venerdì 30 marzo 2007

Sexe et Race: discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle

Vincenza Perilli (a cura di), Dossier "Sexe et race", Razzismo & Modernità, n. 2, 2002, pp. 108-123.


Vincenza Perilli, La vita di una rivista unica, p. 109.

La rivista Sexe et Race: discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle che, lungo i due ultimi decenni, ha riprodotto il lavoro svolto nel seminario che le dà nome, tenuto all’università di Paris 7–Denis Diderot, ha cessato le sue pubblicazioni nel 1999. Sexe et Race, come emerge dagli indici che qui pubblichiamo in appendice, si è orientata fin dall’inizio verso quattro grandi assi: biopolitica ed eugenetica; nazionalismi e fascismi; razzismo e antisemitismo; donne, femminismi e antifemminismo. La rivista ha analizzato i discorsi e le forme di esclusione ed emarginazione che si sono sviluppate negli ultimi due secoli nelle società europee, soprattutto rispetto alle donne e alle minoranze etniche, per “esplorare ed esplicitare i rapporti, complessi e mobili, tra le rappresentazioni della differenza dei sessi e quelle delle differenze o gerarchie etniche (di ‘razza’), così come la loro funzione nella costruzione dei discorsi e delle modalità nuove (o classiche) di dominazione ed esclusione”, evitando “le impasse dell’amalgama, della confusione, o della semplice giustapposizione”[1]. Il merito principale di Sexe et Race “è precisamente quello di aver saputo porre e di continuare a porre queste questioni, talvolta così scomode per la storia delle nostre società, ma così fondamentali per cercare di comprenderne il funzionamento passato e presente”[2]. Il seminario e la rivista non sarebbero stati possibili, né probabilmente pensabili, senza l’attività e l’impegno di Rita Thalmann, germanista e storica, che li ha diretti e animati, facendone il luogo di elaborazione teorica delle grandi cause per cui si è battuta, dentro e fuori dall’università, da una vita[3]. In questo saggio per Razzismo & Modernità, Thalmann ricostruisce il contesto che ha permesso, ma anche reso necessaria, l’esistenza di Sexe et Race, un’esperienza che ha inaugurato e promosso linee di ricerca tuttora attive e per nulla esaurite.


[1] “Pour Rita Thalmann”, introduzione a Liliane Kandel (a cura di), Féminismes et nazisme, en hommage à Rita Thalmann, Publications de l’Université Paris VII-Denis Diderot, Paris, 1997, p. 7.

[2] Marie-Claire Hoock- Demarle, “Avant-propos”, in Sexe et Race: discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle, n. 11, 1999, p. 5.

[3] Si veda l’introduzione a Liliane Crips, Michel Cullin, Nicole Gabriel, Fritz Tauber (a cura di), Nationalismes, fèminismes, exclusions. Mèlanges en honneur de Rita Thalmann, Frankfurt/Main, Peter Lang, 1994, pp. 9-16. Il volume presenta in appendice una bibliografia – per quanto incompleta e ovviamente oramai datata -, delle principali opere di Rita Thalmann.



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Rita Thalmann, “Sexe et Race: discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle”, pp. 110-117

Non si deve al caso se il nostro seminario Sexe et Race: discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle, associato dal 1984 fino alla sua chiusura nel 1998 al laboratorio “Societés Occidentales” dell’università di Paris VII – Denis Diderot, è nato dalla constatazione di una insufficiente presa di coscienza tra gli universitari francesi dell’emergenza delle correnti negazioniste e relativiste. Risultava in effetti evidente che l’azione, essenzialmente giudiziaria, delle associazioni di deportati antirazzisti – in origine, le sole a combattere queste correnti ‑, non poteva sostituirsi all’azione preventiva fondata sulla conoscenza delle origini del razzismo e dell’antisemitismo sfociati nella biopolitica del Terzo Reich e nel genocidio nazista degli ebrei, impropriamente chiamato “Olocausto”, problematica centrale delle tesi negazioniste e relativiste.

Beneficiando di un’ampia cooperazione pluridisciplinare estesa ad altre istituzioni scientifiche (Cnrs, Inserm, Ehess, Iep, Bdic, Cdjc[1]), l’Università di Paris 7 offriva da questo punto di vista un quadro particolarmente appropriato. Come testimoniano gli undici volumi pubblicati, il seminario si è dapprima rivolto allo studio comparato dell’evoluzione delle tesi razziali nelle società occidentali e della loro applicazione alla gerarchizzazione dei gruppi umani in continuità col lavoro di Léon Poliakov, aggiungendovi tuttavia quello dell’esclusione socioculturale delle donne, a proposito del quale la nostra università ha giocato, segnatamente grazie a Michelle Perrot e al Cedref (Centre d’enseignement, de recherche et de documentation pour les études féministes) un ruolo precursore.

Questo significa che il tema Sexe et Race: discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle non deve nulla alla moda relativamente recente del “dovere di memoria”, poiché s’inscrive in un lavoro di ricerca e di trasmissione dei saperi sulla problematica delle continuità e discontinuità di una crisi identitaria sopravvenuta nel corso del XIX secolo, nel contesto della crisi della modernità che conduce all’ascesa dei fascismi fino al parossismo del nazismo, per risorgere in un mondo in cui la perdita di riferimenti favorisce nuovamente lo sviluppo dei nazionalismi e, conseguentemente, la riscrittura di una storia asservita a fini ideologico-politici. Questioni troppo a lungo ignorate dai politici, quando costituiscono uno dei fondamenti dell’avvenire della pace e della democrazia in un’Europa in corso di unificazione e, oltre, della sicurezza mondiale.

Sebbene esistano differenze non trascurabili tra la relativizzazione e il negazionismo – che, malgrado la sua pretesa di incarnare una “storia revisionista” come parte integrante della ricerca scientifica e dell’insegnamento a tutti i livelli, resta l’emanazione di una minoranza eterogenea che mira a negare l’esistenza del genocidio nazista degli ebrei, della quale Valérie Igounet[2] ha descritto la traiettoria e le poste in gioco –, queste due correnti rivelano almeno due aspetti comuni: da una parte la volontà di sgravare la memoria collettiva dal fardello del nazismo in generale e dello sterminio degli ebrei d’Europa in particolare e, dall’altra, l’estensione geografica. In particolare nei paesi dell’Europa dell’Est dopo la caduta del Muro e il crollo della dominazione comunista, così come, più recentemente, nei paesi arabi che cercano di delegittimare l’esistenza dello Stato d’Israele.

Il negazionismo – amalgama grossolano di stereotipi e miti giudeofobi che vanno dall’antigiudaismo cristiano all’antisemitismo riattivato dal conflitto in Medio Oriente, passando per l’estrema destra razzista e antisemita –, benché nato in Francia, non trovandovi udienza, cerca dapprima l’appoggio degli àmbiti neonazisti della Rft e dell’Austria.

Impresa proseguita, dopo Maurice Bardèche e Paul Rassinier, da Robert Faurisson che tenta vanamente di ottenere, nel 1974, la cauzione scientifica di Martin Broszat, esperto riconosciuto della storia del nazional-socialismo, direttore all’epoca dell’Institut für Zeitgeschichte di Monaco. Non è che cinque anni più tardi che l’offensiva negazionista, estesa nel frattempo ai paesi anglosassoni e scandinavi, attira l’attenzione degli ambienti universitari francesi che, salvo rare eccezioni, non erano affatto preoccupati del fenomeno e dei singolari seminari di “critica letteraria” di Robert Faurisson all’Università di Lyon II. In effetti è solo dopo i primi interventi pubblici di quest’ultimo che un certo numero di storici denunciano quest’impresa di falsificazione[3]. Anche se, eccetto David Irving, il negazionismo non ha trovato dei relè tra gli storici, i suoi tentativi di infiltrazione negli ambiti universitari – come rileva Alain Devaquet, ministro dell’educazione, in occasione di una tavola rotonda al Centre Rachi a Parigi[4], a proposito del dossier dell’ affaire Roques[5] –, incontrano connivenze che oltrepassano le università di Lyon II, Lyon III e Nantes. Nell’affaire Roques, così come nei successivi – ancora recentemente nell’affaire Plantin[6] –, possiamo constatare una mancanza di vigilanza e silenzi che spiegano le reazioni spesso tardive, o addirittura inesistenti, delle istanze scientifiche. Attitudine preoccupante, nella misura in cui questa corrente cerca di far presa su giovani menti vulnerabili, anche attraverso lo sviluppo delle sue pubblicazioni e di 4300 siti razzisti e antisemiti accessibili oggi in Francia.

All’inverso del negazionismo, la corrente relativista, nata nella seconda metà degli anni Settanta da una presa di posizione del professor Broszat in favore di una storicizzazione del periodo del Terzo Reich, è stata strumentalizzata dieci anni più tardi nella Rft, a partire da un articolo del filosofo-storico Ernst Nolte che, già in precedenza, passava per l’enfant terribile della corporazione. Conviene precisare che la sua argomentazione mirante a relativizzare il nazismo in generale e il genocidio nazista degli ebrei come una reazione difensiva al pericolo del “giudeo-bolscevismo” era già stata pubblicata nel 1985 in un’opera collettiva inglese[7]. Il suo lancio, pubblicato nel giugno 1986 dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung[8], uno dei principali organi degli ambienti economici neoconservatori, si iscriveva nella scia di un movimento di “normalizzazione”, di “riga definitivamente tirata sul passato”, illustrato segnatamente dal difficile dibattito parlamentare sulla imprescrittibilità dei crimini nazisti contro l’umanità, dalla legalizzazione della Comunità di mutuo soccorso degli ex combattenti delle SS (Hiag)[9], e dalla cerimonia di riconciliazione tedesco-americana al cimitero militare di Bitburg. Senza dimenticare le dichiarazioni pubbliche di certi eletti cristiano democratici, precedute, nell’autunno 1984, da quelle del cancelliere Kohl sulla “grazia di una nascita tardiva”in occasione della sua visita in Israele. In questo contesto il modo di procedere di Nolte, seguito da qualche storico neoconservatore tra cui, in particolare, Michael Sturmer, all’epoca consigliere storico del cancelliere Kohl, corrispondeva a uno scivolamento di senso dalla storicizzazione allo storicismo mirante a costruire o ricostruire la memoria tedesca come creatrice di un’identità nazionale sgravata dal peso “di un passato che non vuole passare”.

Apparentemente acquietato dopo le vive reazioni, per interposti media, di sociologi poi di rinomati storici tedeschi legati alla democrazia costituzionale, che rifiutano questa appropriazione ideologico-politica della storia – rifiuto sostenuto fuori dalla Rft da specialisti della storia del nazismo[10] – il dibattito riprende forza,dopo la caduta del Muro, in Europa centrale e orientale. Fondandosi sulle tesi di Nolte, la storiografia relativista-revisionista di questi paesi tendeva a minimizzare la collaborazione con il Terzo Reich e a riabilitare nello stesso tempo le élite nazionali. Questa corrente troverà un insperato sostegno nella nozione di “olocausto rosso”e nell’arringa per una “Norimberga del comunismo” esposta da Stéphane Courtois nel capitolo introduttivo al Livre noir du communisme[11]. Quest’opera collettiva – la cui introduzione è tuttavia ricusata da alcuni degli autori –, pubblicata in Francia nel 1997, conosce una grande diffusione e risonanza nelle società ossessionate dalla riconquista di una fierezza nazionale macchiata dalla compromissione con il nazismo e dai successivi decenni di dittatura comunista[12].

Ad eccezione della Repubblica ceca, dove Vaclav Havel fu il primo, dal 1990, a mettere in guardia i suoi concittadini contro le tentazioni vittimistiche e l’esteriorizzazione sistematica della causa del male, e della Polonia, in cui la ri-nazionalizzazione della storia-memoria, non esente dall’antigiudaismo, equivale a constatare che né il nazismo né il comunismo sono problemi polacchi e che non ci sono, conseguentemente, conti da rendere da questo punto di vista, che i colpevoli sono altrove, o che solo il destino è responsabile delle sciagure della nazione, gli altri paesi dell’Est – in particolare l’Ungheria, ma soprattutto la Romania – integrano la nozione di “olocausto rosso” oramai passata nel lessico corrente.

In questo caso, come in quelli, fino ad oggi meno esplorati, dei paesi baltici o della storiografia della Germania dell’Est dopo la “svolta”, il problema della storicizzazione è legato al trattamento degli archivi. Trattamento variabile in funzione della ricostruzione identitaria. Allorché in Romania un buon numero di storici, appellandosi agli svariati ostacoli all’accesso agli archivi dei periodi relativi, procedono a una riscrittura che esonera questo paese da ogni responsabilità nella persecuzione e nello sterminio di circa 200.000 ebrei rumeni durante l’alleanza con il Terzo Reich, il periodo comunista è presentato di volta in volta come un martirio collettivo del popolo rumeno e l’espressione di una minoranza d’origine etnicamente “straniera” (ebrei, zingari, ungheresi). Le vittime diventano i complici. I complici, le vittime.

Nella Germania dell’Est, al contrario, la massa degli archivi dell’ex Rdt, aperti dopo la caduta del regime, testimonia una volontà di rottura e di stigmatizzazione senza ledere la storiografia della vecchia Rft. Come se, per il solo fatto di questa stigmatizzazione, fosse provata la superiorità del modello democratico liberale della Germania dell’Ovest. Tanto più che gli storici più influenti, tra i quali quelli che dirigono gli istituti specializzati, sono tutti della Germania occidentale. Nondimeno, gli archivi del periodo nazista conservati nella Rdt e nell’Europa dell’Est hanno permesso di precisarne la specificità, svilita dai relativisti, in rapporto alla “seconda dittatura” dell’ex Rdt, ridotta ad una “dittatura senza popolo”, al contrario del nazismo, “dittatura con il popolo”. Tuttavia – e su questo punto lo storico francese Etienne François concorda con il suo collega tedesco Christian Maier – si deve constatare il contrasto flagrante tra il modo in cui la società e gli storici della Germania occidentale hanno reagito agli sconvolgimenti del 1989-90, la vivacità delle messe in causa, la precocità di una storicizzazione della Rdt e la lentezza del dibattito di fondo sul nazismo e il passato tedesco dopo il 1945.

Questa lentezza e queste reticenze sono state oggetto del vivo dibattito seguito alle comunicazioni – a un colloquio dell’ottobre 2000 all’università di Paris VII – di Odile Krakovitch e Caroline Piketty sulla “liberalizzazione” degli archivi francesi. Battaglia che una minoranza di noi porta avanti da anni[13] che ha certo portato ad una pratica meno restrittiva delle deroghe, senza sfociare tuttavia nella legge promessa dal primo Ministro. Legge che doveva ispirarsi al rapporto Braibant[14] del 1996, che preconizzava tra l’altro la riduzione del lasso di tempo interposto tra la data di un documento e la sua accessibilità – nettamente più lungo che in altre democrazie –, e l’istituzione di una reale trasparenza, ciò che avrebbe il vantaggio di porre fine alla pratica del segreto e della ritenzione, che prevale da secoli in Francia. Si favorirebbe così la ricerca storica, permettendo di chiarire più facilmente le zone d’ombra e di decostruire i miti che contribuiscono alla perturbazione della memoria collettiva.

Questo fenomeno fu ugualmente a lungo percepibile nella storia delle donne che non si sviluppa in Francia che all’inizio degli anni Ottanta. Fino a questa data non si contano che da uno a 370 nomi di donne negli indici delle persone citate nelle opere storiche. Non è che a partire dal colloquio Femmes. Féminisme. Recherche – organizzato nel 1983 all’università di Toulouse-Le Mirail con il sostegno del ministero francese della ricerca e di 800 ricercatrici femministe –, che la storia delle donne riceve progressivamente uno statuto universitario. Se bisogna attendere gli anni Novanta per la pubblicazione di una Histoire des femmes en Occident e di una Histoire politique des femmes[15] , in un primo tempo la maggioranza delle ricerche storiche si concentrano sulla Francia. In questo senso il Cedref dell’università di Paris 7 e la nostra équipe Sexe et Race: discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle – nata nel 1980 all’Università di Tours e trasferita nel 1984 all’università Paris 7 – costituisce fin dall’inizio un’eccezione. Eccezione nel suo interessarsi alla storia comparata delle donne di altri paesi nel caso del Cedref. Eccezione per la nostra équipe nell’introdurre le tematiche dei fascismi e dei razzismi in collaborazione con la Fondazione scientifica internazionale delle donne (Wif)[16] creata nel 1983 per nostra iniziativa in Austria con il sostegno del cancelliere Kreisky, della ministra austriaca della ricerca Herta Firnberg e della ministra della questione femminile Johanna Dohnal. È grazie a questa cooperazione tra la nostra équipe e le reti europee – ai quali si aggiunge un’équipe di storiche americane specialiste delle donne sotto il nazismo –, che furono realizzate e pubblicate tre opere sui rapporti donne e fascismi[17] ai quali si aggiungeranno in seguito il volume Féminismes et Nazisme diretto da Liliane Kandel e Femme. Nation. Europe diretto da Marie-Claire Hoock-Demarle[18].

Queste opere mostrano la diversità delle reazioni delle donne confrontate all’ascesa dei fascismi e del razzismo nel mondo occidentale. Diversità ugualmente messa in luce nel nostro seminario Sexe et Race. Discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle e negli articoli pubblicati negli 11 volumi della rivista omonima dall’università di Paris 7 - Denis Diderot, università in cui si sono formate delle dottorande ormai al lavoro in diverse università francesi. Françoise Thébaud ad Avignone, ha organizzato con Jolande Cohen (storica all’università di Québec-Montreal) un colloquio su Féminismes et identités nationales (Propane Rhône-Alpes de recherche en Sciences humaines, maggio 1998). Sabine Zeitour, autrice di una tesi sull’Œuvre de Secours aux enfants (OSE) durante l’Occupazione, ha pubblicato due opere su questo soggetto[19], per poi dirigere il Centre d’Histoire de la Resistance et de la Deportation di Lione. Christine Bard, autrice di una tesi sulla storia dei femminismi in Francia, ha pubblicato due libri[20] il secondo dei quali è il prodotto di un colloquio sull’antifemminismo francese nel XX secolo, tenuto all’università d’Angers, in cui Bard – che oramai vi insegna –, ha creato un centro d’archivi storici sulle donne. Fiammetta Venner, che ha sostenuto una tesi in Scienze Politiche, ha fondato con Caroline Fourest l’associazione e la rivista ProChoix e ha inoltre messo in luce in un libro[21] i fondamenti reazionari e razzisti dei movimenti ostili ai diritti delle donne.

Questo genere di studi si è sviluppato durante gli ultimi anni. Ma, nonostante alcuni contributi sulla storia delle donne nella Francia degli anni 1940-45, manca ancora una storia globale delle donne durante Vichy e il nostro seminario Sexe et Race. Discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle interrotto dopo il mio pensionamento, non è stato ripreso da nessuna università francese (Traduzione e cura di Vincenza Perilli).



[1] Centre national de la recherche scientifique, Institut national de la santé et de la recherche médicale, École des Hautes Études en Sciences Sociales, Institut d’études politiques, Bibliothèque de documentation internationale contemporaine, Centre de documentation juive contemporaine.

[2] Valérie Igounet, Histoire du négationnisme en France, Paris, Le Seuil, 2000; si veda inoltre Pierre Vidal-Naquet, Les assassins de la mémoire, Paris, La Découverte, 1987, trad. it. Gli assassini della memoria, Roma, Editori Riuniti, 1993; Nadine Fresco, Fabrication d’un antisémite, Paris, Le Seuil, 1999; Liliane Kandel (a cura di), Féminismes et Nazisme, Publication de l’Université Paris 7 – Denis Diderot, 1997. [Sugli ultimi due testi si vedano, in lingua italiana, le rispettive recensioni di Rudy M. Leonelli, in Razzismo & Modernità, n. 1, gennaio giugno 2001, pp. 164-167 e Vincenza Perilli in Altreragioni, n: 8, 1999, pp. 151-160 (NdT)].

[3] Segnatamente: “La politique hitlérienne d’extermination. Une déclaration d’historiens”, in Le Monde, 21 febbraio 1979; Nadine Fresco, “Les redresseurs de morts. Chambres à gaz. La bonne nouvelle. Comment on révise l’histoire”, in Les Temps modernes, n. 407, giugno 1980, pp. 2150-2211; le pubblicazioni degli anni Ottanta di Pierre Vidal-Naquet raccolte in Les assassins de la mémoire, cit. e la messa a punto di François Bédarida, Le nazisme et le génocide. Histoire et enjeux, Paris, Nathan, 1989.

[4] Il Centre Rachi-Cuej, Centre universitaire d’études juives, fondato nel 1973 (NdT).

[5] Il 15 giugno 1985, Henri Roques sostiene una tesi di dottorato all’università di Nantes, in una sala affollata da circa quaranta persone, tra le quali Robert Faurisson e Pierre Guillaume. La tesi, un esercizio di critica negazionista sulle diverse versioni del noto “rapporto Gerstein”, ottiene un “très bien” da una commissione composta, tra l’altro, da due esponenti della Nouvelle droite: Jean-Claude Rivière (uno dei fondatori del Grece e membro del comitato di redazione di Nouvelle École) e Jean-Paul Allard (collaboratore di Études et Recherches, rivista teorica del Grece e vicepresidente, nel 1977, del circolo Galilée del Grece a Lione, dove animava colloqui con Alain de Benoist). Innescato dalla propaganda del giornale di estrema destra Rivarol e degli ambienti della Vieille Taupe, l’affaire Roques, da una parte ha offerto un’ennesima occasione di visibilità mediatica al negazionismo e, dall’altra, ha sollevato il rilevante problema delle connivenze accademiche, non esaurito dall’annullamento della tesi per “irregolarità amministrative”. Per una dettagliata ricostruzione, si veda Valérie Igounet, Histoire du négationnisme en France, cit., in particolare pp. 408-421 (NdT).

[6] Nel 1990, Jean Plantin si laurea con un “très bien” in Storia all’università di Lyon III, con una tesi consacrata a “Paul Rassinier, socialista, pacifista, revisionista”. L’anno successivo, consegue un Dea (Diplôme d’études approfondis) all’università di Lyon II, con un mémoire su “Le epidemie di tifo nei campi di concentramento nazisti”. Questi riconoscimenti accademici non pongono problema se non nel 1999, quando Plantin, in qualità di direttore della rivista negazionista Akribeia, viene processato e condannato per “contestazione di crimini contro l’umanità”. Il caso, anche grazie alla forte mobilitazione di movimenti e associazioni di lotta contro il razzismo, l’antisemitismo e l’estrema destra, ha rilanciato con forza la questione della responsabilità delle istituzioni universitarie (NdT).

[7] Ernst Nolte, “Between myth and revisionism? The Third Reich in the perspective of 1980s”, in H. W. Koch (a cura di), Aspects of the Third Reich, London, McMillan, 1985, pp. 17-38.

[8] L’articolo di Nolte, “Vergangenheit die nicht vergehen will”, è pubblicato in traduzione italiana in G. E. Rusconi (a cura di), Germania un passato che non passa. I crimini nazisti e l’identità tedesca, Einaudi, Torino, 1987, pp. 3-10.

[9] Hilfsgemeinschaft auf Gegenseitigkeit der ehemaligen Angehörigen der Waffen-SS, fondata all’inizio degli anni Cinquanta (NdT).

[10] Philippe Burrin, Saül Friedländer, Rita Thalmann, “L’Allemagne, le Nazisme et les Juifs”, in Vingtième siècle, ottobre-dicembre 1987, pp. 31-65; Ian Kershaw, The Nazi Dictatorship. Problems and Perspectives of interpretation, London, Arnold, 1985.

[11] Stéphane Courtois (et al.), Livre noir du communisme, Paris, Robert Laffont, 1997; tr. it. Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, Milano, Mondadori, 1998.

[12] Henry Rousso (a cura di), Stalinisme et Nazisme. Histoire et mémoire comparées, Bruxelles-Paris, Complexe, 1999.

[13] Sonia Combe, Archives interdites. Les peurs françaises face à l’histoire contemporaine, Paris, Albin Michel, 1994.

[14] Nel marzo 1995, il Primo Ministro francese Edouard Balladour domanda a Guy Braibant, presidente alla sezione onoraria del consiglio di Stato, di redigere un bilancio della legge n. 79-18 del 3 gennaio 1979 sugli archivi. Il 28 maggio 1996, Braibant rimette il suo rapporto in cui pone l’accento sulle eccessive restrizioni alla consultazione degli archivi in Francia rispetto ad altri paesi. Basti qui ricordare che la vecchia legge prevedeva un lasso di 30 anni per gli archivi pubblici, anni che diventavano 60 per i documenti concernenti segreti di Stato, della Difesa o dell’ordine pubblico, fino a 120 anni per i dossier personali e medici (NdT).

[15] Georges Duby e Michelle Perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente. Dall’Antichità ai nostri giorni, 5 voll., Roma-Bari, Laterza, 1991; Christine Fauré (a cura di) Encyclopédie politique et historique des femmes. Europe et Amérique du Nord, Paris, P.U.F, 1997.

[16] Internationale wissenschaftliche Frauenforschung.

[17] Rita Thalmann (a cura di) Femmes et fascismes, Paris, éd. Tierce, 1986; Rita Thalmann (a cura di) La tentation nazionaliste 1914-1945, Paris, éd. Deux temps-Tierce, 1990; Leonore Siegele-Wenschkewitz e Gerda Stuchlik, Frauen und Faschismus in Europa, Pfaffenweiler, Centaurus, 1990.

[18] Liliane Kandel (a cura di), Féminisme et nazisme, cit. ; Marie-Claire Hoock-Demarle (a cura di), Femmes. Nation. Europe, Publications Université Paris 7 – Denis Diderot, 1995.

[19] Sabine Zeitourn, Ces enfants qu’il fallait sauver, Paris, Albin Michel, 1999 e, della stessa autrice, L’œuvre de secours aux enfants sous l’occupation en France, Paris, L’Harmattan, 1999, entrambi con prefazione di Serge Klarsfeld.

[20] Christine Bard, Les filles de Marianne. Histoire des féminismes en France 1914-1940, Paris, Fayard, 1995 e, a cura della stessa autrice, Un siècle d’antiféminisme en France, Paris, Fayard, 1999, prefazione di Michelle Perrot.

[21] Claudie Lesselier e Fiammetta Venner (a cura di), L’extrême droite et les femmes, Paris, Golias, 1997.


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Indici di Sexe et race (1986-1999), pp. 118-123


N° 1, 1986

Pierre Thuiller, “Darwinisme et discours raciste”, pp. 1-13.

Colette Guillaumin, “Identité discursive entre toutes les formes de naturalisme et biologisme”, pp. 14-23.

Jean- Pierre Hammer, “Les fondements du XIXe siècle de Houston Steward Chamberlain”, pp. 24-48.

Nicole Gabriel-Amatulli, “Nature et rôle des femmes dans la social-démocratie allemande”, pp. 49-70.

Liliane Crips, “Entre maternité et modernité : la femme au temps des années folles en Allemagne”, pp. 71-82.

Marianne Walle, “Darwinisme social et discours de femmes sur la ‘vocation naturelle’ dans le cadre du Bund Deutscher Frauenvereine (B.D.F)”, pp. 83-99.

Rita Thalmann, “Alfred Rosenberg: ‘le mythe du XXe siècle’”, pp. 100-113.

Barbara Vormeier, “Le discours juridique dans la pratique de l’exclusion nazie en 1933”, pp. 114-132.


N° 2, 1987

André Bejin, “Le darwinisme social de Francis Galton, Karl Pearson et Georges Vacher de Lapouge”, pp. 3-24

Otmar Kòeinebrel, “Alexander Tille: le service du peuple d’un aristocrate social”, pp. 25-35.

Jacques Le Rider, “Le cas Otto Weininger”, pp. 37-65.

Rita Thalmann, “Le protestantisme synchrétique sous le IIIe Reich”, pp. 67-87.

Nicole Gabriel, “Démographie et antimilitarisme à l’époque du Kaiser”, pp. 89-114.

Liliane Crips,“Magnus Hirschfeld (1868-1935), un eugéniste social-démocrate”, pp. 115-134.

Christina Ottomeyer-Hervieu, “Les préliminaires de l’eugénisme (1870-1929) et le mouvement international d’eugénique”, pp. 99-116.


N° 3, 1988

Pierre Thuiller, “A propos de quelques travaux récents sur le darwinisme social”, pp. 3-11.

Pierre-André Taguieff, “Théorie des races et biopolitique sélectionniste en France. Aspects de l’œuvre de Vacher de Lapougue (1854-1936). (I)”, pp. 12-60.

Till Meyer, “La ‘Philosophie biologique’ de Ernst Haeckel”, pp. 62-78.

Marianne Walle, “Le National-Féminisme en Allemagne pendant la Première Guerre mondiale”, pp. 79-98.

Liliane Crips, “Essai d’analyse institutionnelle du racisme biologique: le cas de la ‘société allemande d’hygiène raciale’, de sa fondation, en 1905, aux débuts du Troisième Reich”, pp. 117-130.

Nicole Gabriel, “Matriarcat et utopie: Otto Gross, psychanalyste (1877-1920)”, pp. 131-155.

Noëlle Bisseret-Moreau, “Alexis Carrel et la ‘Fondation Française pour l’étude des problèmes humains’ (1941-1945)”, pp.156-174.

Rita Thalmann, “Des deutsche Christen à la foi allemande: la révolution ‘chrétienne’ (1919-1933)”, pp. 175-188.

Jean- Pierre Hammer, “Le paragraphe 175 ou l’homosexualité en Allemagne de 1869 à 1986”, pp. 189-207.


N° 4, 1989

Pierre-André Taguieff, “Théorie des races et biopolitique sélectionniste en France. Aspects de l’œuvre de Vacher de Lapougue (1854-1936). (II)”, pp. 3-33.

Liliane Crips, “Eugen Fischer : L’anthropologie inégalitaire”, pp. 35-63

Noëlle Bisseret-Moreau, “La baisse de la natalité dans les pays occidentaux : un objet pseudo-scientifique”, pp. 65-103.

Pia Le Moal, “Les médecins et l’eugénisme sous le IIIe Reich”, pp. 105-119.

Rita Thalmann, “Hiérarchisation et traitement des femmes selon les critères nationaux-socialistes de la pureté raciale”, pp. 121-143.

Michel Veuille, “La sociobiologie, déterminisme biologique contemporain”, pp. 145-162.

Annick Lantenois, “Expression picturale du racisme national-socialiste”, pp. 163-181.

Gaëtane Mogica, “Aspects juridiques de la discrimination des femmes et des enfants en RFA”, pp. 183-201.

Liliane Kandel, “Quelques paradoxes de la réflexion féministe concernant le Troisième Reich”, pp.203-228.


N° 5, 1990

Etienne Balibar, “Racisme et sexisme”, pp. 3-8.

Yves Aouate, “Édouard Drumont revisité : aspects évolutifs et méconnus de son œuvre”, pp. 9-30.

Marc Knobel, “De l’étude des noms et des Juifs à l’école d’anthropologie et chez Georges Montandon”, pp. 31-67.

Claire Auzias, “National-sozialismus versus révolution française”, pp. 67-72.

Nicole Gabriel, “Alfred Rosenberg: pour en finir avec le mythe du XIXe siècle. 1789 revu et corrigé par l’idéologie national-socialiste”, pp. 73-98.

Jean Christophe Concavela, “L’évolution de la théorie psychiatrique en Allemagne 1870-1933”, pp. 99-118.

Rita Thalmann, “Guida Diehl et le mouvement de la régénérescence allemande”, pp. 119-141.

Christine Bard, “L’avocate Yvonne Netter : itinéraire d’une avocate féministe et sioniste dans la première moitié du siècle en France”, pp. 142-171.

Maria Pia Di Bella, “Les conceptions racistes dans l’ethnologie italienne: 1876-1942”, pp. 173-193.

Liliane Crips,“Du féminisme comme décadence : le discours sur les femmes des droites conservatrices et révolutionnaires sous la République de Weimar et le IIIe Reich”, pp. 195-211.

F. Taubert, “Stéréotypes sur l’Allemagne dans la presse de la gauche française des années 30”, pp. 213-225.

Ruth Wodak, “Le discours antijuif dans l’Autriche actuelle”, pp. 227-253.


N° 6, 1991

Pierre-André Taguieff, “Réaction identitaire et communauté imaginée : Sur la production contemporaine du nationalisme”, pp. 3-38.

Jean Christophe Coffin, “ La théorie des dégénérescences et sa réception (1857-1968) ”, pp. 39-58.

Béatrice Philippe, “Le mariage exogamique vu par les auteurs français au XIXe siècle”, pp. 59-77.

Liliane Crips,“Hans F. K. Günther (1891-1968), un idéologue du nordisme”, pp. 79-100.

F. Taubert, “Frank Wedekind: Hidalla oder Sein und Haben (Karl Hetmann, der Zwergriese), une satire du racisme et du nordisme”, pp. 101-121.

Marianne Walle, “Eve nouvelle ou ange du foyer ? Les héroïnes de la littérature féminine dans les années 20”, pp. 123-140.

Rita Thalmann, “L’évolution de l’émigration du IIIe Reich de 1933 à 1941”, pp. 141-157.

Anne Grynberg, “L’internement des Juifs étrangers, un remède à la décadence française”, pp. 159-173.

Nicole Gabriel, “Actualité de l’austro-marxisme: Otto Bauer et la question des nationalités”, pp. 175-189.

Claudie Lesselier, “Traditionalisme et engagement: les femmes à l’extrême droite”, pp. 191-207.

Regina Benjowski, “La position des femmes dans le contexte de l’unification allemande”, pp. 209-217.


N° 7, 1992

Colette Guillaumin, “‘Clôture culturelle’ et inassimilation dans la France contemporaine”, pp. 3-10.

Michel Fagard, “La question juive en Autriche-Hongrie : discours et pratique d’exclusion”, pp. 11-20.

Martine Francheo, “Les débats juridiques en Allemagne durant la première moitié du XIXe siècle et leurs effets sur le statut des femmes”, pp. 21-50.

Nicole Gabriel, “La culture contre le nationalisme. Rudolf Rocker: Nationalisme and Culture (1937)”, pp. 51-72.

Michel Cullin, “L’antijudaïsme des catholiques autrichiens au XXe siècle”, pp. 73-79.

Liliane Crips, “Otmar von Vershuer (1896-1969) et les fonctions socio-politiques de l’hygiène raciale”, pp.87-98.

Rita Thalmann,“Aspects de l’épuration culturelle en France sous l’occupation et le régime de Vichy”, pp. 99-114.

Dominique Rossignol, “La répression de la franc-maçonnerie en France”, pp. 115-142.

Corine Bouillot, “Du mouvement des femmes à la tutelle idéologique en Allemagne de l’Est. (EBZ/DDR) 1945-1953”, pp. 143-155.

Liliane Kandel, “Nature, histoire et politique dans le discours des Verts: l’affaire Brière”, pp. 157-186.


N° 8, 1993

Colette Guillaumin, “Race. Question de terminologie”, pp. 5-16.

Jacqueline Costa-Lascoux, “La loi contre le racisme son symbole, ses limites”, pp. 17-26.

Françoise Basch, “Ernestine Louise Potovsky Rose (1810-1892) juive, femme des Lumières, féministe : universalité ou marginalité ? ”, pp. 27-38.

Sylvie Fayet- Scribe, “ Paris : 1900. La naissance aventureuse des centres sociaux en France par deux pionnières du social : Mercédès Le Fer de la Motte et Marie-Jeanne Bassot”, pp. 39-52.

Liliane Crips, “Sélection ‘raciale’ – sélection sociale. L’itinéraire du raciologue Fritz Lenz (1887-1976) , pp. 53-76.

Pierre-André Taguieff, “Mixophobie et xénophobie. Théorie des races, eugénisme et nationalisme xénophobe: croisements d’argumentations”, pp. 77-132.

Leonore Siegele-Wenschkewitz, “Tendances de la théologie féministe au sein des églises protestantes d’Allemagne”, pp. 133-147.

Rita Thalmann “La double mémoire du passé dans l’Allemagne après l’unification”, pp. 149-162.

Annette Wievioeka, “Mémoriaux”, pp. 163-173.

Fiammetta Venner, “Extrême-gauche, extrêmes- droites: interférences paradoxales”, pp. 175-185.


N° 9, 1994

Colette Capitan, “La conception révolutionnaire des classes de sexe (1789-1793)”, pp. 5-14.

Fiammetta Venner, “Les socialistes et la question juive:notes sur l’antisémitisme de gauche (1845-1890)”, pp. 15-26.

Françoise Basch, “Victor Basch : chef des dreyfusards de Rennes”, pp. 27-50

Rita Thalmann “Hellmut von Gerlach: l’itinéraire singulier d’un hobereau prussien du nationalisme antisémite au pacifisme de gauche”, pp. 51-64.

Klaus-Peter Sick, “Du briandisme à la collaboration. La genèse, les persistances et les discontinuité d’une politique étrangère”, pp. 65-86.

Nicole-Claude Mathieu, “Relativisme culturel, excision et violences contre les femmes”, pp. 93-102.

Sonia Combe, “Mémoire grise des femmes à l’Est. Avoir vingt ans sous la terreur”, pp. 103-112.

Dominique Schnapper, “Inclusion et exclusion. Les politiques d’intégration en France et en Allemagne”, pp. 113-123.

Claire Ambroselli, “La ‘purification ethnique’ : crimes de guerre ou crimes contre l’humanité ? Questions à travailler”, pp. 123-148.


N° 10, 1997

Pierre André Taguieff, “Retour sur les ‘Protocoles des Sages de Sion’. Origines et fonctions du ‘complot juif mondial’, mythe politique moderne”, pp. 5-21.

Marco Schütz, “Ludwig Woltmann”, pp. 23-52.

Françoise Basch, “L’intime brisure: Victor Basch et l’Allemagne”, pp. 55-81.

Nicole Gabriel, “Victor Basch et l’Allemagne: un germaniste intempestif”, pp. 83- 95.

Yves Ternon, “Spécificité du génocide au XXe siècle”, pp. 97-110.

Rita Thalmann, “La dernière phase du judaïsme allemand (1938-1945)”, pp. 111-126.

Mechtild Gilzmer, “Camps d’internement de femmes en france: Rieucros et Brens (1939-1944)”, pp. 127-147.

Corinne Bouillot, “La redéfinition de la question de l’avortement en zone d’occupation soviétique et en RDA. La femme et son corps au service du socialisme”, pp. 149-162.

Bruno Groppo, “L’Italie et son passé. Antifascisme, Résistance, identité nationale dans le dèbat historiographique et politique italien d’aujourd’hui”, pp. 163-181.

Jean-Charles Szurek, “Mémoire polonaise et passé juif”, pp. 183-192.

Marie-Claire Hoock- Demarle, “Le double discours de l’exclusion des femmes: formes, pratiques et perversions”, pp. 193-206.

Selma Leydersdorf, “L’intégration sociale des Juifs aux Pays-Bas”, pp. 207-213.


N° 11, 1999

Marie-Claire Hoock- Demarle, Avant-propos, p. 3.

Régine Dhoquois, “L’Universalité du droit dans des sociétés inégalitaires: une difficile transmission”, pp. 7-23.

André Lasserre, “La Suisse de 1933 à 1945, une terre de refuge ou de refus?”, pp. 25-41.

Jochen Hoock, “L’accoutumance à l’exclusion: le cas Victor Klemperer”, pp. 43-56.

Jacques Grandjonc, “Une famille de réfugiés allemands dans le Midi de 1939 à 1943 entre émigration et déportation”, pp. 57-72.

Yves C. Aouate, “Entre solidarité communautaire et confort intellectuel, le judaïsme français et la guerre d’Algérie – notes et observations”, pp. 73- 93.

Annie Lacroix-Riz, “Les industriels français et le IIIe Reich”, pp. 95-122.

Claude Singer, “L’Université libérée, l’Université épurée (1943-1947)”, pp. 123-134.

Francine Muel-Dreyfus, “Sexe, classe, race: la construction de la féminité sous Vichy”, pp. 135-145.

Sylvie Chaperon, “Le mouvement des femmes à la Libération (1944-1946)”, pp. 147-174.

Françoise Basch, “Sojourmer Truth (1797-1883), femmes noires et féminisme”, pp. 175-191.



domenica 25 marzo 2007

La pelle giusta

Vincenza Perilli, La pelle giusta, recensione all’omonimo libro di Paola Tabet, Torino, Einaudi, 1997, in Razzismo & Modernità, n. 1, 2001, pp. 167-169.

"Io non avrei paura se i miei genitori fossero neri. E' una razza come tutte le altre ... Io a loro vorrei molto bene come se fossero con la pelle giusta" (p. 155).

Nell'introduzione a Sexe, race e pratique du pouvoir Colette Guillaumin definisce il lavoro teorico di alcune studiose, tra le quali Paola Tabet, come "una formidabile rimessa in discussione delle 'evidenze', questa forma sacra dell'ideologia" (Sexe, race et pratique du pouvoir. L'idée de nature, Paris, Côté-Femmes Editions, 1992, p. 11). Già a partire dai primi anni Settanta la ricerca di Tabet - attualmente docente di antropologia presso l'Università della Calabria - si è orientata allo smantellamento di una delle più tenaci di queste evidenze, quella del sesso, in una prospettiva teorica radicale che verte non sulla "differenza sessuale" in quanto tale, ma sulla sua produzione, nel contesto di pratiche e relazioni sociali di discriminazione, devalorizzazione e dominazione (alcuni degli scritti più significativi di questo percorso sono pubblicati in La construction sociale de l'inégalité des sexes. Des outils et des corps, Paris, L'Harmattan, 1998). Con La pelle giusta l'asse della problematizzazione si sposta dal "sesso" alla "razza", prodotto di uno specifico sistema di differenziazione che, senza essere amalgamabile al primo, condivide con esso la naturalizzazione di rapporti socialmente costruiti. Questa problematica, sovente elusa, conosce rilevanti sviluppi, in particolare con le ricerche storiche e teoriche correlate alla rivista Sexe et race e al lavoro di Rita Thalmann e Liliale Kandel (alcune informazioni essenziali sono da me fornite in L’innocenza di Eva, Altreragioni, n. 8, 1999). Il volume nasce nell'ambito di un seminario di etnologia tenuto dall'autrice nell'anno accademico 1989-90 alla facoltà di Magistero dell'Università di Siena. Nel corso del seminario, che verte sulle definizioni di razza, etnia, indigeno, primitivo, emerge "la normalità e ovvietà dell'ideologia della razza tra gli studenti, l'immersione largamente consapevole in essa, a partire dalla loro percezione della 'razza' come entità naturale, dato di fatto scontato e come tale fuori discussione” (p. XIX). Partendo dal fatto che molti tra questi studenti sono insegnanti nelle scuole elementari, Tabet propone di svolgere un'indagine sulla presenza di schemi mentali propri dell'ideologia della razza nei bambini, attraverso una serie di temi, dapprima proposti dagli studenti del seminario alle classi in cui insegnano. La ricerca, che si potrae fino alla primavera del 1997, si estende coinvolgendo 424 classi di scuole elementari e medie, portando alla raccolta di oltre settemila temi, circa duecento dei quali sono proposti nel libro in forma integrale, suddivisi per sezioni. Il tema Se i mie genitori fossero neri assume una posizione centrale in quanto i "neri" si rivelano come gli "altri" per eccellenza. "Neri" sono spesso per i bambini, albanesi, tunisini, marocchini, zingari, jugoslavi e altri: "i negri non saprei come definirli, ma già a vederli sono poveri ... i negri nascono di tre razze di pelle nera, gialla e bianca" (p. 151). La relativa indipendenza dal colore della pelle in molte definizioni segnala che l'idea di "razza" preesiste alla percezione visiva. Frasi come quella citata non esprimono un'infantile confusione, ma sono coerenti con i criteri di definizione dei gruppi stigmatizzati nella storia del razzismo fino all'odierna categoria di "extracomunitari": "Le definizioni in termini di colore e di razza non fanno che camuffare e attribuire alla natura un rapporto politico. La 'pelle giusta', l'unica pelle giusta, è quella di chi in una misura o nell'altra detiene il potere, di chi può fissare le regole e le categorie di appartenenza, è la pelle del gruppo dominante"(p. 150). I sentimenti espressi dai bambini di fronte al tema proposto, le rappresentazioni degli altri così come le strategie escogitate rispetto ad una situazione vissuta dai più con enorme inquietudine, costituiscono il segnale, allarmante e sconvolgente, di come una serie di stereotipi e pregiudizi razzisti siano precocemente e saldamente interiorizzanti. Emergono con violenza sentimenti di paura, schifo, vergogna e rifiuto, sovente accompagnati ad un'immagine negativa dei neri (o "negri"). Le strategie vanno da varie forme di negazione ("non può essere vero", "è solo uno scherzo", "sono solo genitori adottivi") a soluzioni sempre più drastiche quali la fuga (e in alcuni casi il suicidio), la cacciata dei genitori neri "a calci nel culo " (p. 111), fino alla soppressione: simbolica (nascondendoli o imbiancandoli), o fisica (raramente tradotto in uccisione diretta, il desiderio di morte è realizzato dal provvidenziale intervento di una malattia o di un incidente). Che l'avversione manifestata dai bambini non sia dovuta all'ansia per la perdita dei genitori reali è dimostrato dalle reazioni a un tema di controllo: l'ipotesi di avere genitori americani suscita vivo entusiasmo, legato all'immagine del paese della ricchezza e del benessere. Agli antipodi, un altro tema di controllo mostra che l'immagine dell'Africa è marcata negativamente: estrema arretratezza, sporcizia, fame, malattie. L'analisi condotta da Tabet rivela la presenza negli elaborati di elementi che concorrono a mettere in discussione la resistente presupposizione del carattere "naturale" e/o "spontaneo" delle percezioni e dei pregiudizi razzisti. La paura dell'altro è indotta nei bambini da molteplici fattori: dai retaggi di certa educazione cattolica (il diavolo come nero, ad esempio), a immagini ricorrenti in molta letteratura per l'infanzia (quali "l'uomo nero"), fino ai peggiori stereotipi martellati dai media. Inoltre i bambini, particolarmente sensibili anche ai segnali non verbali, decodificano con precisione le reazioni di rifiuto, repulsione, diffidenza, disprezzo (nei casi migliori, compassione) manifestate quotidianamente dagli adulti. Le diverse forme di repulsione rintracciabili nei temi (schifo, paura del contatto, associazioni con sporcizia, cattivo odore ecc.) non sono innate, ma sono l'esito di una lunga e complessa storia di rapporti sociali caratterizzati da disuguaglianze di potere economico e politico, della definizione materiale e spesso legislativa di barriere tra noi (gli "umani"), e gli altri (i "non-umani"). Si tratta di storia anche italiana - antigiudaismo cattolico e antisemitismo, colonialismo e razzismo antimeridionale-, una storia denegata dal diffuso luogo comune secondo il quale "gli italiani non sono razzisti" che questo libro, con la crudezza di un linguaggio infantile lucidamente contestualizzato, contribuisce a scuotere. Il razzismo odierno non nasce dal nulla, come improvvisa reazione ai più recenti flussi migratori, ma è la riattivazione di un sistema a lungo sedimentato. In questo senso lo stesso sconcerto e lo sgomento di fronte alle frasi dei bambini possono essere letti come sintomo della difficoltà "di prendere atto e fare i conti con il peso di un sistema razzista, un pensiero della differenza che questi temi ci costringono violentemente a vedere" (p. 207). Al di là delle necessarie limitazioni dell'analisi, sottolineate dall'autrice (in particolare: valore non statistico dei rilievi; insufficienza di elementi atti a focalizzare l'incidenza di specifici fattori economici, politici e culturali; impossibilità di un controllo da parte del ricercatore su eventuali interventi da parte degli insegnanti), questa ricerca è di interesse strategico come esplorazione dei processi di trasmissione, apprendimento e riproduzione del razzismo, e della conseguente possibilità di disimpararlo (vedi Io non sono razzista ma ... Strumenti per disimparare il razzismo, a cura di Paola Tabet e Silvana Di Bella, Roma, Anicia, 1998). Notevole è, al riguardo, il distacco critico di Tabet dalle riduzioni del problema alla comunicazione-conoscenza tra culture che informano numerose esperienze di educazione interculturale nelle scuole. Oltre ai rischi impliciti all'assunzione della "differenza culturale" come un dato primo in epoca di neorazzismo, la mancanza di uno sguardo più ampio sulle dissimmetrie di potere economico e politico che caratterizzano l'insieme dei rapporti sociali, può contrbuire a "falsare" il problema, di fatto, riproducendolo.

giovedì 8 marzo 2007

8 marzo: il mito delle origini



Liliane Kandel e Françoise Picq, Il mito delle origini. A proposito della giornata internazionale delle donne, in La revue d'en face, n°12, 1982, pp. 67-80*


Qual è l’origine della giornata internazionale delle donne? Cosa si commemora l’8 marzo di ogni anno?

Una risposta chiara e precisa si trova in tutta la stampa militante; quella de Pcf e della Cgt[1] (Antoinette, Heures Claires), così come quella dei gruppi di donne (Les Pétroleuses, Des Femmes en mouvement, Mignonnes allons voir sous la rose), e che la grande stampa riproduce (Le Matin, France-soir, Le Quotidien, gennaio 82).


8 marzo 1857?

“Sono le americane che hanno incominciato, si legge in Antoinette (n. 1, marzo 1964), era l’8 marzo 1857 … Per reclamare la giornata di 10 ore, hanno invaso le vie di New York”. E quali che siano le varianti dell’avvenimento descritto – sciopero delle cucitrici o manifestazione di strada -, quali che siano le rivendicazioni avanzate – giornata di 10 ore, a lavoro uguale salario uguale, asili o rispetto della loro dignità –, quali che siano i dettagli – giornata primaverile o processione nella nebbia – … tutti sono d’accordo, da Mignonnes allons voir sous la rose a Des femmes en mouvement hebdo tanto sulla data originaria che sulle linee principali della storia della giornata internazionale delle donne.

Qualche divergenza appare: “la polizia carica quel giorno un corteo vestito miserabilmente” (Antoinette, marzo 1968), per Les Pétroleuses (marzo 1975) questo primo sciopero di donne oppone 2le operaie tessili alla polizia di New York che carica, spara e uccide”. Altrove (o in altri momenti) non viene menzionata alcuna repressione, ma si parla del giuramento che quel giorno fecero le operaie “ di ritrovarsi ogni anno alla stessa data” (G. Suret-Canale, Antoinette, marzo 1973).

Ma questo non sembra attentare all’evidenza dell’avvenimento originario. Non più che la scelta fatta qui o là per questo o quel ricordo di 8 marzo memorabili: 8 marzo 1917 le donne di Pietrogrado scendono nelle strade ed è l’inizio della Rivoluzione russa (di febbraio, o la preparazione di quella d’Ottobre), 8 marzo 1945 a Ravensbruck…

Tuttavia, la data del 1857 non si trova nelle fonti americane dell’epoca. I giornali americani del marzo 1857 non menzionano alcuna manifestazione o sciopero di donne l’8 marzo, che del resto era una domenica. Nessun riferimento a questo avvenimento, del resto, nelle storie del movimento operaio negli Stati Uniti (che segnalano altri scioperi o manifestazioni di donne[2]), o nelle storie del femminismo. Ci chiediamo dove quelle che, mezzo secolo più tardi, hanno “adottato l’idea di onorare la memoria di queste coraggiose americane” (Heures Claires, marzo 1976, tra le altre), ne hanno trovato traccia.

A dire il vero, questa data del 1857 non è menzionata neppure dalle dirigenti del movimento femminile socialista internazionale che hanno preso l’iniziativa di questa celebrazione. Non la si vede comparire nella stampa comunista francese che negli anni Cinquanta.

Una sola cosa è sicura: è durante la seconda Conferenza internazionale delle donne socialiste, a Copenaghen, nell’agosto 1910, che fu presa, per iniziativa di Clara Zetkin, la decisione – avvallata dal successivo congresso dell’Internazionale – di celebrare ogni anno una giornata internazionale delle donne. Esse riprendevano l’iniziativa delle donne socialiste americane che avevano deciso, a partire dal 1909, di organizzare ogni anno, l’ultima domenica di febbraio, una giornata nazionale per l’uguaglianza dei diritti civili.

Le donne socialiste non avevano fissato il 1857 come avvenimento primitivo da commemorare, né tanto meno si erano pronunciate per la data dell’8 marzo, ma soltanto sul principio d’una celebrazione. Nella sua risoluzione di Copenaghen, Zetkin proponeva del resto di fissarla tutti gli anni, durante le feste del Maggio.

E’ la direzione del partito socialdemocratico tedesco che ha fissato il primo giorno delle donne il 19 marzo 1911, data non scelta per caso. Da tempo, la socialdemocrazia tedesca commemorava in questa data due avvenimenti: la rivoluzione tedesca del 1848 a Berlino e la Comune di Parigi – e tutti gli anni in marzo, molto prima del 1911, die Gleichheit[3] chiamava tutte le donne ad unirsi alle manifestazioni previste.

E’ dunque sotto il segno di due date importanti del movimento operaio internazionale che fu posta, sin dalla nascita, la giornata internazionale delle donne. Eccoci lontano da New York, dal 1857, dalle operaie tessili … Perché no, dopo tutto? Ma perché allora, non dirlo chiaramente? Perché, settant’anni più tardi, raccontarci che è una lotta di donne quella che commemoriamo, che è questa e non un’altra che avevano scelto Zetkin e le congressiste di Copenaghen?

La prima giornata internazionale delle donne festeggiata nel 1911 ottenne, segnatamente in

Germania e Austria, un successo immenso. Soltanto a Berlino, ebbero luogo simultaneamente quarantadue meeting, e più di 30.000 donne sfilarono nelle strade di Vienna, in Austria.

Al quel tempo non c’era in Francia un gruppo di donne socialiste capace di riprendere questa iniziativa, e non vi furono manifestazioni a Parigi prima del 1914[4].


La giornata internazionale delle donne nella tormenta

Instaurata nel 1910, la tradizione socialista della giornata internazionale delle donne ha subito i contraccolpi della guerra poi della scissione del movimento operaio.

Essa fu, di primo acchito, per un piccolissimo numero di donne socialiste l’occasione per significare, nonostante la guerra, l’internazionalismo proletario. Non avendolo seguito nella sua azione anti-guerra il gruppo delle donne socialiste (creato nel 1913), Louise Saumonneau diffuse in Francia l”Appello” di Clara Zetkin e creò con due altre donne (bolsceviche) un Comitato d’azione femminili socialista per la pace contro lo sciovinismo di cui sarà rappresentante a Berna, nel marzo 1915, alla Conferenza internazionale delle donne socialiste, preludio alla Conferenza socialista internazionale di Zimmerwald (settembre 1915). Nel 1916 e 1917, il Comitato d’azione femminili socialista per la pace contro lo sciovinismo, celebrò la giornata internazionale delle donne con l’invio di lettere di solidarietà e la tenuta (difficile) di riunioni private, prima di dissolversi nell’autunno del 1917.

Le donne socialiste allora dovettero prendere partito, individualmente, nel grande scisma internazionale del movimento operaio. Louise Saumonneau, che aveva lottato per l‘internazionalismo rivoluzionario e l’adesione del Partito francese alla Terza Internazionale, indietreggiò di fronte alle “21 condizioni” di Lenin e prese “la ferma risoluzione di non aderire al partito della proscrizione e delle ‘epurazioni periodiche”[5]. Clara Zetkin, al contrario, aderirà alla Terza internazionale, ma era minoritaria nel partito socialdemocratico tedesco ed aveva già perso nel 1917 la direzione del giornale Die Geithheit che aveva creato e fatto vivere per 23 anni. Zetkin tentò nel 1919 di rilanciare l’idea di una conferenza internazionale delle donne socialiste, malgrado la “divisione nel campo socialista internazionale”[6].


L’alba della rivoluzione

Tuttavia la giornata internazionale delle donne trovò, a partire dalla Russia, un nuovo inizio. Le donne socialiste vi avevano nel 1913 e 1914 celebrato la giornata internazionale delle operaie. L’8 marzo 1917 (23 febbraio del calendario russo) ebbero luogo a Pietrogrado delle manifestazioni che i bolscevichi designano come il primo giorno della rivoluzione (di febbraio). “Senza tener conto delle nostre istruzioni, scrive Trockij (Storia della Rivoluzione russa), le operaie di molte tessiture si sono messe in sciopero e hanno inviato delle delegazioni ai metallurgici per chiederne il sostegno … Non è venuto in mente a un solo lavoratore che questo potesse essere il primo giorno della Rivoluzione”.

La storia bolscevica ufficiale non tarderà, del resto, ad attribuirsi la paternità di questa manifestazione.” Il 23 febbraio (8 marzo), all’appello del comitato bolscevico di Pietrogrado, le operaie scesero in strada per manifestare contro la fame, la guerra, lo zarismo. Questa manifestazione fu sostenuta dall’azione di sciopero degli operai di Pietrogrado” (Storia de Partito bolscevico, citato da V. Michaut, Cahiers du Communisme, 1950).

Spontanee o no, femminili o no, quel giorno ebbero luogo delle manifestazioni per la pace e contro la fame di cui l’Humanité del 11-3-17 rende conto a partire da un dispaccio del Times del 9 marzo. “Nel 1917, scrive Alessandra Kollontai[7], la giornata delle operaie è divenuta memorabile nella storia. Quel giorno, le donne russe hanno innalzato la fiaccola della Rivoluzione proletaria e messo a fuoco il mondo; la rivoluzione di febbraio ha fissato il suo inizio quel giorno”.

Si è dunque instaurata una nuova tradizione, sotto gli auspici del Partito bolscevico e della Terza internazionale; ogni anno, la Russia dei soviet festeggia degnamente le sue operaie mentre, negli altri paesi, le donne sono chiamate a commemorare “l’azione energica delle operaie di Pietrogrado”(L’Humanité, 6-3-22). “La giornata internazionale delle operaie, conclude Alessandra Kollontai, è diventata giornata internazionale di lotta per la liberazione completa e assoluta delle donne, che significa lotta per la vittoria dei soviet e del comunismo”.

L’8 marzo (o una data vicina) sarà oramai ‘occasione per i partiti comunisti di mobilitare le donne, di “richiamarle alla lotta sotto la bandiera comunista” (L’Ouvrière, 4-3-24), e, al tempo stesso, di sviluppare in direzione delle donne la propaganda del Partito o l’azione del Sindacato. E’ questa data che viene scelta per lanciare L’Ouvrière “organo di propaganda tra le donne” (n. 1, 11-3-22) secondo le direttive dell’Internazionale.

La giornata internazionale delle donne è diventata, tra le due guerre, l’oggetto d’aspre dispute tra la Seconda e la Terza Internazionale, in Francia tra il Pcf e la Sfio[8] che non la celebrano nella stessa data. Dalla fine della Seconda guerra, essa è ufficiamente celebrata in tutti i paesi socialisti; in Francia il Pcf (relayé dalla Cgt) non ha mai cessato di manifestare in questa occasione (talvolta l’unica) l’interesse che rivolge alle donne (Traduzione in corso di Vincenza Perilli, continua...).

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*Questo articolo, il cui titolo originale è “Le mythe des origines. À propos de la journée internazionale des femmes”, è rapportato fondamentalmente al contesto francese, notevolmente diverso da quello italiano. In Italia, infatti, il “mito” assume declinazioni specifiche. Se la tradizione socialista afferma che la scelta dell’8 di marzo fu fatta per richiamare il grande sciopero dell’8 marzo del 1848, più recentemente si è affermata in Italia la versione delle operaie bruciate nel rogo della loro fabbrica. Versione che sembra relativamente recente: il 7 marzo 1952 il settimanale bolognese La Lotta, scrive che la data della Giornata della Donna vuole ricordare l’incendio scoppiato in una fabbrica tessile di New York l’8 marzo del 1929, in cui sarebbero morte (rinchiuse all’interno dello stabilimento dal padrone perché minacciavano di scioperare) 129 giovani operaie in gran parte di origine italiana ed ebraica. In seguito, il tema dell’incendio e delle operaie arse vive nel rogo del loro posto di lavoro viene ripreso, ma con diverse varianti. Nel 1978, il Secolo XIX di Genova colloca l’episodio a Chicago, in una filanda. Nel 1980, La Repubblica parla di un incendio a Boston, datato 1898. Nel 1981, Stampa Sera situa l’incendio ai primi del ‘900, in un luogo imprecisato degli Stati Uniti, le operaie vittime sarebbero state 146. Lo stesso anno, L’Avvenire parla di 19 operaie morte. Nel 1982, Noi Donne, afferma che l’incendio sarebbe avvenuto a Boston nel 1908 e le operaie morte sarebbero state 19. Ma non risulta nessun incendio sia nel libro di Renée Còté, Verità storica della misteriosa origine dell’8 marzo, che in quello di Tilde Capomazza e Marisa Ombra, 8 marzo, storie, miti e riti della Giornata Internazionale della Donna (per queste informazioni vedi A-infos all’indirizzo http://www.ainfos.ca/04/mar/ainfos00509.html).
Ma nonostante queste ed altre informazioni siano da tempo note, la leggenda delle operaie morte ha rifatto capolino anche quest’anno alla vigilia dell’ 8 marzo. Tralasciando le varie occorrenze in diversi volantini e documenti (tra i quali innumerevoli siti e blog), veramente troppi per essere elencati, ricordo qui il quotidiano Liberazione che il 7 marzo 2007 ha pubblicato una lettera/appello di Elisabetta Piccolotti (portavoce nazionale Giovani Comunisti/e), indirizzata a Giorgia Meloni, vicepresidente della Camera, nonché presidente di Azione Giovani. Nella lettera (“sul volgare machismo” della sezione di Biella di Azione giovani), Piccoletti scrive: “L’8 marzo in tutto il mondo – come ogni anno dal 1908 quando 129 donne persero la vita durante un incendio in una industria tessile di New York – ricorre la festa delle donne”.



[1] Parti Comuniste Français e Confédération Générale du Travail, rispettivamente il Partito comunista francese e uno dei maggiori sindacati francesi (N. d. T.).

[2] In particolare: dicembre 1828 nelle filande a Cochen Mill, 1834 le cucitrici di New York, il 7 marzo 1860 manifestazione delle donne durante lo sciopero – misto – nell’industria calzaturiera a Lynn (Mass) (Ph. Foner, Women and the American Labor, N.W, 1979).

[3] L’uguaglianza, rivista fondata e lungamente diretta da Zetkin (N. d. T.).

[4] Checché ne dica Des femmes en mouvements hebdo (11.12.81), per il quale “Alessandra Kollontai organizza una manifestazione di donne a Parigi”. Sarebbe particolarmente lungo e fastidioso rilevare le falsificazioni storiche nello schema presentato, in questo numero, così come nei successivi.

[5] Citato da Charles Sowerwine, Les femmes et le socialisme, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, Paris, 1978, p. 214.

[6] La Suffragiste, n. 47, settembre 1919, Clara Zetkin “Aux femmes socialises de tous les pays”.

[7] Alessandra Kollontai, Internatonal Women’s day, pamphlet Internationa Socialist.

[8] Parti socialiste, Section française de l’Internationale ouvrière detto Sfio, fondato nell’aprile del 1905 a Parigi (N. d. T).

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