Non ci meravigliamo (è una delle lezioni di Benjamin) che il Serraino Vulpitta - qualcuno lo ha definito la madre di tutti i Cie - esista ancora, nonostante la terribile strage del dicembre 1999, quando i Cie si chiamavano ancora Cpt. Altri ne hanno costruito dopo e altri ne costruiranno. No, non ci meravigliamo, però c'è tanta rabbia e ci ostiniamo a ricordare
sabato 29 dicembre 2012
venerdì 21 dicembre 2012
Marginalia Off
Per un po' saremo off line, non allarmatevi come altre volte, tutto più o meno bene, solo un po' tanta stanchezza, la voglia di chiudere un po' la baracca e fare un piccolo viaggio durante il quale avrò credo poche possibilità (ma anche voglia) di connettermi. Profezia Maya permettendo ci risentiamo - credo - nel 2013
La Cosa Queer
Questa sera all'interno del ciclo Queer it yourself organizzato da Kespazio! Per una ricerca queer e postcoloniale presso il Caffé Letterario
della Casa Internazionale delle Donne (via della Lungara, 19 - Roma), incontro con Elisa A.G. Arfini e Cristian Lo Iacono a partire dal volume Canone inverso. Antologia di teoria queer (a cura di Elisa A.G. Arfini e Cristian Lo Iacono, ETS, 2012). Una di quelle serate alle quali mi dispiace proprio non poterci essere ...
giovedì 20 dicembre 2012
Il concetto di intersezionalità / Femminismo, addio ai comparti stagni
Nell'attesa di aggiornarvi sulle nuove date del tour di Femministe a parole, segnaliamo intanto un articolo di Stefania Prandi, pubblicato qualche giorno fa su Il Fatto Quotidiano. A partire dal concetto di intersezionalità e da una panoramica sulla sua recente diffusione in Italia, l'articolo si sofferma anche su Femminismo a parole intervistando Sabrina Marchetti co-curatrice del volume. Potete leggere l'articolo nella rassegna stampa della casa editrice: Femminismo, addio ai comparti stagni
Zapruder / Una rivista sotto l'albero
Come già con Autoportrait di Carla Lonzi - ma potrei estendere a tante delle cose segnalate qui negli ultimi mesi, ad esempio 1, 2, 3 ... -, rilancio una sorta di rubrica dei buoni consigli per utili regali di Natale/fine anno (sempre che ovviamente siate di quelle/i che non riescono per un motivo o per l'altro a rinunciarci e che abbiate ancora qualche euro superstite per farlo ...). Un'idea carina, diversa dal solito ed anche economica potrebbe essere quella di regalare un abbonamento a Zapruder, la rivista di storia della conflittualità sociale edita dall'associazione Storie in movimento. Su richiesta è possibile anche allegare, alla prima copia spedita, un biglietto d'auguri fornito da chi regala. Oppure potete farvi un auto-regalo diventando socia/o di Sim, contribuendo in questo modo a sostenere un progetto interamente autofinanziato dal quale coloro che ci lavorano non traggono alcun profitto se non uno spazio di espressione autonoma. Per ulteriori info potete visitare il sito di Sim /Zapruder o scrivere a info at storieinmovimento.org (dove "at" sta ovviamente per "@", che dovete sostituire nell'indirizzo quando inviate. Usiamo la formula con "at" quando pubblichiamo un indirizzo mail qui nel blog, onde rendere la vita più difficile a chi invia spam in automatico. Ci scusiamo con chi ritiene questa spiegazione superflua ma ci è capitato spesso di ricevere mail da parte di "utenti" che lamentavano che indirizzi mail segnalati in Marginalia non funzionavano ... )
mercoledì 19 dicembre 2012
Colonialismo / Guerra, deportazione e campi durante l’impero fascista in Etiopia
Stavo cercando le corna e la coda, ma non le avevano, è il titolo del documentario di Roman Herzog prodotto da Audiodoc all'interno di un più ampio progetto di ricerca, I campi fascisti dalle guerre in Africa alla Repubblica di Salò, avviato nel novembre 2011 e che intende realizzare un centro di documentazione con la mappatura completa delle centinaia di diversi campi e luoghi di internamento fascisti attraverso la raccolta delle testimonianze di superstiti ex internati, di documenti storici e di fotografie. In questo contesto Stavo cercando le corna e la coda, ma non le avevano è la prima ricostruzione storica dei crimini commessi da civili, militari e squadristi italiani in Etiopia durante il fascismo in formato di documentario. Registrato in Etiopia, Germania e Italia, il documentario ricostruisce con testimonianze orali e documenti la storia della guerra e dell'occupazione italiana dell' Etiopia ed è diviso in tre parti: la prima affronta il tema della guerra e dei crimini commessi, la seconda l'internamento degli etiopi in Africa Orientale e la terza la deportazione degli intellettuali etiopi in Italia e gli avvenimenti del dopoguerra. A parlare sono soprattutto gli ex-deportati etiopi Yeweinshet Beshah-Woured e Imru Zelleke, e storici da cinque diversi paesi, fra di loro Angelo Del Boca, Aram Mattioli, Richard Pankhurst e Wolfgang Schieder. Ne esce un discorso corale e drammatico, fedele ai fatti storici indagati, asciutto nella narrazione, di 210 minuti. Con l'attacco all'Etiopia, il 3 ottobre 1935, il regime fascista italiano diede inizio alla prima guerra fascista d'aggressione da parte di un paese europeo. Dopo sette mesi di ostilità e la proclamazione dell'Impero, ebbero inizio cinque anni di una sistematica politica di terrore e di pulizia etnica, nel tentativo di creare nel paese occupato uno spazio vitale per gli italiani. Il bilancio dell'occupazione è pesantissimo, con un numero complessivo di oltre 400.000 vittime. Nessuno dei 911 italiani accusati di crimini contro l'umanità ha mai risposto davanti a un tribunale
Donne in movimento / Il femminismo a Genova negli anni 70
Oramai quasi un anno fa avevo segnalato il video-documentario Donne in movimento. Il femminismo degli anni 70 a Genova, girato da Gianfranco Pancrazio e sceneggiato a partire dalle ricerche storiche di Anna Frisone. Solo qualche settimana dopo la mia segnalazione avevo ricevuto copia del video da Paola De Ferrari di Archivagando (grazie ancora!) e mi ero dunque ripromessa di tornare a parlarne, dopo averlo visto. Lo faccio solo ora, dopo mesi (non tento giustificazioni, posso solo dire che il tempo per me passa sempre troppo velocemente per riuscire a farci stare tutto quello che vorrei ...) e lo faccio con qualche riflessione sparsa e un (grande) punto interrogativo finale. Sicuramente di questo video - costruito alternando materiali d'epoca con interviste ad alcune delle femministe attive nel movimento genovese degli anni 70 -, c'era bisogno, in un contesto come quello italiano dove il femminismo di quegli anni è ancora "un tema marginale della ricerca storica, il luogo di un vuoto storiografico", come ricordavano qualche anno fa Teresa Bertilotti e Anna Scattigno nel volume Il femminismo degli anni 70. Dunque Donne in movimento è un documento prezioso, poiché racconta qualcosa di quegli anni attraverso la viva voce di alcune delle sue protagoniste che, come si legge nella quarta di copertina del dvd, "raccontano, in testimonianze individuali e di gruppo, idee, scoperte, conflitti, conquiste, discontinuità e legami con il passato e con il presente". Certo una storia parziale, che non può essere (e non mira ad essere) rappresentativa di tutte le espressioni (e passioni) femministe che si sono espresse a Genova in quegli anni. Ma piuttosto l'aspetto che mi pone qualche problema (o dove mi sembra di intravedere un grosso, e pericoloso, limite) è laddove si tenta di mettere in luce quelle "discontinuità e legami con il passato e con il presente", evocate più in alto. Tentativo a mio avviso non riuscito. Ad esempio la scelta di inserire nel finale del documentario alcune immagini della manifestazione del 13 febbraio 2011 promossa dal comitato Se non ora quando - come a suggerire una "continuità" ideale - mi sembra (quanto meno) una forzatura. Anche ignorando il fatto che la manifestazione del 13 febbraio 2011 è stata variamente (e decisamente) contestata - personalmente ho già espresso all'epoca, come tante altre, la mia lontananza da un appello che invitava le "donne italiane" a mobilitarsi in nome della loro "dignità", della "decenza", della "religione" e della "nazione" - chiudere un video sul femminismo degli anni 70 con immagini della manifestazione di Snoq, suggerisce implicitamente che "nel mezzo" non c'è stato nulla, facendo tabula rasa di esperienze importanti della pratica femminista italiana degli ultimi anni, come la grande manifestazione del novembre 2007, che ha posto nodi centrali. Perché dunque questo salto a piè pari?
lunedì 17 dicembre 2012
Carla Lonzi / Autoportrait
Di imminente uscita per JRP / Ringier, la traduzione francese di Autoritratto di Carla Lonzi (1969), con un'introduzione di Giovanna Zapperi di cui potete leggere un estratto qui: Entre critique d'art et féminisme radical. Se siete di quelle/i che non riescono a rinunciare ai regali natalizi questa può essere un'idea ...
Frequenze di genere / Se vi dico femminismo
Ho conosciuto da poco alcune delle wonder-donne che animano Frequenze di genere, una trasmissione radio che va in onda tutti i sabato dalle 13 alle 14 su Radio Città Fujiko e dove, tra l'altro, in una delle puntate di fine gennaio 2013 sarà trasmessa un'intervista/chiacchierata su Femministe a parole (grazie!) Nell'attesa vi segnalo la rubrica Se vi dico femminismo, che riporta le risposte di ascoltatrici/tori alla domanda: “Se vi dico femminismo, cosa vi viene in mente?”. Da non perdere ...
sabato 15 dicembre 2012
Il corpo delle donne non esiste
Il corpo delle donne non esiste è il titolo della recensione di Cristina Morini al volume di Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi, Lo schermo del potere (edito da Ombre Corte), di cui vi abbiamo parlato già in diverse circostanze negli ultimi mesi (1, 2, 3 ...). Buona lettura e riflessioni // " Gilles Deleuze in una delle lezioni tenute a Vincennes, nel 1975, si sofferma a parlare del rapporto tra viso e potere, ovvero del ruolo e della funzione del viso all’interno degli apparati di potere. Un rapporto che, dice Deleuze, può essere letteralmente redditizio e pagante cosicché si farà in modo che vi sia “una produzione di viso” [Gilles Deleuze à Vincennes, n. 10 (sub. Ita), qui]. I poteri, ognuno a proprio modo, necessitano di produrre del viso. Il viso è manifesto, ritratto del potere nelle sue varie espressioni, molteplici e dinamiche: il viso del capo, il viso della diva, il viso della madre, compiutamente “pezzi nell’apparato di potere politico”. Stato, media e pubblicità, famiglia: ciascuno di questi poteri ha bisogno di produrre immagini, “pura ridondanza formale del significante che non potrebbe neppure venire pensata senza una sostanza di espressione particolare per la quale bisogna trovare un nome: viseità” (Gilles Deleuze e Felix Guattari, Millepiani, Capitalismo e schizofrenia, a cura di Massimiliano Guareschi, Castelvecchi, Roma, 2003, pag. 189). Così, il libro di Alessandra Gribaldo e Giovanna Zapperi, Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità (ombre corte, Verona, 2012, pp. 123, € 13) ci butta proprio in mezzo, et voilà!. Catapultate nel cuore di uno dei problemi più appariscenti, interessanti e complessi della contemporaneità: immagini di corpi e visi di donna occhieggiano da tutte le parti, dalle pagine delle riviste o affisse sulle metropolitane e sui muri della città. Immagini che si rincorrono e si confondono sullo schermo televisivo, con ritmo assillante, simulacro degli inventati corpi a cui si ispirano. Nudi graficamente vuoti, neutri, piatti, imprecisati, e che fungono da substrato per le più diverse determinazioni. Iscrizione, nella cultura, del “corpo in quanto tale”, con i suoi volumi, i suoi muscoli, le sue curve, le sue durezze e le sue morbidezze. Derealizzazione che tuttavia esiste, che crea e impone “realtà” e si fa strada e giganteggia attraverso la progressiva dissociazione della nostra vita precaria da ogni corporeità sociale collettiva. Penetra attraverso la solitudine e le molteplici patologie da prestazione o da depressione generate dal nostro lavoro-vita, disperatamente frammentato dai nostri contratti “atipici”, sganciato da ogni obiettivo di sovversione, di lotta comune. Più la lotta scompare, più l’immagine si mostra e si anima. Il segno conclamato della forza contemporanea del biopotere e delle sue bandiere. Produzione di femminilità seriale.La rappresentazione mediatica produce la donna in una ripetizione stereotipata: «I media hanno svolto un ruolo determinate in questo processo, con la produzione di un femminile reificato che si intreccia con la fabbricazione di una posizione spettatoriale chiamata a identificarsi con quell’immagine di sé attraverso ambivalenti processi di oggettivazione e soggettivazione in cui le donne possono proiettare il proprio desiderio» (pag. 25). Stiamo parlando, con un certo corretto distacco, di quel corpo che dovremmo essere noi, che ci raccontano essere noi, imprigionato nel ruolo classico di oggetto erotico, espressione tipica del sessismo della televisione italiana e dell’apparato mediatico. Visuale essenzialmente pornografico, incentrato su un femminile ipersessualizzato che corrisponde perfettamente al fatto che da sempre, storicamente, «la donna è una figura essenzialmente visiva (…) Cioè la donna, come merce e immagine riproducibile, sta al centro (…) dell’economia capitalistica» (pag. 25). E così, è proprio nel compiersi dell’era bioeconomica che ci siamo ritrovate martellate non solo dal dover essere perenne dell’impostura meritocratica dell’era precaria ma contemporaneamente anche dalla proiezione immaginifica di questo nostro dover essere. Staremo bene e saremo belle, calandoci nel personaggio di una mistress del desiderio altrui. Non saremo mai vecchie e perciò saremo anche felici, pulite dentro e belle fuori, espellendo ogni traccia eversiva, con un piccolo suono argentino. Fuori le devianze sessuali, pigrizia (anche intestinale), obesità e punti neri. Fuori le differenze, anche intra-genere, aderiremo sempre più a un’ideologia uniformante, totalitaria e totalizzante che ci vuole donne tutte intere e tutte insieme, intese come un solo corpo che si muove massiccio, un’enorme Cosa rocciosa, con gli stessi identici bisogni, gli stessi desideri, pensieri, dubbi, indeformabile anche perché prova i medesimi brividi, le medesime “indignazioni”. Così si posiziona perfettamente il femminile all’interno dell’economia dei consumi. E così viene messo al lavoro davvero tutto di noi, corpo reale e immaginario, forza vitale e bios, il respiro e il sangue dell’esistenza biologica insieme alla cura di sé che cerca di rispondere alla sua proiezione immaginifica (un dover essere che diventa un voler essere). Aderire perciò, a 360 gradi, alla logica richiesta dall’«economia mercantile e desiderante, con immagini di corpi seriali e serializzati, intercambiabili come quelli prodotti nelle fabbriche« (pag. 25).Effettivamente, tale omogeneità del pensare-agire del corpo-mente delle donne non viene postulata per la categoria degli uomini, almeno non con la medesima intensità e convinzione: la libertà dell'individuo in quanto uomo ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione teorica dello stato civile, della vita civile, ne costituisce uno dei principi a priori. Viceversa, quando si parla di donne, le operazioni come quella di Lorella Zanardo, con il suo documentario Il corpo delle donne o di movimenti come Se non ora quando rischiano di fabbricare per le cittadine di sesso femminile un reale altrettanto uniformante, artificiale e tipico, ossessivo, oltre che inevitabilmente “esclusivo” - bianco, eterosessuale, borghese, sobrio, integrato, addomesticato (pag. 28). È anche in questo modo che si estende la complicanza ingombrante e singolare dell’immagine e della sua materialità, che vive vita propria in quanto “processo di significazione”, che Gribaldo e Zapperi affrontano con grande acutezza. Sottolineano infatti come la questione della rappresentazione deformata delle donne dei programmi televisivi bastati sul voyeurismo e feticizzazione, non possa essere risolta inventando il gruppo contrapposto delle donne vere (le lavoratrici, le madri, le casalinghe) che si battono con campagne, movimenti e partiti contro la “mercificazione del corpo femminile”, a difesa della propria dignità. Non è questa, evidentemente, la lotta comune della quale sentiamo il bisogno nell’oggi. Essa è, semmai, un debole fraintendimento, uno spettro o un’illusione di lotta. Ancora una volta, un’immagine. È un diversivo che si ritrova anch’esso iscritto nel medesimo dispositivo reazionario del quale stiamo parlando, un’altra volta, da capo. Una lotta condizionata, preconfezionata, stucchevole, che non dà fastidio alle strutture profonde del potere poiché di fatto ricade nell’indicazione di un’altra immagine, opposta e «supposta salvifica che tuttavia imprigiona anche essa la donna in un empasse dal quale sembra non esserci possibilità di fuga» (pag. 29). Altrettanto artificiale e non scelta, neutra, estranea, completamente codificata e “segnata” nell’universo delle norme sociali e dei rapporti di potere: il fantasma delle donne reali che riesuma il fantasma delle madri della patria che rievoca il fantasma di una battaglia. Incoerente con le contraddizioni tangibili, che pretende di fondere le donne dentro un’altrettanto umiliante nozione di «autenticità e di unità» (pag. 29). Così si normalizza il femminismo facendone un’opzione fondamentalmente culturale, priva di asperità eversive, di ruvidità antagoniste. Ecco che allora le autrici ci suggeriscono di sottrarci a questa logica binaria e dunque di chiederci: «che cosa vogliono quelle immagini da me?» (pag. 29). Perché in effetti, contrapporre immagini positive e negative «impedisce di formulare il problema in termini politicamente rilevanti, sui modi in cui la “donna” è investita di significato all’interno di discorsi ideologici o di pratiche di dominio prodotte attraverso le immagini» (pag. 30). Il punto è insomma innanzitutto capire che si tratta sempre di un immaginario dove si proietta il desiderio dell’altro ovvero «ciò che immaginiamo di essere per uno sguardo esterno introiettato. Ed è proprio attraverso quello sguardo che i desideri e gli affetti si intrecciano con le norme sociali e i rapporti di potere, in modi che sono spesso conflittuali per il soggetto stesso» (pag. 29).
Il corpo e il viso delle donne come territorio di un regime significante, ovvero come riterritorializzazione interna di un sistema. Significante che è pura astrazione e che è puro principio e dunque in realtà non è né buono né cattivo, perché non è proprio nulla. Non esiste, o meglio, esiste la sua immagine che vive di vita propria e si autoalimenta e diventa tutto benché, a bene vedere, non sia proprio niente. Effetto Berlusconi.Per anni questo paese si è cimentato in una prova facile: combattere contro l’immagine del nemico attraverso l’immagine delle donne del nemico, quindi confermando l’idea della femmina-immagine-simbolo del sistema. Il ventennio di Arcore «è stato un laboratorio particolarmente efficace di produzione di immagini che si radicano in una concezione del rapporto tra i sessi come segno primitivo e originario dell’istanza del potere e dunque di ogni rapporto sociale» (pag. 36). Anche questo ci spiega qualcosa della virtualizzazione del conflitto. E, se vogliamo, dell’assenza di contenuti delle anemiche socialdemocrazie contemporanee, incapaci e balbuzienti di fronte al vero padrone finanziario, nel ruolo difettoso dell’opposizione parlamentare. Una specie di game del conflitto, ancora una volta immagine dello scontro, evocazione di una lotta svuotata, che vira sul precetto morale, dentro una presunta divisione valoriale “largamente condivisa” tra bene e male, tra salvezza e perdizione, tra decenza e oscenità. Uno scontro sulle “regole” che se ne frega delle guerre di classe, delle ingiustizie sociali, delle rivendicazioni di mobilità sociale che sottendono il farsi avanti di figure come quella della ragazza-immagine in un moltiplicarsi di organizzazioni sclerotizzate sulle sue caste, di destra e di sinistra. In questo orizzonte anche l’autocoscienza può trasformarsi in una pratica ombelicale. Ovviamente, la rappresentazione delle donne di Arcore, che dallo scoppio del caso verranno definite dalla stampa con un nome collettivo “le Olgettine”, deve essere in linea con il mestiere disgustoso che fanno dunque vanno sottolineati i borsoni, i jeans attillati e tagliati e i tacchi immensi. Viceversa le lacrime sul viso della escort pentita che si confessa in televisione, prostituta per realizzare un sogno del padre, sono la forma visibile di un intimo pudore. Ologrammi ostili per interposta persona, con diverse sfumature, più vicine se ravvedute, più lontane se convinte del proprio ruolo. Tutte identicamente incarnazione del ruolo della viseità che rassicura e conferma il potere e di conseguenza assicura anche il ruolo dei suoi avversari.
Ancora oggi, Nicole Minetti e “tutte le altre ritoccate di Arcore” sono l’esempio di questa operazione, descritte come una specie di circo le cui foto puoi guardare per derisione estrema del potente decaduto [qui]. Di fatto la descrizione di «labbra gonfie all’inverosimile, come dopo un cazzotto in piena faccia; zigomi puntuti tipo quadro del Picasso più cubista; decolleté iperprosperoso costretto in camicie monacali, magari sperando di passare per una timida educanda», ci introducono proprio nel contesto ricordato da Beatrice Preciado (Pornotopia. Playboy: architettura e sessualità, Fandango, Roma, 2011), citata nel testo di Gribaldo e Zapperi: «i circhi, i teatri popolari, freak show, music halls, cafè concerts e cabaret (…) esposizioni zoologiche di esseri umani da cui nascono le pratiche del french cancan, della danza esotica, del burlesque americano, della stravaganza, della lap dancing» (pag. 42). Nessuna di queste donne messe alla berlina, sia chiaro, si sottrae alla parte assegnata, ovvero a contribuire alla «costruzione per nulla originale del maschio italiano che acquista nuova legittimità in quanto veicola in mondo non problematico (..) la norma e legge naturale e di genere» (pag. 37). È lui, il maschio dominante, il maschi alfa, virile, che penetra, evocato dalle serate del Bunga Bunga. Ovviamente lo scambio sessuo-economico può avvenire purché ciascuno degli attori, per prime le ragazze, sostenga la propria funzione, complice.Ma lo zoo è comunque una «tecnologia della visione dove lo spazio dell’esposizione è uno spazio che rende impossibile l’incontro, che tiene gli altri al proprio posto». Così, mi pare, questa costruzione rende ancora una volta esplicita, essa funziona per definire precisamente lo stilema normante nel quale ci tengono immerse da ogni lato, nessuno escluso. Evidentemente la norma, al contempo legge naturale e di genere, è stata più che mai rilanciata dal personaggio Berlusconi che separa le sue notti dal discorso istituzionale sulla famiglia «come spazio della naturalità, normale addomesticamento dei sensi (…) dove lo svelamento di un retroscena osceno è paradossalmente funzionale a una sessualità iperconformista. Si tratta di una sessualità ricollocata nella sfera del potere, affermata come antidoto contro ciò che le sfugge: la libertà sessuale delle donne, una sessualità differente (gay, lesbica, queer), una parentela esterna alla famiglia eterosessuale» (pag. 40). Così, guardare le foto, le immagini, l’esempio “evidente” della consigliere Nicole Minetti suggerito dal Fatto Quotidiano cioè dall’organo-manifesto dell’antiberlusconismo («la consigliera regionale della Lombardia ha subito una metamorfosi fisica che è sotto gli occhi di tutti, con risultati tutt’altro che lusinghieri»), ci mantiene esattamente nello stesso schema. Evidente, visibile, osservabile: il viso di Minetti è deforme, è immediatamente esibizionista e alieno, rimanda al capo, all’uomo da disconoscere, dove «la visione è un dispositivo centrale che autentica e convalida le modalità di rappresentazione e le ipotesi teoriche» (pag. 41). All’interno di questo paradigma visualista è ovvio anche che ogni tipo di alterità venga posta come “esotica”, con la conseguente tentazione di catalogare il mondo sulla base di caratteristiche etnico-raziali e dove la differenza è concepita solo come etnicizzazione, con la separazione «tra il selvaggio da una parte e il pubblico civilizzato dall’altra» (pag. 42). Dunque, evidentemente la riflessione sul genere «non può essere sganciata da una critica di produzione di differenza e da una problematicizzazione di questo concetto» (pag. 43). Nel contesto razzista, misogino e omofobo italiano si ripropone sempre questa logica binaria: erotizzazione della differenza oppure la sua inclusione in termini di minoranza, dove la sfera del rappresentabile coincide con l’ammissibile. Cioè, «le differenze sono accettate nella misura in cui sono ricondotte all’alveo a loro assegnato da precisi rapporti di potere» (pag. 43). Affrontare il tema dell’immagine del genere femminile nel presente, tra tv, politica, media e celebrity rappresenta dunque l’occasione per affrontare la questione delle differenze «in un sistema che permette la loro rappresentazione solo nella misura in cui queste sono addomesticate, collezionate e rese produttive» (pag. 44). Ma detto questo, forse andrà aggiunto e sottolineato come il meccanismo si sia talmente portato in avanti da indurre, recentemente, alcuni uomini politici a indossare maschere da maiali durante una festa in Campidoglio. A dire ancora di più della mancanza di presa sul serio del mandato simbolico nel clima post-ideologico dell’epoca berlusconiana, incarnata dalle televisioni commerciali: «Fascismo autoironico, innocua barzelletta, dove nulla può venire riconosciuto e dunque disconosciuto» (pag. 48). Così abbiamo subìto allegramente anche la nostra fase-pop della politica, tra storielle e maiali, elemento carnevalesco esasperato e parossismo grottesco che ha segnato un’epoca. Poi è arrivato Mario Monti a personificare lo spirito dolente, spietato e punitivo, dell’etica del capitalismo di Weber e a rimettere a posto le cose.La merce umana. Ci confrontiamo continuamente con i più svariati tentativi di traduzione della vita in una misura per la sua scambiabilità. Abbiamo più volte citato facebook e i social network come il terreno dove diviene evidente la trasformazione della relazione in commodities (merce fisica) con tutte le ansie psicotiche che questa trasformazione comporta e dove il merchandising di noi stessi passa spesse volte anche e proprio dall’immagine. Nel momento stesso in cui a un’immagine – entità intangibile – viene accordato e corrisposto un valore economico reale (per esempio, per una campagna di advertising su fb un “mi piace” viene valutato un euro circa) essa viene a essere equiparato a una caratteristica fisica del prodotto, a una sostanza tangibile. Ed è così che l’immagine acquista autonomia, mercatizzandosi, con ciò diventando funzionale al potere e violando il principio di realtà, come ricorda Jean Baudrillard (Il sistema degli oggetti, Bompiani, 2003). L’accesso a questo immaginario è interessante per cogliere gli aspetti e i significati di cui l’essere umano tende a vestire il proprio sé di questi tempi, modelli di simulazione a cui cerca di fornire il calore del reale, reinventando il reale come finzione, allucinandolo, derealizzandolo o forse iperrealizzandolo.
In questo quadro, è ovvio che possiamo sostenere che l’immagine del corpo delle donne è immagine biopolitica per eccellenza, oggetto d’investimento di consumo e pubblicità, il supporto visivo primario del desiderio mercantile. L’ambito pubblico, il lavoro produttivo, nel biocapitalismo cognitivo valorizza il "femminile" - a patto che questo non sia d'intralcio alla logica del profitto. Tutto ciò che rallenta, ostacola l'ottimizzazione dei tempi e dei costi, tutto ciò che non permette il massimo profitto nel minor tempo possibile, viene negato. Quindi, per cogliere a fondo questo complessivo impero della merce, ovvero la tensione e insostenibilità sempre più drammatica delle vite attuali, è necessario partire proprio dall’esperienza dell’uso dei corpi femminili e dalla crescente difficoltà di rappresentare, nello spazio pubblico, i conflitti di sesso, classe e senso del produrre e riprodurre, che segnano storicamente le vite tutti. Questo tema viene trattato nel capitolo terzo del libro, “Linee di frattura” perché «le trasformazioni delle condizioni lavorative degli ultimi anni intervengono direttamente nelle aspirazioni e nei comportamenti delle giovani donne» (pag. 51). E questi comportamenti sono oggetto della medesima attenzione ideologica, anche qui attraverso una serie di immagini o di stereotipi o di retoriche della normalità femminile che si traducono in un lavoro onesto contrapposto al mestiere della velina, oppure richiami a «metafore materne e nazionali». Ancora una volta, la centralità dell’immagine delle “donne italiane” diviene l’obiettivo essenziale della rappresentanza politica, categoria universale e immutabile (pag. 55) ma senza che si possa approfittare del contesto per fare una serie riflessione su come “la categoria delle donne venga prodotta e frenata proprio dalle stesse strutture di potere mediante le quali dovrebbe ottenere l’emancipazione” (J. Butler, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, Firenze, 2004, pag. 5). Si potrebbe a questo punto ricordare il proverbio popolare citato da Dolores Ibarruri (Memorie di una rivoluzionaria, Editori Riuniti, Roma, 1963): «Madre che cos’è sposarsi? Filare, partorire e piangere». Un modo di dire di un destino, di un sistema di cattura, di una prigionia, che veniva tramandato tra donne, di generazione in generazione. Oggi noi viviamo i tempi dei “Master in Gender Equality and Diversity Management”. Noi viviamo nel mondo dei convegni su “Donne, banche e sviluppo”: «Il mondo cambia? Le donne sono pronte». La costruzione mediatica spinge a puntare sul fattore D. Così, se in passato le donne hanno sostenuto la famiglia e il privato, hanno fatto figli, filato e pianto, oggi il compito loro assegnato è di reggere l’impresa, la banca, lo sviluppo economico del proprio Paese. E i contorni di questa costruzione sono esattamente quelli di cui parlavamo prima: «Alla finzione di un femminile erotizzato e asservito si oppone ora la realtà di donne serie, professioniste e madri di famiglia». Nel pieno del dispiegarsi dell’era precaria e della crisi che prova a lasciarci disadorne di parole e di conflitti, non va negato invece che l’esperienza del lavoro ha intaccato nella carne intere generazioni di donne, e di uomini. E che lo spendersi dei corpi dentro la macelleria della visione sin qui descritta si spiega anche così, con la cattura dell’economico e il prevalere del lavoro su tutto e a cui tutto deve soggiacere. Ricordarlo non è vittimismo, tutt’altro. Facciamo di questo dato la leva da cui partire oggi, una consapevolezza per ribadire la forza della nostra instancabile ricerca di un modo di stare, diversamente, nel mondo. Per una certa parte del femminismo italiano non solo il tema della flessibilità del lavoro è stato lungamente interpretato come un’opportunità, ma sopra ogni cosa si è ritenuto che il lavoro sarebbe stato orientato, reso più gradevole e armonico dalle donne, evitando «forme di alienazione tra lavoro e vita». Lo ricordo perché è importante osservare, viceversa, la progressiva miseria materiale e di senso (la completa alienazione) a cui ci sta costringendo il lavoro precario contemporaneo. E dunque perché ritengo che donne debbano essere le più interessate a sottoporre a un cosciente esame critico radicale la funzione dell’ideologia del lavoro, alla cui costruzione non hanno partecipato, la quale risulta essere uno dei più potenti dispositivi disciplinari e di comando sugli esseri umani tutti. Contro il pensiero unico.E così più che mai, ieri ma anche adesso, “che cosa è una donna”? Questa domanda che risuona tra le pagine di questo libro e che alla fine di questo lungo percorso ci costringe a concentrarci sul «processo di normalizzazione del dissenso e di appiattimento delle differenze» (pag. 95) ovvero a confrontarci con il tema della colonizzazione del nostro desiderio, oltre che della nostra immagine, o meglio a partire dall’occupazione della nostra immagine. Ieri come oggi, nel privato come nel pubblico. Da questo punto di vista è necessario affrontare la problematizzazione della nozione di donna. Dal neo-femminismo noi possiamo trarre la critica a un soggetto unitario e dunque la forza di contrastare le immagini della nostra oppressione. Immagini che sono espressione di ruoli, di incarichi e di compiti che snaturano i nostri discorsi e che rendono impossibili i processi di soggettivazione. E dunque la prostituta e la precaria, la migrante e la trans, la lesbica, la disoccupata, tutte le figure periferiche, pescate dai bassifondi della vittimizzazione femminile, quelle segnalate da Beatriz Preciado nel suo Texto Junke del 2008, secondo le autrici possono, inaspettatamente, mettere più fortemente a critica le tentazioni normative interne al femminismo stesso: donne senza successo, donne tutte diverse che rifiutano un nome e un ruolo, figure dei margini che non soggiacciano agli immaginari imposti, figure che rompono con l’ordine del discorso e che di conseguenza affrontano la necessità di riarticolarlo: il cambiamento può partire proprio dai soggetti che si trovano in una posizione di rifiuto, da una marginalità consapevolmente agìta? Figure impermalenti, che non hanno e neppure cercano l’impossibile stabilizzazione: se l’intera società sembra destinata a fallire, ebbene proprio queste figure sembrano le più attrezzate a reggere l’urto e a superare gli ostacoli. In questa situazione di frammentazione e rifrazione del soggetto e della sua immagine, nonché di spogliazione dell’Io e virtualizzazione delle lotte che cosa fare? Qual è il progetto? Qual è il noi che abbiamo bisogno di costruire e come si fa? Quali i processi di soggettivazione che la pratica femminista può suggerire? Quali le rotture da operare? Sono perplessa, sono sincera, rispetto alla creazione di grandi cartelli e/o fantomatiche alleanze trasversali tra gruppi completamente diversi che danno l’idea, anche qui, di un pensiero unico omnicomprensivo dal quale non si può uscire perché dentro c’è già tutto. In realtà, questi esperimenti mettono solo in fila una serie di singole, piccole e grandi, fragilità e cercano di valorizzare le gerarchie (Vincenza Perilli, La différence sexuelle et les autres, in L’homme et la société, vol. 4, 158, 2005). E concordo perciò con la sintesi proposta da Gribaldo e Zapperi: non si supera la difficoltà del pensiero e della prassi con l’appiattimento «su figure autorevoli e autoritarie, mentre la radicalità di altri femminismi appare stigmatizzata, in forma di caricatura, Queste nuove costellazioni femministe in ci si confrontano posizioni queer, antirazziste e antifasciste esprimono conflittualità e desideri che non sono riconducibili alla retorica di un femminile unificato» (pag. 70). Usare, invece, per orientarci, “la mappa di un femminismo in divenire”, dicono ancora. Il cuore del quale, continuo a pensare, sia la ricerca di autonomia e di spazi per l’autodeterminazione. Autonomia di pensiero, di gestione, di stili, di gusti, di scelte, di governo del tempo. Occupy yourself, fuori dal lavoro, fuori dal capitale. Un femminismo 2.0, mobile e nomade, da riarticolare contro ogni cappa, cosiddetta reale o immaginaria, per costruire contro-discorso. Dunque, in sostanza, fare appello al divenire minore di Deleuze e Guattari: i soggetti che si trovano ai margini si appropriano degli strumenti e delle strategie visive elaborate dalla cultura dominante e le ribaltano. Da un punto di vista minoritario si può immaginare e inventare meglio le forme di resistenza possibili contro la captazione di corpi, immagini, vita. Il punto di vista minoritario rappresenta una posizione chiave per poter rompere il meccanismo con una certa leggerezza, senza rimpianti. Je ne regrette rien. La riduzione progressiva di margini di autonomia e creatività a cui ci sottopone il sistema bioeconomico nella sua folle ingordigia suicida in un crescendo rintronante, la generalizzazione esplicita della precarietà, l’assenza di passione – sentimento che per anni ha corrotto le capacità di reazione, potenziando il meccanismo di dipendenza connesso allo sfruttamento - per quello che siamo costrette a fare in cambio di un salario che non ci ripaga dello sforzo: ecco ciò che ci spingerà a prendere la rincorsa e a fare, finalmente, un grande salto. A questo punto si aprirà il nuovo capitolo della nostra storia.
«Nella tensione tra soggettività e immaginario è possibile infatti inventare delle forme discordanti e critiche di identificazione che resistano alla normalizzazione. Un programma di questo tipo dovrebbe partire dal presupposto che i processi che riguardano il genere sono complessi e quindi per natura conflittuali, dolorosi, ma potenzialmente trasformativi» (pag. 110) (Cristina Morini, Il corpo delle donne non esiste, Carmilla on line, dicembre 2012)"//
giovedì 13 dicembre 2012
Per la figlia senza nome di Samb Modou
Nell'anniversario della strage di piazza Dalmazia a Firenze pubblichiamo una poesia, Per la figlia senza nome di Samb Modou, che ci è stata inviata da Pina Piccolo, che ringraziamo:
Per la figlia senza nome di Samb Modou // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA* // Puoi smettere di aspettarlo // tredicenne dagli occhi ridenti // e col vestitino buono color di lillà comprato // per la foto da mandare a papà // con i soldi della rimessa // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // Il padre che anelavi // di carne e ossa e respiro // per 13 anni trafelato // a correre con borsoni // nella palestra dello stato italiano // destra e sinistra ne hanno allenati // polpacci, bicipiti e polmoni // ma non torna più sulle sue gambe // Ora dopo tredici anni // ti rimandano “la salma” // non in barcone // ma con l’aereo pagato // da lacrime di coccodrillo // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // Te lo rispediscono dal pulpito dolente politici malfattori e conniventi // abituati a lanciare il sasso // nascondendo la mano inguantata // di odio e superiore ingordigia // mentre dalla bocca cascano // perle d’ipocrisia // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // E nel rimestare le sue carni nere // potremmo trovare il virus // della Sindrome Italiana che stavolta // si abbatte su padri scuri // recisi da mogli e figlie mai viste // in terre assolate // di deserti, foreste e bianche spiagge ridenti // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // Città questa della sua morte // di cupole superbe // di fasti, amori, pittori, letterati alteri // lanaioli e banchieri // Non sviene soavemente //come turista colto dalla sindrome // del romanziere francese // alla vista delle sue bellezze // Modou Samb, questo padre straniero e cortese // un attimo dietro il banco // stramazza sull’asfalto // accanto a Diop Mor, // anche lui abile mercante senegalese // Accanto agli altri tre // nell’altro mercato // non quello operaio, quello di spensierati turisti // Colpiti tutti dallo stesso proiettile // che cova in tanti italici animi // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // Partito dalla canna di un uomo // all’apparenza mite // (“aveva l’aria di un buono” dice uno dei sopravvissuti) // che scriveva adagiato //nel molle ventre del fascismo // sdoganato da un’artritica democrazia //rispettosa di case dedicate a cantori di distruzione // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // E’ la pallottola rivestita del piombo che cola // dalle penne, dagli schermi // dagli arrotini della parola // che a lettere di fuoco squadrano // “quel che siamo e quel che vogliamo” // Parole aguzze come proiettili // tredicenne studentessa // nutrita dai versi di giustizia e libertà // di Leopold Senghor // vostro primo presidente poeta // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // E forse pentita l’ombra di Oriana Fallaci // adesso ci accompagna // in questo mesto corteo //per le vie di Firenze // non per intervistare // i Grandi della Storia // ma per chiedere scusa a te // triste ragazzina dal vestito lillà // che non le rilascerai interviste // se non per dirle // che non potrai mai sederti // sulle ginocchia di tuo padre // bersaglio del suo scontro di civiltà // nutrito dal suo orgoglio e dalla sua rabbia // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // Se per le strade di Firenze oggi s’intona un canto // che sia un richiamo di amore e di giustizia // che costringa l’UMANO a tornare nel suo alveolo // e che come tortora riprenda a tubare // silenziando lo stridio di drone e di Magnum. // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // (Pina Piccolo, 18 dicembre 2011) // *Canto funebre intonato per l’intera durata della manifestazione dallo spezzone dei senegalesi romani della confraternita islamica di Mourides dell’Africa occidentale che chiudevano il corteo per onorare Modou e Mor il 18 decembre a Firenze. Le parole significano,"Grazie guida di Touba" che è la capitale religiosa del mouridismo
Per la figlia senza nome di Samb Modou // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA* // Puoi smettere di aspettarlo // tredicenne dagli occhi ridenti // e col vestitino buono color di lillà comprato // per la foto da mandare a papà // con i soldi della rimessa // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // Il padre che anelavi // di carne e ossa e respiro // per 13 anni trafelato // a correre con borsoni // nella palestra dello stato italiano // destra e sinistra ne hanno allenati // polpacci, bicipiti e polmoni // ma non torna più sulle sue gambe // Ora dopo tredici anni // ti rimandano “la salma” // non in barcone // ma con l’aereo pagato // da lacrime di coccodrillo // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // Te lo rispediscono dal pulpito dolente politici malfattori e conniventi // abituati a lanciare il sasso // nascondendo la mano inguantata // di odio e superiore ingordigia // mentre dalla bocca cascano // perle d’ipocrisia // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // E nel rimestare le sue carni nere // potremmo trovare il virus // della Sindrome Italiana che stavolta // si abbatte su padri scuri // recisi da mogli e figlie mai viste // in terre assolate // di deserti, foreste e bianche spiagge ridenti // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // Città questa della sua morte // di cupole superbe // di fasti, amori, pittori, letterati alteri // lanaioli e banchieri // Non sviene soavemente //come turista colto dalla sindrome // del romanziere francese // alla vista delle sue bellezze // Modou Samb, questo padre straniero e cortese // un attimo dietro il banco // stramazza sull’asfalto // accanto a Diop Mor, // anche lui abile mercante senegalese // Accanto agli altri tre // nell’altro mercato // non quello operaio, quello di spensierati turisti // Colpiti tutti dallo stesso proiettile // che cova in tanti italici animi // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // Partito dalla canna di un uomo // all’apparenza mite // (“aveva l’aria di un buono” dice uno dei sopravvissuti) // che scriveva adagiato //nel molle ventre del fascismo // sdoganato da un’artritica democrazia //rispettosa di case dedicate a cantori di distruzione // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // E’ la pallottola rivestita del piombo che cola // dalle penne, dagli schermi // dagli arrotini della parola // che a lettere di fuoco squadrano // “quel che siamo e quel che vogliamo” // Parole aguzze come proiettili // tredicenne studentessa // nutrita dai versi di giustizia e libertà // di Leopold Senghor // vostro primo presidente poeta // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // E forse pentita l’ombra di Oriana Fallaci // adesso ci accompagna // in questo mesto corteo //per le vie di Firenze // non per intervistare // i Grandi della Storia // ma per chiedere scusa a te // triste ragazzina dal vestito lillà // che non le rilascerai interviste // se non per dirle // che non potrai mai sederti // sulle ginocchia di tuo padre // bersaglio del suo scontro di civiltà // nutrito dal suo orgoglio e dalla sua rabbia // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // Se per le strade di Firenze oggi s’intona un canto // che sia un richiamo di amore e di giustizia // che costringa l’UMANO a tornare nel suo alveolo // e che come tortora riprenda a tubare // silenziando lo stridio di drone e di Magnum. // DIEREDIEF SERIGNE TOUBA // (Pina Piccolo, 18 dicembre 2011) // *Canto funebre intonato per l’intera durata della manifestazione dallo spezzone dei senegalesi romani della confraternita islamica di Mourides dell’Africa occidentale che chiudevano il corteo per onorare Modou e Mor il 18 decembre a Firenze. Le parole significano,"Grazie guida di Touba" che è la capitale religiosa del mouridismo
martedì 11 dicembre 2012
Homonationalism, Sex, and Disability: Pinkwashing and Biopolitics in the Middle East
Segnaliamo, da NextGenderation, questa conferenza di Jasbir Puar che si terrà il 17 gennaio 2013 al Dipartimento di Gender Studies della Queen's University, che in effetti - vista da qua - è quasi dall'altra parte del globo, ma in ogni caso ecco un abstract: // This presentation will survey recent debates on what has been termed pinkwashing: the use of gay rights by the Israeli government to deflect attention from its occupation of Palestine. Instead of reproducing a queer exceptionalism – homonationalism – that singles out homosexuality as a particular facet of state control, Jasbir Puar argues that the practice of pinkwashing should be situated within a broader biopolitics of state control that invests in a range of bodies and bodily habits. The focus will be specifically on the use of disability as part of a biopolitical assemblage of control that instrumentalizes a spectrum of capacities and debilities for the use of the Israeli occupation of Palestine //
Strage di piazza Dalmazia / Ricordando Mor Diop e Samb Modou
Il 13 dicembre di un anno fa, in piazza Dalmazia a Firenze, il militante di estrema destra vicino a CasaPound Gianluca Casseri, sparava contro alcuni lavoratori senegalesi, uccidendone due - Mior Diop e Samb Modou - e ferendone gravemente altri tre - Moustapha Dieng, Sougou Mor e Mbenghe Cheike -. Casseri - che si spara in un parcheggio poco dopo - viene subito descritto dalla stampa e dalla polizia come un "folle isolato" e le indagini vengono chiuse dopo appena un mese. Ma ad un anno di distanza troppe sono ancora le domande senza risposta. Rinviamo all'articolo pubblicato da Staffetta in occasione dell'anniversario della strage e della manifestazione che si terrà giovedì 13 dicembre a Firenze
lunedì 10 dicembre 2012
Eastern Mediterranean Feminism / CfP
Call for Papers for an upcoming conference at Bogazici University,
Istanbul Turkey June 7-9, 2013. The conference is entitled: Changing Feminist Paradigms and Cultural Encounters: Women’s Experiencesin Eastern Mediterranean History in the Nineteenth and Twentieth Centuries. Changing feminist paradigms refers to a shift from a Turkish-oriented historiography of women’s experiences to an emphasis on diversity in both the late Ottoman Empire and the modern Middle East. Scholarship has come a long way in producing “women’s histories,” but feminist critiques of national historiography and challenges to the conventional periodization of Ottoman-Turkish historical narrative are tasks yet to be undertaken. With this conference, we encourage scholars to tackle these tasks and, in the process, to reconsider and reformulate key terms and concepts introduced by feminist scholars in North America. In addition, we hope this conference will rethink interactions between feminist activism and scholarship with the purpose of bringing new perspectives to women’s and gender history in the Middle East and around the world. We welcome papers on such topics as: efforts to canonize the field // challenges to existing chronologies of nationalist historiographies // links between and legacies of the Ottoman and post-Ottoman worlds // sources for researching women’s and gender history //the impact of emergent nation-states on diverse women’s // experiences in the region
// binaries between public and private, state and society, tradition and modern, etc., and the ways these binaries are reproduced or challenged by "emancipatory projects" // the interaction between women’s activism and scholarship on women’s history // historical patterns of women’s activism in the region // the potential of activism to bring new perspectives to women’s studies and vice versa // different forms of feminism in the history of the modern Middle East // rethinking women's “agency” in the realms of crime, health, sexuality, and urban life// . Because we are planning for discussions on the relationship between scholarship and activism, we also look forward to submissions from feminist activists in the wider region of the Middle East. If you would like to present at this conference, we ask that you submit a short summary of your proposed paper, or contribution, of around 1,000 words, along with an updated curriculum vitae by January 15, 2013. Submissions should be sent to the conference coordinator,
Professor Gulhan Balsoy, via email at gerkaya@gmail.com.We will be able to defray some travel and hotel expenses for conference participants but ask that each person chosen to participate seek other funding. Scholars with college or university appointments should, for example, request funds from their home institutions. We hope to publish select papers in a special issue of the Journal of Women’s History. Both the conference and the potential special issue represent a unique and pioneering collaboration between an American-based journal (one devoted to publishing the best work in the international field of women's history) and women's historians in the Middle East. //Gulhan Balsoy, Independent Scholar // Elisa Camiscioli, Binghamton University, New York, Book Review Editor, JWH // Arzu Ozturkmen, Boğaziçi University // Jean Quataert, Binghamton University, New York, co-editor, JWH // Benita Roth, Binghamton University, New York, Associate Editor, JWH // Basak Tug, Istanbul Bilgi University //Leigh Ann Wheeler, Binghamton University, New York, co-editor, JWH //
domenica 9 dicembre 2012
Il nome della cosa: classificare, schedare, discriminare
La (bellissima) copertina dell'ultimo (bellissimo) numero di Zapruder, curato da Fiammetta Balestracci e Ferruccio Ricciardi. Per l'indice, info su abbonamenti e appuntamenti alla/della rivista rinvio al sito di Storie in Movimento. Approfitto di questo post domenicale per fare i miei auguri di buon lavoro alla nuova redazione e comitato di coordinamento di Zapruder/Sim (ad multos annos).
venerdì 7 dicembre 2012
Le domeniche di Migranda
Dopo la festa/assemblea del maggio scorso, Migranda ritorna con un nuovo appuntamento: una domenica al mese per continuare a discutere, a partire dalle nostre esperienze, in un momento in cui la crisi economica e la legge Bossi-Fini hanno effetti profondi anche su noi donne, migranti e non. Molte, soprattutto coloro che non lavorano, sono “rimandate” nei paesi di provenienza, spesso coi propri figli nati o cresciuti qui, per risparmiare sui costi della riproduzione. Altre si ritrovano a portare a casa l’unico salario, perché – da sempre più ricattabili alla luce del doppio carico di lavoro – le donne offrono una forza lavoro più “utile” in tempi di crisi, in quanto più disponibile. E intanto sempre più, proprio a causa della crisi economica, il lavoro domestico a pagamento sembra essere l’unica via d’uscita dalla disoccupazione anche per le donne italiane che, proprio “grazie” alle migranti, sembravano essersene liberate. Con Migranda vogliamo stabilire le condizioni per una comunicazione continua, per una presa di parola delle donne che rompa l’isolamento vissuto da molte, affinché l’esperienza di ognuna diventi un’esperienza condivisa. Per questo, a partire dal 9 dicembre, ci incontreremo una domenica al mese, alle ore 15, presso il Centro Sociale Montanari (via Saliceto, 3 - Bologna). Prossimi appuntamenti: 27 gennaio, 24 febbraio e 24 marzo 2013. Vi aspettiamo!
mercoledì 5 dicembre 2012
Jasmina Metwaly e il collettivo Mosireen
Un incontro con Jasmina Metwaly - artista polacco-egiziana, tra le fondatrici del collettivo di media-attivisti Mosireen nato nel febbraio 2011 come canale di informazione alternativo alla stampa ufficiale collusa con il potere - si terrà stasera a Torino al Centro Studi Sereno Regis. Grazie a Liliana Ellena e Vesna Scepanovic per la segnalazione! Che peccato non avere il dono dell'ubiquità ...
La pace dell'Unione Europea non è la nostra / سلام الاتحاد الأوروبي ليس السلام الذي نؤمن به / The European Union Peace Is Not Ours
Il 10 dicembre alcuni rappresentati dell’Unione Europea saranno ad Oslo per ritirare il Nobel per la pace che, come si legge nel testo delle motivazioni, si è deciso quest'anno di assegnarle per la sua “vittoriosa lotta per la pace e la riconciliazione, per la democrazia e i diritti umani”. Una decisione assolutamente inaccettabile. Tra le tante voci che si sono alzate per rifiutare questa strana (e cieca) idea di pace rinviamo a La pace dell' Unione Europea non è la nostra, delle Venticinqueundici che con le madri dei dispersi continuano la campagna Da una sponda all'altra: vite che contano
lunedì 3 dicembre 2012
Aleksandr Michajlovič Rodčenko e Varvara Fedorovna Stepanova
Varvara Fedorovna Stepanova (Kovno, 9 novembre 1894 - Mosca, 20 maggio 1958) fotografata da Aleksandr Michajlovič Rodčenko (San Pietroburgo, 23 novembre 1891 – Mosca, 3 dicembre 1956)
Whiteness / Bianchezza
Sarà centrato su di un concetto cruciale, quello di whiteness / bianchezza, il prossimo incontro del seminario Dal femminismo agli "altri femminismi" a cura del Laboratorio di autoformazione Bartleby. Con Gaia Giuliani e Valeria Ribeiro Corrosacz // Incontri precedenti: Intersezionalità, Black Feminism, Femminismo post-coloniale e Femminismo senza frontiere
Iscriviti a:
Post (Atom)