Il corpo delle donne non esiste è il titolo della recensione di Cristina Morini al volume di Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi, Lo schermo del potere (edito da Ombre Corte), di cui vi abbiamo parlato già in diverse circostanze negli ultimi mesi (1, 2, 3 ...). Buona lettura e riflessioni // " Gilles Deleuze in una delle lezioni tenute a Vincennes, nel 1975, si sofferma a parlare del rapporto tra viso e potere, ovvero del ruolo e della funzione del viso all’interno degli apparati di potere. Un rapporto che, dice Deleuze, può essere letteralmente redditizio e pagante cosicché si farà in modo che vi sia “una produzione di viso” [Gilles Deleuze à Vincennes, n. 10 (sub. Ita), qui]. I poteri, ognuno a proprio modo, necessitano di produrre del viso. Il viso è manifesto, ritratto del potere nelle sue varie espressioni, molteplici e dinamiche: il viso del capo, il viso della diva, il viso della madre, compiutamente “pezzi nell’apparato di potere politico”. Stato, media e pubblicità, famiglia: ciascuno di questi poteri ha bisogno di produrre immagini, “pura ridondanza formale del significante che non potrebbe neppure venire pensata senza una sostanza di espressione particolare per la quale bisogna trovare un nome: viseità” (Gilles Deleuze e Felix Guattari, Millepiani, Capitalismo e schizofrenia, a cura di Massimiliano Guareschi, Castelvecchi, Roma, 2003, pag. 189). Così, il libro di Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi, Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità (ombre corte, Verona, 2012, pp. 123, € 13) ci butta proprio in mezzo, et voilà!. Catapultate nel cuore di uno dei problemi più appariscenti, interessanti e complessi della contemporaneità: immagini di corpi e visi di donna occhieggiano da tutte le parti, dalle pagine delle riviste o affisse sulle metropolitane e sui muri della città. Immagini che si rincorrono e si confondono sullo schermo televisivo, con ritmo assillante, simulacro degli inventati corpi a cui si ispirano. Nudi graficamente vuoti, neutri, piatti, imprecisati, e che fungono da substrato per le più diverse determinazioni. Iscrizione, nella cultura, del “corpo in quanto tale”, con i suoi volumi, i suoi muscoli, le sue curve, le sue durezze e le sue morbidezze. Derealizzazione che tuttavia esiste, che crea e impone “realtà” e si fa strada e giganteggia attraverso la progressiva dissociazione della nostra vita precaria da ogni corporeità sociale collettiva. Penetra attraverso la solitudine e le molteplici patologie da prestazione o da depressione generate dal nostro lavoro-vita, disperatamente frammentato dai nostri contratti “atipici”, sganciato da ogni obiettivo di sovversione, di lotta comune. Più la lotta scompare, più l’immagine si mostra e si anima. Il segno conclamato della forza contemporanea del biopotere e delle sue bandiere. Produzione di femminilità seriale.La rappresentazione mediatica produce la donna in una ripetizione stereotipata: «I media hanno svolto un ruolo determinate in questo processo, con la produzione di un femminile reificato che si intreccia con la fabbricazione di una posizione spettatoriale chiamata a identificarsi con quell’immagine di sé attraverso ambivalenti processi di oggettivazione e soggettivazione in cui le donne possono proiettare il proprio desiderio» (pag. 25). Stiamo parlando, con un certo corretto distacco, di quel corpo che dovremmo essere noi, che ci raccontano essere noi, imprigionato nel ruolo classico di oggetto erotico, espressione tipica del sessismo della televisione italiana e dell’apparato mediatico. Visuale essenzialmente pornografico, incentrato su un femminile ipersessualizzato che corrisponde perfettamente al fatto che da sempre, storicamente, «la donna è una figura essenzialmente visiva (…) Cioè la donna, come merce e immagine riproducibile, sta al centro (…) dell’economia capitalistica» (pag. 25). E così, è proprio nel compiersi dell’era bioeconomica che ci siamo ritrovate martellate non solo dal dover essere perenne dell’impostura meritocratica dell’era precaria ma contemporaneamente anche dalla proiezione immaginifica di questo nostro dover essere. Staremo bene e saremo belle, calandoci nel personaggio di una mistress del desiderio altrui. Non saremo mai vecchie e perciò saremo anche felici, pulite dentro e belle fuori, espellendo ogni traccia eversiva, con un piccolo suono argentino. Fuori le devianze sessuali, pigrizia (anche intestinale), obesità e punti neri. Fuori le differenze, anche intra-genere, aderiremo sempre più a un’ideologia uniformante, totalitaria e totalizzante che ci vuole donne tutte intere e tutte insieme, intese come un solo corpo che si muove massiccio, un’enorme Cosa rocciosa, con gli stessi identici bisogni, gli stessi desideri, pensieri, dubbi, indeformabile anche perché prova i medesimi brividi, le medesime “indignazioni”. Così si posiziona perfettamente il femminile all’interno dell’economia dei consumi. E così viene messo al lavoro davvero tutto di noi, corpo reale e immaginario, forza vitale e bios, il respiro e il sangue dell’esistenza biologica insieme alla cura di sé che cerca di rispondere alla sua proiezione immaginifica (un dover essere che diventa un voler essere). Aderire perciò, a 360 gradi, alla logica richiesta dall’«economia mercantile e desiderante, con immagini di corpi seriali e serializzati, intercambiabili come quelli prodotti nelle fabbriche« (pag. 25).Effettivamente, tale omogeneità del pensare-agire del corpo-mente delle donne non viene postulata per la categoria degli uomini, almeno non con la medesima intensità e convinzione: la libertà dell'individuo in quanto uomo ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione teorica dello stato civile, della vita civile, ne costituisce uno dei principi a priori. Viceversa, quando si parla di donne, le operazioni come quella di Lorella Zanardo, con il suo documentario Il corpo delle donne o di movimenti come Se non ora quando rischiano di fabbricare per le cittadine di sesso femminile un reale altrettanto uniformante, artificiale e tipico, ossessivo, oltre che inevitabilmente “esclusivo” - bianco, eterosessuale, borghese, sobrio, integrato, addomesticato (pag. 28). È anche in questo modo che si estende la complicanza ingombrante e singolare dell’immagine e della sua materialità, che vive vita propria in quanto “processo di significazione”, che Gribaldo e Zapperi affrontano con grande acutezza. Sottolineano infatti come la questione della rappresentazione deformata delle donne dei programmi televisivi bastati sul voyeurismo e feticizzazione, non possa essere risolta inventando il gruppo contrapposto delle donne vere (le lavoratrici, le madri, le casalinghe) che si battono con campagne, movimenti e partiti contro la “mercificazione del corpo femminile”, a difesa della propria dignità. Non è questa, evidentemente, la lotta comune della quale sentiamo il bisogno nell’oggi. Essa è, semmai, un debole fraintendimento, uno spettro o un’illusione di lotta. Ancora una volta, un’immagine. È un diversivo che si ritrova anch’esso iscritto nel medesimo dispositivo reazionario del quale stiamo parlando, un’altra volta, da capo. Una lotta condizionata, preconfezionata, stucchevole, che non dà fastidio alle strutture profonde del potere poiché di fatto ricade nell’indicazione di un’altra immagine, opposta e «supposta salvifica che tuttavia imprigiona anche essa la donna in un empasse dal quale sembra non esserci possibilità di fuga» (pag. 29). Altrettanto artificiale e non scelta, neutra, estranea, completamente codificata e “segnata” nell’universo delle norme sociali e dei rapporti di potere: il fantasma delle donne reali che riesuma il fantasma delle madri della patria che rievoca il fantasma di una battaglia. Incoerente con le contraddizioni tangibili, che pretende di fondere le donne dentro un’altrettanto umiliante nozione di «autenticità e di unità» (pag. 29). Così si normalizza il femminismo facendone un’opzione fondamentalmente culturale, priva di asperità eversive, di ruvidità antagoniste. Ecco che allora le autrici ci suggeriscono di sottrarci a questa logica binaria e dunque di chiederci: «che cosa vogliono quelle immagini da me?» (pag. 29). Perché in effetti, contrapporre immagini positive e negative «impedisce di formulare il problema in termini politicamente rilevanti, sui modi in cui la “donna” è investita di significato all’interno di discorsi ideologici o di pratiche di dominio prodotte attraverso le immagini» (pag. 30). Il punto è insomma innanzitutto capire che si tratta sempre di un immaginario dove si proietta il desiderio dell’altro ovvero «ciò che immaginiamo di essere per uno sguardo esterno introiettato. Ed è proprio attraverso quello sguardo che i desideri e gli affetti si intrecciano con le norme sociali e i rapporti di potere, in modi che sono spesso conflittuali per il soggetto stesso» (pag. 29).
Il corpo e il viso delle donne come territorio di un regime significante, ovvero come riterritorializzazione interna di un sistema. Significante che è pura astrazione e che è puro principio e dunque in realtà non è né buono né cattivo, perché non è proprio nulla. Non esiste, o meglio, esiste la sua immagine che vive di vita propria e si autoalimenta e diventa tutto benché, a bene vedere, non sia proprio niente. Effetto Berlusconi.Per anni questo paese si è cimentato in una prova facile: combattere contro l’immagine del nemico attraverso l’immagine delle donne del nemico, quindi confermando l’idea della femmina-immagine-simbolo del sistema. Il ventennio di Arcore «è stato un laboratorio particolarmente efficace di produzione di immagini che si radicano in una concezione del rapporto tra i sessi come segno primitivo e originario dell’istanza del potere e dunque di ogni rapporto sociale» (pag. 36). Anche questo ci spiega qualcosa della virtualizzazione del conflitto. E, se vogliamo, dell’assenza di contenuti delle anemiche socialdemocrazie contemporanee, incapaci e balbuzienti di fronte al vero padrone finanziario, nel ruolo difettoso dell’opposizione parlamentare. Una specie di game del conflitto, ancora una volta immagine dello scontro, evocazione di una lotta svuotata, che vira sul precetto morale, dentro una presunta divisione valoriale “largamente condivisa” tra bene e male, tra salvezza e perdizione, tra decenza e oscenità. Uno scontro sulle “regole” che se ne frega delle guerre di classe, delle ingiustizie sociali, delle rivendicazioni di mobilità sociale che sottendono il farsi avanti di figure come quella della ragazza-immagine in un moltiplicarsi di organizzazioni sclerotizzate sulle sue caste, di destra e di sinistra. In questo orizzonte anche l’autocoscienza può trasformarsi in una pratica ombelicale. Ovviamente, la rappresentazione delle donne di Arcore, che dallo scoppio del caso verranno definite dalla stampa con un nome collettivo “le Olgettine”, deve essere in linea con il mestiere disgustoso che fanno dunque vanno sottolineati i borsoni, i jeans attillati e tagliati e i tacchi immensi. Viceversa le lacrime sul viso della escort pentita che si confessa in televisione, prostituta per realizzare un sogno del padre, sono la forma visibile di un intimo pudore. Ologrammi ostili per interposta persona, con diverse sfumature, più vicine se ravvedute, più lontane se convinte del proprio ruolo. Tutte identicamente incarnazione del ruolo della viseità che rassicura e conferma il potere e di conseguenza assicura anche il ruolo dei suoi avversari.
Ancora oggi, Nicole Minetti e “tutte le altre ritoccate di Arcore” sono l’esempio di questa operazione, descritte come una specie di circo le cui foto puoi guardare per derisione estrema del potente decaduto [qui]. Di fatto la descrizione di «labbra gonfie all’inverosimile, come dopo un cazzotto in piena faccia; zigomi puntuti tipo quadro del Picasso più cubista; decolleté iperprosperoso costretto in camicie monacali, magari sperando di passare per una timida educanda», ci introducono proprio nel contesto ricordato da Beatrice Preciado (Pornotopia. Playboy: architettura e sessualità, Fandango, Roma, 2011), citata nel testo di Gribaldo e Zapperi: «i circhi, i teatri popolari, freak show, music halls, cafè concerts e cabaret (…) esposizioni zoologiche di esseri umani da cui nascono le pratiche del french cancan, della danza esotica, del burlesque americano, della stravaganza, della lap dancing» (pag. 42). Nessuna di queste donne messe alla berlina, sia chiaro, si sottrae alla parte assegnata, ovvero a contribuire alla «costruzione per nulla originale del maschio italiano che acquista nuova legittimità in quanto veicola in mondo non problematico (..) la norma e legge naturale e di genere» (pag. 37). È lui, il maschio dominante, il maschi alfa, virile, che penetra, evocato dalle serate del Bunga Bunga. Ovviamente lo scambio sessuo-economico può avvenire purché ciascuno degli attori, per prime le ragazze, sostenga la propria funzione, complice.Ma lo zoo è comunque una «tecnologia della visione dove lo spazio dell’esposizione è uno spazio che rende impossibile l’incontro, che tiene gli altri al proprio posto». Così, mi pare, questa costruzione rende ancora una volta esplicita, essa funziona per definire precisamente lo stilema normante nel quale ci tengono immerse da ogni lato, nessuno escluso. Evidentemente la norma, al contempo legge naturale e di genere, è stata più che mai rilanciata dal personaggio Berlusconi che separa le sue notti dal discorso istituzionale sulla famiglia «come spazio della naturalità, normale addomesticamento dei sensi (…) dove lo svelamento di un retroscena osceno è paradossalmente funzionale a una sessualità iperconformista. Si tratta di una sessualità ricollocata nella sfera del potere, affermata come antidoto contro ciò che le sfugge: la libertà sessuale delle donne, una sessualità differente (gay, lesbica, queer), una parentela esterna alla famiglia eterosessuale» (pag. 40). Così, guardare le foto, le immagini, l’esempio “evidente” della consigliere Nicole Minetti suggerito dal Fatto Quotidiano cioè dall’organo-manifesto dell’antiberlusconismo («la consigliera regionale della Lombardia ha subito una metamorfosi fisica che è sotto gli occhi di tutti, con risultati tutt’altro che lusinghieri»), ci mantiene esattamente nello stesso schema. Evidente, visibile, osservabile: il viso di Minetti è deforme, è immediatamente esibizionista e alieno, rimanda al capo, all’uomo da disconoscere, dove «la visione è un dispositivo centrale che autentica e convalida le modalità di rappresentazione e le ipotesi teoriche» (pag. 41). All’interno di questo paradigma visualista è ovvio anche che ogni tipo di alterità venga posta come “esotica”, con la conseguente tentazione di catalogare il mondo sulla base di caratteristiche etnico-raziali e dove la differenza è concepita solo come etnicizzazione, con la separazione «tra il selvaggio da una parte e il pubblico civilizzato dall’altra» (pag. 42). Dunque, evidentemente la riflessione sul genere «non può essere sganciata da una critica di produzione di differenza e da una problematicizzazione di questo concetto» (pag. 43). Nel contesto razzista, misogino e omofobo italiano si ripropone sempre questa logica binaria: erotizzazione della differenza oppure la sua inclusione in termini di minoranza, dove la sfera del rappresentabile coincide con l’ammissibile. Cioè, «le differenze sono accettate nella misura in cui sono ricondotte all’alveo a loro assegnato da precisi rapporti di potere» (pag. 43). Affrontare il tema dell’immagine del genere femminile nel presente, tra tv, politica, media e celebrity rappresenta dunque l’occasione per affrontare la questione delle differenze «in un sistema che permette la loro rappresentazione solo nella misura in cui queste sono addomesticate, collezionate e rese produttive» (pag. 44). Ma detto questo, forse andrà aggiunto e sottolineato come il meccanismo si sia talmente portato in avanti da indurre, recentemente, alcuni uomini politici a indossare maschere da maiali durante una festa in Campidoglio. A dire ancora di più della mancanza di presa sul serio del mandato simbolico nel clima post-ideologico dell’epoca berlusconiana, incarnata dalle televisioni commerciali: «Fascismo autoironico, innocua barzelletta, dove nulla può venire riconosciuto e dunque disconosciuto» (pag. 48). Così abbiamo subìto allegramente anche la nostra fase-pop della politica, tra storielle e maiali, elemento carnevalesco esasperato e parossismo grottesco che ha segnato un’epoca. Poi è arrivato Mario Monti a personificare lo spirito dolente, spietato e punitivo, dell’etica del capitalismo di Weber e a rimettere a posto le cose.La merce umana. Ci confrontiamo continuamente con i più svariati tentativi di traduzione della vita in una misura per la sua scambiabilità. Abbiamo più volte citato facebook e i social network come il terreno dove diviene evidente la trasformazione della relazione in commodities (merce fisica) con tutte le ansie psicotiche che questa trasformazione comporta e dove il merchandising di noi stessi passa spesse volte anche e proprio dall’immagine. Nel momento stesso in cui a un’immagine – entità intangibile – viene accordato e corrisposto un valore economico reale (per esempio, per una campagna di advertising su fb un “mi piace” viene valutato un euro circa) essa viene a essere equiparato a una caratteristica fisica del prodotto, a una sostanza tangibile. Ed è così che l’immagine acquista autonomia, mercatizzandosi, con ciò diventando funzionale al potere e violando il principio di realtà, come ricorda Jean Baudrillard (Il sistema degli oggetti, Bompiani, 2003). L’accesso a questo immaginario è interessante per cogliere gli aspetti e i significati di cui l’essere umano tende a vestire il proprio sé di questi tempi, modelli di simulazione a cui cerca di fornire il calore del reale, reinventando il reale come finzione, allucinandolo, derealizzandolo o forse iperrealizzandolo.
In questo quadro, è ovvio che possiamo sostenere che l’immagine del corpo delle donne è immagine biopolitica per eccellenza, oggetto d’investimento di consumo e pubblicità, il supporto visivo primario del desiderio mercantile. L’ambito pubblico, il lavoro produttivo, nel biocapitalismo cognitivo valorizza il "femminile" - a patto che questo non sia d'intralcio alla logica del profitto. Tutto ciò che rallenta, ostacola l'ottimizzazione dei tempi e dei costi, tutto ciò che non permette il massimo profitto nel minor tempo possibile, viene negato. Quindi, per cogliere a fondo questo complessivo impero della merce, ovvero la tensione e insostenibilità sempre più drammatica delle vite attuali, è necessario partire proprio dall’esperienza dell’uso dei corpi femminili e dalla crescente difficoltà di rappresentare, nello spazio pubblico, i conflitti di sesso, classe e senso del produrre e riprodurre, che segnano storicamente le vite tutti. Questo tema viene trattato nel capitolo terzo del libro, “Linee di frattura” perché «le trasformazioni delle condizioni lavorative degli ultimi anni intervengono direttamente nelle aspirazioni e nei comportamenti delle giovani donne» (pag. 51). E questi comportamenti sono oggetto della medesima attenzione ideologica, anche qui attraverso una serie di immagini o di stereotipi o di retoriche della normalità femminile che si traducono in un lavoro onesto contrapposto al mestiere della velina, oppure richiami a «metafore materne e nazionali». Ancora una volta, la centralità dell’immagine delle “donne italiane” diviene l’obiettivo essenziale della rappresentanza politica, categoria universale e immutabile (pag. 55) ma senza che si possa approfittare del contesto per fare una serie riflessione su come “la categoria delle donne venga prodotta e frenata proprio dalle stesse strutture di potere mediante le quali dovrebbe ottenere l’emancipazione” (J. Butler, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, Firenze, 2004, pag. 5). Si potrebbe a questo punto ricordare il proverbio popolare citato da Dolores Ibarruri (Memorie di una rivoluzionaria, Editori Riuniti, Roma, 1963): «Madre che cos’è sposarsi? Filare, partorire e piangere». Un modo di dire di un destino, di un sistema di cattura, di una prigionia, che veniva tramandato tra donne, di generazione in generazione. Oggi noi viviamo i tempi dei “Master in Gender Equality and Diversity Management”. Noi viviamo nel mondo dei convegni su “Donne, banche e sviluppo”: «Il mondo cambia? Le donne sono pronte». La costruzione mediatica spinge a puntare sul fattore D. Così, se in passato le donne hanno sostenuto la famiglia e il privato, hanno fatto figli, filato e pianto, oggi il compito loro assegnato è di reggere l’impresa, la banca, lo sviluppo economico del proprio Paese. E i contorni di questa costruzione sono esattamente quelli di cui parlavamo prima: «Alla finzione di un femminile erotizzato e asservito si oppone ora la realtà di donne serie, professioniste e madri di famiglia». Nel pieno del dispiegarsi dell’era precaria e della crisi che prova a lasciarci disadorne di parole e di conflitti, non va negato invece che l’esperienza del lavoro ha intaccato nella carne intere generazioni di donne, e di uomini. E che lo spendersi dei corpi dentro la macelleria della visione sin qui descritta si spiega anche così, con la cattura dell’economico e il prevalere del lavoro su tutto e a cui tutto deve soggiacere. Ricordarlo non è vittimismo, tutt’altro. Facciamo di questo dato la leva da cui partire oggi, una consapevolezza per ribadire la forza della nostra instancabile ricerca di un modo di stare, diversamente, nel mondo. Per una certa parte del femminismo italiano non solo il tema della flessibilità del lavoro è stato lungamente interpretato come un’opportunità, ma sopra ogni cosa si è ritenuto che il lavoro sarebbe stato orientato, reso più gradevole e armonico dalle donne, evitando «forme di alienazione tra lavoro e vita». Lo ricordo perché è importante osservare, viceversa, la progressiva miseria materiale e di senso (la completa alienazione) a cui ci sta costringendo il lavoro precario contemporaneo. E dunque perché ritengo che donne debbano essere le più interessate a sottoporre a un cosciente esame critico radicale la funzione dell’ideologia del lavoro, alla cui costruzione non hanno partecipato, la quale risulta essere uno dei più potenti dispositivi disciplinari e di comando sugli esseri umani tutti. Contro il pensiero unico.E così più che mai, ieri ma anche adesso, “che cosa è una donna”? Questa domanda che risuona tra le pagine di questo libro e che alla fine di questo lungo percorso ci costringe a concentrarci sul «processo di normalizzazione del dissenso e di appiattimento delle differenze» (pag. 95) ovvero a confrontarci con il tema della colonizzazione del nostro desiderio, oltre che della nostra immagine, o meglio a partire dall’occupazione della nostra immagine. Ieri come oggi, nel privato come nel pubblico. Da questo punto di vista è necessario affrontare la problematizzazione della nozione di donna. Dal neo-femminismo noi possiamo trarre la critica a un soggetto unitario e dunque la forza di contrastare le immagini della nostra oppressione. Immagini che sono espressione di ruoli, di incarichi e di compiti che snaturano i nostri discorsi e che rendono impossibili i processi di soggettivazione. E dunque la prostituta e la precaria, la migrante e la trans, la lesbica, la disoccupata, tutte le figure periferiche, pescate dai bassifondi della vittimizzazione femminile, quelle segnalate da Beatriz Preciado nel suo Texto Junke del 2008, secondo le autrici possono, inaspettatamente, mettere più fortemente a critica le tentazioni normative interne al femminismo stesso: donne senza successo, donne tutte diverse che rifiutano un nome e un ruolo, figure dei margini che non soggiacciano agli immaginari imposti, figure che rompono con l’ordine del discorso e che di conseguenza affrontano la necessità di riarticolarlo: il cambiamento può partire proprio dai soggetti che si trovano in una posizione di rifiuto, da una marginalità consapevolmente agìta? Figure impermalenti, che non hanno e neppure cercano l’impossibile stabilizzazione: se l’intera società sembra destinata a fallire, ebbene proprio queste figure sembrano le più attrezzate a reggere l’urto e a superare gli ostacoli. In questa situazione di frammentazione e rifrazione del soggetto e della sua immagine, nonché di spogliazione dell’Io e virtualizzazione delle lotte che cosa fare? Qual è il progetto? Qual è il noi che abbiamo bisogno di costruire e come si fa? Quali i processi di soggettivazione che la pratica femminista può suggerire? Quali le rotture da operare? Sono perplessa, sono sincera, rispetto alla creazione di grandi cartelli e/o fantomatiche alleanze trasversali tra gruppi completamente diversi che danno l’idea, anche qui, di un pensiero unico omnicomprensivo dal quale non si può uscire perché dentro c’è già tutto. In realtà, questi esperimenti mettono solo in fila una serie di singole, piccole e grandi, fragilità e cercano di valorizzare le gerarchie (Vincenza Perilli, La différence sexuelle et les autres, in L’homme et la société, vol. 4, 158, 2005). E concordo perciò con la sintesi proposta da Gribaldo e Zapperi: non si supera la difficoltà del pensiero e della prassi con l’appiattimento «su figure autorevoli e autoritarie, mentre la radicalità di altri femminismi appare stigmatizzata, in forma di caricatura, Queste nuove costellazioni femministe in ci si confrontano posizioni queer, antirazziste e antifasciste esprimono conflittualità e desideri che non sono riconducibili alla retorica di un femminile unificato» (pag. 70). Usare, invece, per orientarci, “la mappa di un femminismo in divenire”, dicono ancora. Il cuore del quale, continuo a pensare, sia la ricerca di autonomia e di spazi per l’autodeterminazione. Autonomia di pensiero, di gestione, di stili, di gusti, di scelte, di governo del tempo. Occupy yourself, fuori dal lavoro, fuori dal capitale. Un femminismo 2.0, mobile e nomade, da riarticolare contro ogni cappa, cosiddetta reale o immaginaria, per costruire contro-discorso. Dunque, in sostanza, fare appello al divenire minore di Deleuze e Guattari: i soggetti che si trovano ai margini si appropriano degli strumenti e delle strategie visive elaborate dalla cultura dominante e le ribaltano. Da un punto di vista minoritario si può immaginare e inventare meglio le forme di resistenza possibili contro la captazione di corpi, immagini, vita. Il punto di vista minoritario rappresenta una posizione chiave per poter rompere il meccanismo con una certa leggerezza, senza rimpianti. Je ne regrette rien. La riduzione progressiva di margini di autonomia e creatività a cui ci sottopone il sistema bioeconomico nella sua folle ingordigia suicida in un crescendo rintronante, la generalizzazione esplicita della precarietà, l’assenza di passione – sentimento che per anni ha corrotto le capacità di reazione, potenziando il meccanismo di dipendenza connesso allo sfruttamento - per quello che siamo costrette a fare in cambio di un salario che non ci ripaga dello sforzo: ecco ciò che ci spingerà a prendere la rincorsa e a fare, finalmente, un grande salto. A questo punto si aprirà il nuovo capitolo della nostra storia.
«Nella tensione tra soggettività e immaginario è possibile infatti inventare delle forme discordanti e critiche di identificazione che resistano alla normalizzazione. Un programma di questo tipo dovrebbe partire dal presupposto che i processi che riguardano il genere sono complessi e quindi per natura conflittuali, dolorosi, ma potenzialmente trasformativi» (pag. 110) (Cristina Morini, Il corpo delle donne non esiste, Carmilla on line, dicembre 2012)"//
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