Toshi Kayano e Vincenza Perilli, Confortanti silenzi, in Altreragioni, n. 10, 2000, pp. 125-127.
Nell'agosto 1991 a Seul, Kim Hak Sung, ex "donna di conforto"(1) rompe pubblicamente un silenzio durato quasi mezzo secolo, denunciando il diretto coinvolgimento del governo giapponese nell'istituzione di bordelli militari a servizio dell'esercito durante la seconda guerra mondiale.
Le prime "case di conforto" vengono create in Cina all'inizio degli anni Trenta e la pratica si estende, a partire dal 1941, con la Guerra del Pacifico, in tutti i territori conquistati dall'esercito imperiale. La loro sistematica installazione subisce un notevole incremento dopo il massacro di Nanchino perpetrato dall'esercito giapponese nel novembre 1937 quando, nell'ambito dell'uccisione di centinaia di migliaia di civili, un numero incalcolabile di donne viene violentato. Preoccupate dall'indignazione dell'opinione pubblica internazionale e dal timore che simili fatti potessero inasprire la resistenza delle popolazioni delle zone occupate, le autorità nipponiche vedono l'istituzione massiva dei bordelli militari come un argine agli stupri incontrollati, e come mezzo di prevenzione al propagarsi di malattie veneree tra le truppe.
In realtà le "case di conforto" non hanno costituito un'alternativa, ma un supplemento istituzionalizzato delle diffuse pratiche di stupro (2), orientato selettivamente su determinate categorie di donne: prelevate, spesso con la forza, dalle popolazioni "inferiori" delle colonie e dei territori occupati, ma anche - in diversi casi - reclutate con imprecisate e illusorie offerte di lavoro tra gli strati più poveri. Deportate talvolta a migliaia di chilometri dal paese d'origine, sottoposte a una stretta sorveglianza che non lasciava alcuna via di fuga - tranne i (frequenti) suicidi -, queste donne erano ignare della loro sorte fino al momento della loro "messa al lavoro". La giornata era scandita gerarchicamente: i soldati durante il giorno, i sottufficiali la sera, gli ufficiali la notte. Sottoposte dai medici militari a rigidi controlli e a interventi chirurgici tesi a "migliorarne" l'uso sessuale, venivano spesso uccise in caso di infezioni o malattie veneree. A fine guerra, molte sopravvissute al "lavoro" sono state eliminate dalle truppe giapponesi in ritirata, che davano così il via alla distruzione delle prove. A tutt'oggi il numero delle vittime resta imprecisato.
Nel dopoguerra diversi fattori hanno contribuito all'occultamento di questi crimini. Nei paesi ex-colonizzati, al mutismo, legato a un sentimento di vergogna (spesso imposta) delle vittime, si è sovrapposto l'interesse dei governi a non ostacolare le relazioni politico-economiche col Giappone. D'altro canto l'opinione pubblica giapponese non ignorava l'esistenza di case chiuse (frequentemente evocata nella letteratura e nel cinema del dopoguerra), ma tendeva ad ammetterla come un "naturale" ed ineluttabile contorno della guerra.
Le militanti del movimento femminista sud coreano hanno contribuito in maniera determinante all'emergere del problema. Impegnate da anni nella denuncia del turismo sessuale delle kisaeng (le cosiddette geishe coreane) - appoggiato dal governo come uno dei principali canali di importazione di valuta straniera -, sono esse a raccogliere le prime voci sull'esistenza delle cosiddette "case di conforto" e a mettersi alla ricerca delle vittime in tutti i territori dominati dal Giappone durante la seconda guerra mondiale. La testimonianza di Kim Hak Sung, trasmessa in televisione, alza il velo sulla concreta sofferenza delle vittime innescando un vasto movimento d’opinione. La protesta si estende dalla Corea a tutto il sudest asiatico acquistando una dimensione mondiale a partire dal 1993, quando, alla Conferenza internazionale di Vienna, alcune ex "donne di conforto" coreane testimoniano insieme con le vittime degli stupri sistematici avvenuti nella ex-Jugoslavia (3).
Nello stesso Giappone le dichiarazioni delle vittime e le mobilitazioni di intellettuali (storici, giuristi, sociologi) hanno contribuito alla ricostruzione dei fatti e a una prima presa di coscienza del loro carattere di "crimini di guerra", che però non si è finora tradotta in un esplicito riconoscimento giuridico delle responsabilità statali. Il governo nipponico ha inizialmente reagito negando l'implicazione dell'esercito, scaricando la responsabilità su "fornitori privati" che avrebbero gestito, da soli, "l'affare". Il moltiplicarsi delle testimonianze, delle denunce, delle prove ha reso inevitabile un cambiamento di atteggiamento: lo Stato ha cominciato ad ammettere qualche responsabilità - in particolare, dal 1997, menzionando la questione nei manuali scolastici -, ma rifiuta di riconoscere ogni responsabilità giuridica con il pretesto che il trattato stipulato nel 1965 con il dittatore del governo militare della Corea del Sud, Park Chung-Hee, ha chiuso ogni contenzioso relativo ai tempi della seconda guerra mondiale, e ad analoghi trattati con altri paesi vicini.
La situazione si è notevolmente aggravata negli ultimi anni con la nascita di un movimento ultranazionalista che alimenta ed estremizza le argomentazioni governative. La questione viene ridotta a un "complotto internazionale anti-giapponese" e - adattando un collaudato copione negazionista - le vittime sono iscritte nella categoria dei "falsificatori": le pretese "schiave sessuali" dell'esercito imperiale non sarebbero altro che prostitute "volontarie" e il Giappone si sarebbe comportato né più né meno come un qualsiasi altro paese in guerra.
Se il retroterra culturale di questo tipo di discorso non è un fenomeno nuovo in Giappone, inedita è l'ampiezza e il sostegno che riceve attualmente dalla società. Il revisionismo della destra nazionalista, sostenuto dai maggiori organi di stampa e da esponenti del potere politico, finanziato da eminenti uomini d'affari e appoggiato dalle più importanti case editrici del paese, genera una forte inquietudine, non solo nelle minoranze etniche che vivono nell'arcipelago, ma anche in quanti vedono un reale pericolo nel ritorno di forme di etnocentrismo populista in Giappone come altrove.
Per contrastare questa situazione e l'inattività delle istanze giuridiche ufficiali (4), un tribunale internazionale sulla questione delle "donne di conforto", promosso dal Vaww-Network (Violence against women in war), è previsto per il dicembre 2000 a Tokyo.
Sono nati numerosi comitati di sostegno: sono disponibili diversi documenti (tra cui il film: documentario Murmures, della regista sud coreana Byun Young-Jo) e, in vista della scadenza di dicembre, si intensificano le iniziative pubbliche ed è in corso una raccolta di firme.
NOTE:
(1) Traduciamo con "donna di conforto" l'eufemistica espressione giapponese "ianfu".
(2) La reale funzione di esperienze storiche come questa è naturalmente assente nelle sollecitazioni al ripristino delle idilliache "case chiuse", avanzate negli ultimi anni in Italia da qualche nostalgico delle imprese d'Africa e da diversi esponenti della destra.
(3) Dalla dichiarazione adottata da questa conferenza è nata la "Dichiarazione per la soppressione della violenza contro le donne" dell'Assemblea generale dell'Onu dello stesso anno.
(4) Lo stesso progetto di una Corte penale internazionale permanente, con il compito, tra l'altro, di giudicare gli atti di violenza sessuale compiuti nell'ambito di conflitti interetnici e internazionali, avrà un mandato limitato ai crimini perpetrati dopo l'entrata in vigore del suo regolamento, approvato col trattato di Roma del luglio 1998. Ciò significa che i crimini risalenti al passato non potranno essere presi in considerazione.
1 commento:
L'argomento mi riporta alla mente il libro "la casa delle bambole". Si sa da decenni cosa c'era nei lager ormai, lo si gonfia, lo si distorce, lo si riduce, ma grosso modo ormai sappiamo cos'erano.
Io penso che queste ragazze vivevano molto meglio delle migliaia di altri prigionieri (in prevalenza uomini...) costretti a lavorare nelle miniere...
Solo che si sa che le donne sono sempre più vittime degli uomini...
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