domenica 30 agosto 2009

L'Islam fa male alle donne? Critica del multiculturalismo e ragioni postcoloniali


Di seguito trovate un articolo di Jamila Mascat (di formazione filosofa, collabora con la rivista Internazionale.it e cura il blog Nero su bianco), appena pubblicato sull'ultimo numero di Controstorie (per il primo numero rinvio qui). Mi sembra che possa in parte contribuire a chiarire alcuni aspetti del nodo femminismo/islam/laicità, nodo che le discussioni e alcuni commenti che hanno accompagnato la publicazione qui in Marginalia di alcuni miei post (tra questi: Per non tornare alle Crociate, Protesta con veli e kefiah nella reggia dei Savoia, Veli svelati. Soggettività del velo islamico in alcune interviste a donne migranti) è ancora lontano dall'essere dipanato. Prima di lasciarvi alla lettura segnalo, per chi non l'avesse riconosciuta al volo, che la magnifica immagine che illustra questo post è ancora un'opera dell'artista iraniana Shirin Neshat.

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Donne e multiculturalismo: se l'Islam fa male alle donne

In un saggio del 1997 apparso sulla Boston Review intitolato “Is multiculturalism bad for women?” Susan Moller Okin si interroga su una questione che formula in questi termini:Che fare quando le pretese di culture e religioni minoritarie collidono col principio dell'uguaglianza di genere che è per lo meno formalmente sottoscritta dagli stati liberal-democratici per quanto continuino a violarla nella pratica?”.

Ripercorrendo una serie di contenziosi sociali e giuridici paradigmatici che riguardano essenzialmente il rapporto tra diritti delle donne e diritti culturali di gruppo nel contesto delle democrazie liberali occidentali, l'autrice si sofferma a riflettere su quella che individua e definisce comela tensione profonda e crescente tra il femminismo e l'ansia multiculturalista di difendere la diversità culturale” . Una tensione di cui i fautori del multiculturalismo, secondo l'autrice, tendono a sottovalutare la portata, optando per soluzioni facilmente, ma non soddisfacentemente, concilianti.

Nonostante il saggio dati di oltre dieci anni l'interrogativo di Okin non sembra aver perso d'attualità.

Di recente in Gran Bretagna, in occasione del ventesimo anniversario della fatwa contro S. Rushdie pronunciata dall'ayatollah Khomeini in seguito alla pubblicazione de I versetti satanici nel 1989, si è tornati a riflettere sul tema del multiculturalismo, quale paradigma di difesa e valorizzazione delle specificità culturali e comunitarie, e sul ruolo svolto da tale paradigma nel panorama teorico-politico della sinistra internazionale degli ultimi venti anni.

A partire da posizioni diverse da quelle di Okin, Kenan Malik autore di From Fatwa to Jihad (Atlantic, 2009) punta il dito contro il carattere antisecolare e anti-illuminista delle strategie multiculturaliste che per mezzo della celebrazione della ‘differenza’ hanno ottenuto come unico risultato quello di favorire l'affermazione delle logiche comunitarie. Nel discorso di Malik l'analisi del consolidamento del fondamentalismo islamico, a partire dalla condanna religiosa di Rushdie nel 1989 fino ad oggi, si accompagna alla denuncia della complicità della sinistra inglese che sposando la causa del multiculturalismo e tradendo il proprio attaccamento al patrimonio ereditario dell'universalismo secolare, ha promosso lo sviluppo di politiche identitarie e costruito lo spazio ideologico per la diffusione e il rafforzamento degli integralismi. Il senso di colpa coloniale nella sinistra britannica avrebbe dato via libera, secondo Malik, all'insorgenza delle autocrazie religiose e al comunitarismo deteriore.

Le posizioni di Okin e Malik non esauriscono lo spettro della discussione su questo tema. Tuttavia esse sintetizzano bene gli argomenti di un certo filone progressista di opposizione al paradigma multiculturalista, a partire da due punti di vista che trovano evidentemente eco all'interno del dibattito odierno: la critica femminista nel caso di Okin, la critica secolare nel caso di Malik.

Occupandoci in questa sede di discutere della questione donne-Islam ci concentreremo principalmente sull'articolazione del discorso di Okin.

La risposta di Okin alla domanda posta nel suo saggio – se il multiculturalismo fa male alle donne – è affermativa. Il multiculturalismo fa male alle donne e il femminismo non può che rimanere scettico nei confronti delle rivendicazioni dei diritti di gruppo delle minoranze culturali, precisamente nella misura in cui esse implicano e demandano la violazione dei diritti delle donne. Secondo Okin, in altre parole, è proprio il principio dell'uguaglianza di genere ad essere compromesso dall'ideale multiculturalista di proteggere le consuetudini e le tradizioni appartenenti a certe culture. Istituendo una distinzione di grado tra culture più o meno sessiste Okin ritiene chela maggior parte delle culture […] che reclamano diritti di gruppo sono più patriarcali delle culture circostanti”, ovvero di quelle culture occidentali in cuialle donne sono giuridicamente garantite molte delle libertà e delle possibilità degli uomini”.

Nello scenario politico e culturale del post-11-settembre la questione di Okin assume una connotazione peculiare che risente della diffusa propaganda islamofoba che da prospettive liberali e/o conservatrici – con connotazioni certo profondamente divergenti – critica l'Islam sul versante della violazione istitituzionalizzata dei diritti umani e nello specifico dei diritti delle donne. In tale scenario la questione intorno a cui si dibatte, parafrasando l'interrogativo di Okin, sembra poter essere formulata così: Is Islam bad for women?

Già nell'articolo di Okin la maggiore parte degli esempi presi in considerazione e discussi riguardano proprio pratiche connesse alle comunità musulmane residenti in Occidente: la poligamia, il velo, i matrimoni combinati ecc. Negli ultimi anni questi temi sono diventati oggetto di discussione nel dibattito filosofico sulla cittadinanza e il pluralismo democratico, nel dibattito politico sul tema della laicità e ancora nel dibattito femminista e femminista postcoloniale.

Come giustamente afferma Okin nel suo articolola maggior parte delle culture sono imbevute di pratiche e ideologie che hanno a che fare col genere” in maniera discriminante. Pertanto secondo l'autrice l'accettazione dei cosiddetti ‘diritti culturali di gruppo’, sbandierati dai fautori del multiculturalismo, implica il fatto di presupporre un'interpretazione delle ‘culture’ in senso monolitico, come fossero realtà sostanziali prive di articolazioni e tensioni interne. Significa in altre parole mantenere sulle culture uno sguardo esterno incapace di cogliere i rapporti di forza di genere che si producono e si riproducono al loro interno.

L'analisi di Okin ha il merito di mettere a fuoco due questioni fondamentali: per un verso essa critica la nozione essenzialista di cultura, propugnata in ambito multiculturalista, la quale impedisce di concepire qualunque trasformazione dinamica di entità considerate alla stregua di oggetti a scatola chiusa destinati a conservarsi immutati o a estinguersi; per un altro verso, ancor più significativo, Okin presta attenzione alla complessità dei rapporti di potere (in tal caso di genere) che prendono corpo all'interno delle pratiche culturali.

Coerentemente con quest'ultima osservazione però è necessario integrare ed estendere l'analisi di Okin, facendo retroagire gli elementi della sua critica con le premesse non indagate del suo discorso. Si tratta in altri termini di precisare che, al pari delle cosiddette ‘culture’, le pratiche e i movimenti di lotta e di emancipazione, come anche i presupposti teorici che li sostengono, sono intersecati da rapporti di forza (rapporti di genere, rapporti di classe e rapporti di razza) che con altrettanta facilità rischiano di essere trascurati a vantaggio di schemi interpretativi universalistici che operano in direzione di un livellamento delle differenze. Il femminismo di Okin nello specifico, concentrandosi sulla denuncia della discriminazione di genere all'interno di contesti culturali distinti, non sembra prendere sufficientemente in considerazione le implicazioni dei rapporti di forza di classe e di razza che attraversano trasversalmente il genere.

L'esempio delle donne musulmane in questo senso è emblematico. E non è una coincidenza se il cosiddetto affaire du voile in Francia sia diventato il casestudy più dibattuto nella letteratura su questo argomento. La visibilità di un simbolo religioso come il velo espone le donne musulmane ad un'immediata identificazione e di conseguenza ad un'immediata discriminazione, che talvolta si traduce in episodi di aggressioni fisiche e verbali. Come è stato giustamente osservato la differenza culturale e religiosa è divenuta nuovamente simbolo, [..], di un'alterità radicale e inassimilabile di cui le donne, loro malgrado, costituiscono uno dei bersagli privilegiati. Perché proprio le donne musulmane, che la sociologa marocchina Fatema Mernissi descriveva come coloro che portano la frontiera del desiderio tatuata sul corpo, rivelano, con la loro visibilità fisica e simbolica, con la loro corporeità, un'eccedenza che si vorrebbe negare, cancellare […]”.

In questa congiuntura il corpo delle donne acquisisce una funzione strategica fondamentale diventando per un verso il teatro delle battaglie per i diritti delle minoranze e il loro riconoscimento in Occidente, per un altro il luogo simbolico della conferma dell'impossibilità di tale riconoscimento.

Oggetto di contesa, il corpo della donna musulmana diventa il campo di una doppia oppressione prescrittiva: il dover essere velata (secondo il rispetto dei dettami tradizionali propri della comunità di appartenenza) e il dover essere scoperta (secondo le prescrizioni della laicità di stato o in base agli imperativi dell'emancipazione femminile).

Islam e islamofobia in Italia

La condizione dell'Islam in Italia necessita di essere inquadrata nel contesto più esteso della condizione dell'Islam in Europa e in Occidente, condizione aggravatasi nel corso degli ultimi anni da episodi come quelli degli attentati di Madrid nel 2004 e Londra nel 2005, i quali hanno largamente contribuito far crescere a dismisura la diffidenza, amplificando la paura e l'odio.

Nonostante la situazione italiana non sia paragonabile a quella di paesi come la Francia, l'Olanda o la Danimarca in cui il dibattito sull'Islam ha assunto toni ben più violenti , la costante crescita in termini numerici e di visibilità delle presenze musulmane in Italia (circa 1, 5 milioni secondo il Dossier Caritas del 2008, oltre 700 moschee e/o sale di preghiera) obbliga a riflettere specificamente sulla questione dell'Islam in Italia e a riscontrare l'emergenza di un allarme ‘islamofobia’.

Una parola, questa, usata e abusata che, se etimologicamente, da un parte, riesce a mettere bene a fuoco la deriva socialmente ‘psicotica’ del fenomeno (la paura dell'invasione barbarica, la paura degli attentati terroristici ecc.), dall'altra finisce in parte per oscurarne il carattere aggressivo e apertamente razzista.

Parlare di islamofobia in Italia significa fare i conti con gli argomenti e le opinioni che in maniera sensibilmente diversa destra e sinistra adottano nel discutere di Islam. Pur ritenendo infatti che sussista un ‘problema di islamofobia’ a sinistra, e perfino nelle fila della cosiddetta sinistra radicale, è necessario fare una distinzione accurata tra gli argomenti messi in campo dalle diverse forze politiche.

A destra l'islamofobia rappresenta una manifestazione di razzismo tra le altre e costituisce un tassello non irrilevante della più vasta propaganda razzista che ha permeato la scorsa campagna elettorale, tutta incentrata sul tema della sicurezza. A ciò si aggiungono una serie di episodi volutamente provocatori, come quelli che hanno visto protagonista l'ex ministro leghista Calderoli (prima nel 2001 a passeggio con un maiale a Lodi in prossimità di un terreno destinato alla costruzione di una moschea, poi con indosso una maglietta con una stampa delle vignette danesi nel 2006, infine promotore nel 2007 del maiale-day in risposta alle polemiche legate alla concessione di uno spazio per la moschea di Bologna) che testimoniano non solo della volgarità e della bassezza degli strumenti di una simile strategia, ma lanciano un'allerta importante in relazione allo statuto di legittimità di atteggiamenti di questo tipo. Il fatto che un esponente del governo possa dar prova impunemente di comportamenti del genere fornisce un alibi consistente a qualunque pratica o atto di discriminazione quotidiana.

Il discorso culturale sull'Islam che la destra ha adottato come proprio, recupera in maniera triviale il paradigma dello ‘scontro di civiltà’ tra Oriente e Occidente a cui i contributi ferocemente diffamatori della giornalista e scrittrice Oriana Fallaci o del neoconvertito exvicedirettore del Corriere della Sera Magdi Cristiano Allam, per citare due fonti autorevoli, hanno fornito un'apparentemente solida sistematizzazione ideologica.

La logica sottesa a questo tipo di discorso, in un clima internazionale dominato dallo slogan della lotta al terrorismo e dall'allarme sicurezza, ha fatto sapientemente leva su “La rabbia e l'orgoglio” – il titolo di un famoso articolo di O. Fallaci scritto qualche giorno dopo gli attentati alle Torri gemelle: la rabbia contro il nemico islamico e l'orgoglio della civilizzazione europea. Su questo terreno è stato possibile articolare la stigmatizzazione demonizzante della religione e della cultura musulmane, fondata sull'equazione islam-terrorismo/ musulmani-criminali e insieme sulla grossolana semplificazione di una realtà variegata e complessa quale è quella delle comunità musulmane e delle pratiche sociali, culturali e religiose connesse all'Islam.

In aggiunta a questo sostrato la propaganda anti-islamica si è alimentata nel corso degli anni anche attraverso il contributo di voci in apparenza non immediatamente suscettibili di essere tacciate di razzismo – è il caso di donne provenienti da paesi musulmani come la marocchina Souad Sbai membro della Consulta islamica italiana, nonché deputata del Popolo della libertà, che hanno prestato volentieri la propria parola alla facile strumentalizzazione delle campagne islamofobe. A queste figure scelte dall'alto – la Consulta islamica è stata istituita per decreto nel 2005 dall'allora ministro degli Interni Pisanu – si riconosce l'autorità di pronunciarsi in vece dei singoli individui che compongono le tante comunità musulmane d'Italia, dimenticando che gli esponenti non eletti di un organo consultivo non possiedono alcun carattere rappresentativo che vada oltre la possibilità di raccontare la propria e l'altrui esperienza o esprimere la propria opinione.

Mentre a destra la condanna dell'Islam, religione della barbarie, si accompagna tradizionalmente all'appoggio incondizionato del clericalismo cattolico in nome della difesa delle autentiche radici dell'Europa cristiana, le critiche che all'Islam puntualmente ha rivolto e rivolge l'opinione pubblica moderata di sinistra si avvalgono degli argomenti dei diritti umani e della laicità per denunciare la deriva del fondamentalismo islamico, in quanto strumento di oppressione e violazione delle libertà. E tuttavia non è possibile non constatare la scarsa coerenza di entrambi gli argomenti avanzati. Sul fronte della laicità le divisioni prodottesi all'interno del centro-sinistra tra laici liberali e teo-democratici sulle questioni bioetiche e sulle questioni legate alle battaglie per i diritti civili, testimoniano delle difficoltà che incontra il pensiero laico centrista ad emergere con una propria fisionomia definita. Sul fronte dei diritti umani l'inconsistenza è ancora più patente, basti pensare a come la denuncia delle atrocità commesse dal regime talebano di Kabul, abbia fornito la legittimazione ideologica dell'opzione interventista, largamente condivisa in seno all'opposizione di centrosinistra, nella guerra del 2001 contro l'Afghanistan votata dal governo Berlusconi.

Infine assecondando la retorica sulla sicurezza propagandata dai partiti del centrodestra in occasione delle ultime elezioni del 2008, anziché smascherarla e disarticolarla, il centro sinistra italiano si è dimostrato ancora una volta incapace di fornire risposte alternative convincenti alle proposte xenofobe e islamofobe orchestrate dalla destra.

La sinistra e l'Islam: femminismo e subalternità

Diverso ancora è il caso di buona parte della sinistra radicale italiana che in maniera non dissimile dalle posizioni adottate dalla sinistra francese in occasione dell'affaire du foulard, interviene nel dibattito sull'Islam schierandosi in nome della laicità contro tutte le religioni, tralasciando in questo modo di sottolineare adeguatamente la profonda disproporzione, in termini di ingerenze politiche e rapporti di forza con le istituzioni, che sussiste, in particolare in Italia, tra le gerarchie religiose cattoliche da un lato e le comunità islamiche dall'altro: le une egemoni, le altre subalterne.

Ma l'argomento evidentemente più ricorrente nel dibattito a sinistra in materia di Islam chiama in causa la difesa dei diritti delle donne dal punto di vista di un femminismo emancipazionista, non dissimile nell'analisi da quello illustrato poco sopra a proposito della riflessione di Okin.

Guerra dell'Islam contro le donne” è il sottotitolo de Il prezzo del velo, il volume pubblicato dalla giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena nel 2008. In maniera eloquente il sottotitolo rende esplicite le coordinate del discorso sviluppato da Sgrena in un libro che possiede nondimeno il merito di illustrare ad un pubblico italiano non per forza edotto sull'argomento le tante varianti delle resistenze femministe islamiche presenti e operanti in molti paesi del mondo. Un'asse portante dell'argomentazione di G. Sgrena è la denuncia del carattere regressivo dei processi di reislamizzazione in atto nei paesi musulmani. Un argomento questo che, tuttavia, necessiterebbe di essere contestualizzato sullo sfondo di un'analisi approfondita dell'evoluzione della storia recente del mondo arabo-musulmano all'indomani della disfatta politica dei progetti nazionalisti laici e in concomitanza con l'intensificazione e l'inasprimento delle presenze imperialiste occidentali.

Per tornare alla domanda da cui si era partiti – se l'islam fa male alle donne – dobbiamo constatare che si tratta di un falso quesito, o meglio di un interrogativo mal formulato nella misura in cui presuppone il fatto di privilegiare una determinata – e tutt'altro che innocente – angolazione nell'analizzare il problema dell'oppressione femminile nei paesi musulmani. Cercheremo pertanto di rispondere a questo interrogativo facendolo interagire con un'altra domanda, cronologicamente e, per così dire, politicamente, antecedente a questa.

Nel 1988 la filosofa bengalese Gayatri C. Spivak poneva ai compagni di strada del collettivo dei Subaltern Studies una questione radicale e offriva una risposta apparentemente sconfortante. Com'è ben noto la domanda era: Can the Subaltern Speak? E la risposta era negativa .

L'operazione ambiziosa portata avanti dal collettivo dell'università di Delhi di restituire la storia e la soggettività dei subalterni per mezzo dell'indagine storiografica – quindi attraverso i materiali di una storiografia composta prevalentemente dai documenti conservati negli archivi coloniali inglesi – rimaneva secondo l'opinione di Spivak, un tentativo votato allo scacco. Tale processo infatti era destinato a fare i conti con la cancellazione della presenza dei soggetti subalterni, messa sistematicamente in opera della storia coloniale e, in particolare, era destinato a far i conti con la doppia rimozione della traccia della differenza sessuale, forclusa dalla memoria imperialista dei colonizzatori e forclusa dalla memoria dei nazionalismi patriarcali.

È nella letteratura più che nella storia, separate soltanto da una differenza di grado, che Spivak individua la possibilità di incontrare le storie singolari e irripetibili delle donne subalterne del Terzo mondo ed è con l'intento di prestare ascolto alle voci rimosse di queste donne che la filosofa traduce e introduce alla lettura di tre brevi racconti della scrittrice bengalese Mahasweta Devi, raccolti in italiano ne La trilogia del seno. Il primo racconto della trilogia, Draupadi, ambientato nei primi anni ’70, narra la vicenda di Dopdi-Draupadi, una giovane guerrigliera impegnata nella lotta armata nel Bengala occidentale tra le fila dei ribelli naxaliti. Ricercata e poi catturata dall'esercito governativo la donna viene sottoposta ad ogni genere di violenza: stuprata ripetutamente dai militari che l'hanno arrestata Draupadi è ridotta ad un corpo immobile aperto a forza”.

Il suo seno massacrato a morsi dai soldati del colonnello Senenayak, dirà coraggiosamente Draupadi portata al cospetto dell'ufficiale, è l'oggetto della sua ricerca”, un superoggetto terrificante che proprio in quanto eterno oggetto – di conoscenza o di salvezza – testimonia della propria condizione di subalternità. Ed è così che il seno sanguinante di Draupadi assurge simbolicamente a obiettivo disarmato” di quella violenza epistemica, che Spivak imputa al conoscere dei vincitori sui vinti.

Al pari del seno di Draupadi il corpo della donna musulmana avvolta dal burqa rappresenta agli occhi dell'Occidente un superoggetto terrificante che è ad un tempo oggetto di conoscenza, sdegno e paternalistica condiscendenza.

I corpi delle donne musulmane come il corpo di un'altra donna indiana, Bhubaneswari Bhaduri – la diciassettenne militante per l'indipendenza indiana che nel 1926 a Calcutta si uccise perché non era riuscita a portare a termine un attentato e aspettò l'arrivo delle mestruazioni per farlo, volendo mostrare a tutti che il suo suicidio non nascondeva una gravidanza illecita – sono corpi a cui sembra impossibile riconoscere la dignità e la legittimità della protesta, della ribellione, della lotta.

Ma a uno sguardo più attento è proprio in questi corpi che possiamo cogliere drammaticamente la sovrapposizione delle gerarchie sessuali e coloniali, quella doppia dominazione che si traduce nella doppia cancellazione menzionata poco sopra, condotta ad opera del patriarcato bianco e del patriarcato indigeno.

La questione della subalternità di genere viene quindi inserita da Spivak nel contesto dei rapporti coloniali e neocoloniali tra il Primo e Terzo mondo che non conoscono una demarcazione geografica netta tra Nord e Sud, avvalendosi del contributo delle élites borghesi indigene nel Terzo mondo come delle élites della diaspora e dell'accademia residenti nel Primo.

"Uomini bianchi non salveranno donne scure da uomini scuri", scrive lapidariamente la filosofa bengalese nella sua opera più nota, la Critica della ragione postcoloniale. Una sentenza che rivela senza appello le menzogne delle guerre umanitarie di tutti i tempi, soprattutto quelle condotte in nome della liberazione delle donne oppresse. Donne oppresse come la Rani di Sirmur, la cui vicenda emblematica negli anni Venti dell'800, si intreccia a quella del dibattito ottocentesco sul sati, il suicidio rituale delle vedove, deplorato dall'opinione pubblica britannica e poi abolito per legge a partire dal 1827: dopo la cattura del Rajah, suo marito, ad opera degli inglesi, la Rani chiese di poter compiere il sati, nonostante lo sposo fosse ancora in vita, ma gli inglesi le impedirono di ripetere questa usanza ritenuta barbarica.

Se in base alla cultura tradizionale il sati rispecchiava l''immagine della donna devota” concepita da un punto di vista profondamente patriarcale, grazie all'intervento britannico la donna indiana ‘liberata’ dal sati diventò, proprio per mezzo di questo finto affrancamento, oggetto dato in pasto alla dominazione coloniale. Schiacciato tra l'uno e l'altro, nota Spivak, è lo spazio della libera volontà, della agency del soggetto sessuato come femminile a essere efficacemente cancellato”.

Ampliando l'orizzonte della sentenza di Spivak possiamo spingerci ad affermare che non soltanto uomini bianchi, ma nemmeno donne bianche "salveranno donne scure da uomini scuri": non per un problema di colore, ma perché di salvezza non si tratta.

Ancora una volta ci rifacciamo alle parole di Spivak che denuncia il ruolo giocato nel dibattito internazionale da quella potremmo definire come l'ideologia dell'imperialismo del gender:


Se il soggetto coloniale, scrive Spivak, era sostanzialmente un soggetto di classe, e se il soggetto della fase postcoloniale era variamente determinato dal punto di vista della razza, ecco che il soggetto della globalizzazione è il gender. Se le armi economiche della globalizzazione sono la Banca Mondiale, l'FMI e l'OMC, ecco che il braccio politico di tali istituzioni coincide sempre di più con le Nazioni Unite. L'Onu e le ong [….] con la loro forza collaborativa, formano quella viene ormai chiamata ‘la società civile internazionale’ […] L'obiettivo di questa società civile è la Donna. Un gruppo di donne che appartiene all'emisfero Nord, in particolare alla classi delle professioniste diasporiche, si sta dando molto da fare per sfruttarne un altro, proprio come il vecchio soggetto coloniale si era fatto carico di fare il ‘lavoro sporco’ del colonizzatore”


Se allora, nell'era del capitalismo globale, il femminismo internazionale si costituisce come egemonia di fronte alla subalternità delle donne proletarizzate del Sud, tentando di costruire un soggetto artificiale ad hoc che diventi il soggetto/oggetto di diritto di una nuova giurisdizione rappresentata dall'unica società civile dominante, occorre ripensare diversamente il rapporto tra queste due polarità, ispirandosi al paradigma che Spivak ha tentato di delineare a proposito dell'interazione tra femminismo e marxismo:il marxismo e il femminismo, osserva Spivak, devono diventare ciascuno l'interruzione critica persistente dell'altro”.

Ci sembra che la stessa prescrizione necessita di essere rivolta alla difficile relazione che intrattengono il femminismo occidentale e le voci della subalternità. Interrompersi incessantemente e criticamente, interrompersi per contrapporsi e ascoltarsi.

L'alternativa, in questo senso, non si configura più come il dover scegliere tra l'opzione del relativismo multiculturale e il paradigma dell'universalismo femminista, ma diventa un monito più profondo a smascherare le implicazioni reali e concrete di un universalismo sbandierato sotto l'egida di organismi internazionali responsabili di perpetrare oppressione e sfruttamento nei confronti di quegli stessi soggetti-oggetti che dichiarano di voler difendere. Un monito a non considerare la questione della subalternità sessuale in maniera scissa e decontestualizzata rispetto alle dinamiche sistemiche del capitalismo globale e dell'imperialismo.

Lo sforzo teorico e politico a cui si è chiamati diventa quello di pensare e praticare un universalismo non imperialista, anzi rigorosamente anti-imperialista, sempre impegnato a disvelare la falsa neutralità degli Universali.

Soltanto su questo terreno sembra possibile concepire l'universalizzazione come un processo: un processo di costruzione politica dell'universale che parta dal presupposto necessario di schierarsi risolutamente contro le politiche imperialiste del Nord e del Sud del mondo, di cui l'imperialismo culturale è un riflesso solidamente stratificato. Un universalismo che anziché insegnare l'emancipazione di genere si mostri capace di "imparare ad imparare dal basso" (learning to learn from below), ovvero dall'esperienza della subalternità negata.

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3 commenti:

Floreal ha detto...

Certo, risalire ad un'opera del 1997, di per se è al quanto significato dato che da allora sono passati ben 12 anni, e che nel frattempo molte cose sono cambiate, non soltanto gli attenti ricordati, ma sono anche arrivati qualche milioni di musulmani in più in Europa a rendere il problema più acuto. Al meno l'opera di G.Sgrena ha il merito di essere più vicino a noi, e non viene meno poiché consolida la tesi della Okin. E quanti libri di rilievo sono stati pubblicati nel frattempo sull'argomento da persone per lo meno altrettanto autorizzate della Mernissi, quella ricca sociologa marocchina che è l'unica ad avere l'onore di una citazione da parte tua, chissà perché.

Nel frattempo vi è stata tutta la vicenda di Ayaan Hirsi Ali (che indubbiamente ti sembrerà troppo "a destra" ma intanto il suo caso è al quanto eloquente, certamente di più di qualunque femminista multiculturalista occidentale che non ha mai avuto da subire niente di paragonabile ma chiacchiera tanto), ma certo non si può collocare "a destra" Chahdortt Djavann, ne Taslima Nasreeen, e di tante altre meno conosciute delle quali non ti degni di una parola. Ma tant'è.

No, in fondo ci servi pari pari il discorso di una Christine Delphy, la madrina degli "Indigènes de la république" e della loro regina Houria Bouteldja. solo che te lo servi all'italiana, condito di quel buonismo benedettocrociano del quale ancora non si è visto gli effetti miracolosi di tanto idealismo se non le sue perfetta inefficienza ed inefficacia sconnesse dalla cruda realtà.

Cosi come ti scordi (ma come mai per una femminista?) che quel foulard (in qualsiasi forma esso possa assumere, dal tchador al niqab) è il segno inequivocabile della discriminazione sessita per eccellenza e definizione. Quelle che lo sfoggiano con tanto orgoglio come rivendicazione identitaria te la sventolano sotto il naso, quella discriminazione sessista, colla pretese inverosimile di essere accettate in quanto tale: inferiore all'uomo. E perché mai io ti dovrei accettare se la pensi cosi?

In secondo luogo quel foulard altro non è che la bandiera dell'islam. E perché mai dovrei accettare io una simile ideologia ?

Tutto ciò per arrivare alla conclusione delphynina che ci vorrebbe "Un universalismo che anziché insegnare l'emancipazione di genere si mostri capace di "imparare ad imparare dal basso"ovvero dall'esperienza della subalternità negata.".

Ma quant'è bello e umanista! Solo che in concreto cosa significa? Che dobbiamo fare "accomodamenti ragionevoli", e cioè accettare tribunali islamici che applicano la sharia le quali sentenze emesse sono ratificate dai tribunali civile, come in Gran-Bretagna o in Canada. Mas davvero vogliamo questo? Io no. Manco morta.

Significa nel quotidiano ritrovarsi con vere e proprie "enclave" musulmane sul territorio, i famosi "territori persi della repubblica" in Francia.

Quando si tratta di una musulmana come nel caso di Venaria, possono fare bella figura a poco conte, le sue colleghe. Certe in tal caso è molto facile :" ma guarda un pò come siamo brave e buone e accoglienti e tolleranti noi altre, mica come voi brutti cafoni razzisti". E il più buffo (per modo di dire) è il direttore del museo che sulle prime era un pò dubbioso, ma che dopo si è arreso

Floreal ha detto...

a tanta meravigliosa solidarietà. E ci credo! In fondo perché mai dovrebbe scoglionarsi a dire che mappero insomma non è tanto d'uopo che una donna si concia a quella maniera quando loro stesse rivendano alto e forte il diritto di dichiararsi inferiori all'uomo? Lasciamo le velarsi e le mucche saranno ben custodite.

Ma quando saranno dieci, a velarsi tutti santi giorni, e che non basterà più il solo velo, perché cosi funziona, in seguito vengono altre rivendicazioni musulmane da soddisfare, che cosa faranno? Il velo è solo il primo passo. Poi vengono le richieste di orari particolari per le preghiere, di luoghi idonei nelle imprese per le preghiere, per il ramadam, e cosi via di seguito.

Perché QUESTO succede. Succede che le colleghe si devono sorbire il lavoro che quella non può fare perché è stanca durante il ramadam. E perché mai io devo fare il lavoro di una tizia che vuole digiunare per lo stesso stipendio? Succedo che vieni processata per discriminazioni se chiedi a una velata di togliersi quel maledetto cencio nelle parti comuni del tuo agriturismo e che essa rifiuta e te gli dici di andare in un'altro albergo più "accomodante", sei multata e vai in fallimento ridotta sul lastrico. e perché mai il clienti che pagano per stare tranquilli dovrebbero sorbirsi la presenza di una velata in vacanza, che fa poi tante storie perché ci vuole un menu hallal? E perché mai dovresti scombinare il tuo menu se servi le specialità locale come la salumeria ?

E se sei coiffeuse e rifiuti una velata come impiegata uguale. Sei processata e non ti resta altro che da chiudere il tuo salone, mandando i tuoi impiegati a spasso come te. Ma chi avrebbe voglia di farsi acconciare da una che i suoi cappelli non le vuole fare vedere? Le clienti vanno altrove e te perdi la tua clientela, ti tocca chiudere lo stesso.

Ma dimmi un pò, credi che gliene frega qualcosa, alla velata, delle altre impiegate che è riuscita a mandare all'ufficio di collocamento? Perché mai dovremmo essere solidali di tizie alle quali bastava togliersi il foulard per essere assunte? che si discriminano loro stesse per prime? E che poi vengono a parlare di "islamofobia", di xenofobia e addirittura di razzismo?

E questo succede molto spesso e volentieri, solo un infima parte dei casi vengano mediatizzati.

Sarebbe lungo il discorso e non ho altrettanto fiato di te, né la tua propensione a dilungare per annegare il pesce.

Fatto sta che il tuo discorso consiste nel volere livellare dal basso tornando indietro sui diritti delle donne duramente conquistati.

Sappiamo (perché lo sappiamo) che secondo statistiche (britanniche giustappunto) ci vorrà di questo passo un secolo per arrivare alla parità dei stipendi a uguale lavoro con i maschi, che fin qui viene a stento ma viene.

Con queste femministe musulmane del cavolo, non è un secolo ma tre che ci vorranno. Perché questo è il tempo medi, nella migliore delle ipotesi, perché l'islam si secolarizzi cosi come si è secolarizzato, con le buone o con le cattive, il cattolicesimo, il cristianesimo. Sempre che l'islam sia secolarizzabile, ciò che non credo.

Le nostre figlie e nipote potranno sempre ringraziarvi per cosi tanta premura!

Floréal ha detto...

Ho dovuto spezzare in due il lungo post che ti ho mandato (e che certo non sei obbligata a pubblicare), e mi accorgo che manca un pezzo al'inzio ormai perso nel formattarlo. Ma poco importa, si capisce bene lo stesso, credo.

Comunque mi rivolgevo a te, Marginalia, che hai scelto di pubblicare l'articolo di questa filosofa e non so cos'altro, non a l'autrice, dato che sembri fare tue le sue tesi.