseguentemente considerata come qualcosa che deriva dalla schiavitù e dalla colonizzazione, che colpisce sia gli uomini che le donne. La storia dei corpi di donne nere come oggetti di utilità da usare, violare per il piacere dell’uomo bianco rimane come traccia fisica, sociale, razziale nella società americana contemporanea. Per quanto riguarda le native americane, gli stereotipi dell’epoca coloniale della “squaw” continuano ad essere presenti nell’immaginario razzializzato della contemporaneità, rendendo le indigene vulnerabili alle forme di violenza sessuale che sono sempre già razziali, richiamando schemi di violenza emersi attraverso l’esproprio delle loro terre, linguaggi, risorse e, sì, anche pratiche culturali. Recenti proposte, secondo le quali le femministe dovrebbero rivolgere lo sguardo verso il lavoro non retribuito, di cura, sono state analizzate da Patricia Hill Collins in Il pensiero del femminismo nero: sapere, potere e coscienza. Collins enfatizza il fatto che il lavoro a casa delle donne afro-americane che contribuisce al benessere delle loro famiglie, può essere inteso da loro come una forma di resistenza alle imposizioni sociali ed economiche che colludono a danneggiare i bambini e le famiglie afro-americane. Le femministe nere hanno anche condotto la campagna per la retribuzione del lavoro domestico sfidando le norme borghesi dell’economia familiare. Seguendo A.Y. Davis notiamo che le femministe bianche hanno bisogno, quando intraprendono strategie politiche, di riconoscere che le femministe nere e del terzo mondo hanno già teorizzato e praticato a questo proposito da lungo tempo. Porre fine all’oppressione, alla violenza contro le donne, alla violenza contro gli uomini, particolarmente nella variante neoliberale, significa abbracciare il pensiero storico materialista e antirazzista delle femministe nere e del terzo mondo. Le femministe bianche che continuano ad agitare la parola “razza” e “razzismo” nel loro approccio diversamente sinistro-liberale sono ostinatamente cieche/sorde? Sono incapaci di cedere il passo al femminismo nero perché significherebbe la perdita di un certo privilegio razziale? Il persistente richiamo all’universalismo, che è il nucleo del femminismo bianco, continua ripetutamente a rendere invisibile le esperienze, il pensiero e il lavoro del femminismo nero e del terzo mondo. E’ ora!
1 commento:
Infatti, ho letto con molto interesse. Non nascondo che ho simpatizzato con l'articolo di Fraser da subito. Ma, come si dice nel testo, "a una prima occhiata". A una seconda occhiata, grazie - per me - a questo testo, tutto appare più problematico. A questo punto non è più prorogabile approfondire il pensiero delle autrici citate. Grazie grazie grazie.
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