Questo testo raccoglie alcuni interventi presentati ad un colloquio internazionale organizzato dal Cedref (Centre d'enseignement, de documentation et de recherche pour les etudes féministes) e dal Ceric (Centre d'etudes et de recherches inter-européennes contemporaines) presso l'Università Paris 7 - Denis Diderot nel dicembre 1992.
Il titolo Féminismes et nazisme - decisamente spiazzante rispetto allo standard (italiano e non) - offre le prime indicazioni di lettura. Se il plurale femminismi è segno di cautela metodologica, una presa di distanza da atteggiamenti ecumenici che apre all'analisi di una complessità solcata da contraddizioni e non priva di "zone grigie" (e, insieme, intuibile invito a non ridurre le esperienze femministe francesi e non sotto il marchio corrente del "femminismo della differenza"[1]), è l'accostamento al termine nazismo ad incuneare la critica in uno snodo strategico: punto limite nel campo delle ricerche sulle relazioni tra sessismo e razzismo, luogo di sedimentazione, anche nella riflessione femminista, di resistenze, omissioni, semplificazioni.
Il nome di Rita Thalmann è una sorta di catalizzatore, qualcosa di più del riferimento ad una esperienza di vita o ad una Autrice[2]: l'omaggio - inconsueto - a una persona vivente è come l'insegna di un cantiere aperto, il nome di un incrocio che raccorda una pluralità di ricerche e di angolature problematiche. Il seminario Sexe et race: discours et formes nouvelles d'exclusion au 20ème siècle, che Thalmann anima dal 1985, ha l'obiettivo di "esplorare ed esplicitare i rapporti, complessi e mobili, tra le rappresentazioni della differenza dei sessi e quelle delle differenze o gerarchie etniche (di 'razza'), così come la loro funzione nella costruzione dei discorsi e delle modalità nuove (o classiche) di dominazione ed esclusione" evitando "le impasse dell'amalgama, della confusione o della semplice giustapposizione"[3].
Il binomio sesso/razza ha avuto importanza decisiva nella storia dei movimenti femministi, in particolare, già dal secolo scorso, negli Usa. Il termine "sessismo", che oggi ci appare autoevidente, trent'anni fa non esisteva: coniato nell'ambito del femminismo statunitense nel corso degli anni Sessanta, sul modello di "razzismo", si è poi esteso in ambito internazionale[4]. Nel sottolineare il parallelismo tra i meccanismi dell'oppressione razziale e quella delle donne, le femministe intendevano dimostrare come in entrambi i casi degli argomenti di tipo biologico (delle differenze fisiche percettibili: il colore della pelle, il sesso...) servivano a giustificare sistemi di discriminazione, subordinazione e devalorizzazione. Nella congiuntura le istanze femministe tendevano ad aprirsi un varco mediante l'accostamento al più consolidato antirazzismo della sinistra. "La posta in gioco del dibattito era chiara: si trattava di far riconoscere la legittimità politica dei nuovi movimenti femministi: e per cominciare, di ricusare di primo acchito, nella discussione sulla dominazione di sesso - come in precedenza su quello di 'razza' -, ogni ricorso ad argomenti di tipo essenzialista o naturalista, i. e. in termini di destino biologico"[5]. Relativamente efficace sul piano strategico, l'amalgama sessismo/razzismo (e la fuorviante identificazione dei rispettivi "anti"[6]) presenta dal punto di vista teorico notevoli limiti che la congiuntura attuale - contraddistinta dall'importanza crescente accordata alla "differenza" - impone di rompere.
Di fatto si assiste negli ultimi anni a un riprodursi dell'amalgama su basi più problematiche ed ambigue. Allo strutturarsi di un antirazzismo teso alla difesa delle "identità culturali" e al rispetto delle "differenze"[7] si affiancano talune delle correnti "femministe" più in voga negli ultimi vent'anni che dalla critica all'universalismo sono giunte all'abbandono del concetto di uguaglianza e all'invocazione "rituale e pietosa del 'rispetto delle differenze' - e certamente al primo posto la differenza di sesso"[8]. Se l'antirazzismo, in particolare nelle versioni multiculturaliste, si trova a condividere imbarazzanti omologie con l'apparato discorsivo e concettuale del campo che combatte, questi femminismi producono nel proprio ambito specifico un limite analogo.
Nello spazio di un riflessione critica sul rapporto sessismo/razzismo - e di forme specifiche di razzismo come l'antisemitismo - focalizzare l'attenzione sul nazismo significa operare una scelta forte: l'analisi delle griglie di lettura proposte in ambito femminista su questo nucleo cruciale funziona come un reagente chimico, che permette di evidenziare rischi e limiti e di sollecitare una riformulazione dei problemi.
Nel settembre 1992 un articolo dal titolo "La resistenza silenziosa di Eva Braun" veniva pubblicato in Emma, rivista femminista della Rft: il miracoloso ritrovamento dei diari intimi della compagna del Führer rivelava la sua tacita opposizione al nazismo, e la sua condanna del "razzismo e sessismo" quotidiani. L'aspetto più inquietante di quello che, secondo la redazione, doveva essere uno scherzo, fu la sua recezione: la generalità delle lettrici, pur nella manifesta disapprovazione, non aveva dubitato dell'autenticità dello scoop, e/o della serietà delle intenzioni della rivista[9].
Possiamo prendere questo terribile aneddoto, ricordato da Claudia Koonz[10], come un sintomo del quadro che Féminisme et nazisme si propone di turbare. Quali culture, quali pregiudizi, quali schemi hanno fatto si che si credesse che delle femministe, o presunte tali, proponessero un vistoso falso come rivelazione di una segreta e consolante verità? Come si è prodotta la fulgida e mistificante immagine, che ha abbagliato le lettrici di Emma, delle donne tutte innocenti, tutte resistenti (silenziose), infine "vittime - soltanto vittime, talvolta sole vittime - di Hitler"?.[11]
E' proprio la nozione, cruciale, di non implicazione delle donne nell'impresa nazista, per lungo tempo dominante anche in ambito femminista, che la prima sezione di testi di Féminismes et nazisme, titolata Les temps incertains, smonta: uno studio puntuale su svariate fonti storiche fa emergere una diffusa e attiva presenza femminile, che in varie forme, contribuì al consolidamento e al funzionamento del regime nazista, dalla partecipazione informale e invisibile ("femminile"? si chiede retoricamente e provocatoriamente Kandel) di moltissime "donne comuni" al sistema di espropriazione e sfruttamento in cui grande peso ebbe la pratica della delazione, fino ai casi di donne direttamente coinvolte nel sistema ideologico e materiale dello sterminio.
Le mogli delle SS che, spesso informate dell'attività dei mariti, beneficiavano in varie forme dei frutti della persecuzione (ad es., quelle che abitavano nei lager, impiegando le recluse come domestiche); le donne ausiliarie SS, formate nella scuola voluta espressamente da Himmler agli inizi del 1942; le famigerate guardiane dei campi impiegate non solo in campi femminili, ma anche nelle sezioni femminili di lager principali, compresi quelli della morte, dove - come gli uomini - erano armate, parteciparono alle selezioni ed erano a conoscenza dei gasaggi. Ad un livello "superiore" le centinaia di dirigenti femminili della Frauenwerk (Opera femminile) e della Frauenschaft (Associazione delle donne naziste) guidate da Gertrud Scholtz-Klink[12]; le intellettuali, quali la biologa Agnes Bluhm, il cui itinerario ideologico e professionale - che si muove tra la Gesellschaft für Rassenhygiene (Società d'igiene razziale) e il Bund für Mutterschutz (Lega per la protezione materna) -, è drammaticamente rappresentativo di una corrente völkisch che ha esercitato una non trascurabile influenza tanto sulla costituzione e propagazione dell'ideologia nazionalsocialista, quanto sulla genesi del movimento delle donne in Germania[13].
Da questa prima rassegna delle forme di coinvolgimento femminile emerge che il modo in cui la gerarchizzazione di genere si articolava con le discriminazioni di razza - e con altri assi di differenziazione (orientamento politico, religioso, sessuale) - era complesso, non immediatamente sovrapponibile: le distinzioni di razza (ariane/non-ariane) e le diverse forme di selezione non assegnavano a tutte le donne lo stesso "destino", né un unico ruolo. Il regime nazista non era l'indifferenziata esclusione di tutte le donne da tutte le forme di gestione del potere, ma includeva fasce determinate di esse a diversi livelli e con funzioni specifiche (da quelle interne, a diversi gradi, alla macchina di sterminio, a quelle - senz'altro meno visibili e più numerose - che, nella sfera del "privato", godevano in forme diverse dei frutti della discriminazione)[14].
Di qui, forse, l'altro problema spinoso affrontato nella prima sezione del testo: la grande difficoltà, in quegli anni, di pensare (e ancor più di agire insieme) femminismo e battaglia antifascista, antisessismo e antirazzismo. Una coniugazione sempre difficile e spesso mancata. Molti oppositori al nazismo, quali i membri della scuola di Francoforte, sottovalutarono il peso del sessismo nell'ideologia nazionalsocialista, non rinunciando per lungo tempo alle loro nostalgie, o ai loro pregiudizi, naturalisti e familisti concernenti il posto e il ruolo delle donne nella società. D'altro canto difficoltà e contraddizioni sono rintracciabili all'interno delle stesse organizzazioni femministe sia in Germania che all'estero. Da un lato situazioni estreme dove, con buona pace dell'agiografia, la sorellanza passa, letteralmente "sotto la tavola" e militanti femministe ebree sono escluse dai gruppi di cui facevano parte, o silenziosamente abbandonate alla loro sorte, dalle loro "compagne" ariane - che passarono, senza apparenti difficoltà, dall'opposizione al patriarcato al sostegno o alla collaborazione con il Terzo Reich; dall'altro una più generale impasse, come in Francia, dove i gruppi femministi, largamente impregnati di utopie pacifiste, esitarono lungamente a prendere coscienza della specificità della minaccia hitleriana, o ad opporvisi in quanto femministe. A testimonianza della possibilità di realizzare, anche in condizioni drammatiche, questa problematica coniugazione, è il caso delle resistenti austriache: nella denuncia del fascismo mussoliniano così come quello di Horthy in Ungheria, nell'opposizione - non solo verbale - all'austrofascismo prima e al nazismo dopo, donne come Käthe Leichter colsero e denunciarono tempestivamente il carattere gerarchico, sessista e antisemita del nazismo.[15]
La seconda sezione, storiografica, dal titolo una Une lecture malaisée, analizza le griglie dell'interpretazione femminista di questo periodo storico, rapportandole alle correnti di pensiero che dal dopoguerra ad oggi, soprattutto in Germania, hanno attraversato la storiografia del Terzo Reich, in un processo di interazione e influenza reciproca con quella che va sotto il nome di memoria collettiva[16].
Dalla fine degli anni Quaranta, i nuovi stati della Germania furono costretti ad affrontare una doppia esigenza: sopperire agli effetti della rottura della precedente identità nazionale e sviluppare l'integrazione nei rispettivi blocchi di appartenenza. Questo portò nella Rdt, all'assunzione del mito dello stato antifascista erede della tradizione del movimento operaio, che, estromettendo il nazismo come prodotto del capitalismo occidentale, evitava l'interrogazione intorno alle responsabilità collettive del passato, mentre nella Rft si affermò il motivo delle due dittature nazista e comunista (i "totalitarismi"): caduta la prima, la democrazia assumeva il compito di combattere la seconda[17]. Queste due distinte memorie nazionali eludono la specificità del genocidio degli ebrei e degli altri "inferiori", confusi puramente e semplicemente con i resistenti e/o con le vittime antifasciste. Questo processo coinvolgerà anche - con gradi e sfumature diverse -, varie associazioni femminili, che anzi giocano un ruolo di primo piano nelle strumentalizzazioni ideologiche.[18] All'oblio bipolare fa da contrappunto l'assenza quasi totale delle donne dalle ricerche storiche sul periodo nazista (sia come attrici che come autrici). Un'amnesia più o meno generalizzata stende un velo, solo a frammenti sollevato, sul passato: nel 1966 Alexander e Margarete Mitscherlich si interrogano sull'incapacità dei tedeschi di "elaborare il lutto".[19]
Dopo il '68 nell'ambito dell'emergente storia sociale, l'accento portato sulla vita quotidiana delle popolazioni ha tra i propri correlati, nel campo della riflessione sul periodo nazista, il privilegio conferito alle forme di resistenza e opposizione informali. Negli stessi anni, in maniera autonoma, nel movimento femminista la critica della separazione tra pubblico e privato sfocia sulla storia del quotidiano "e in particolare sulla resistenza informale, non visibile delle donne"[20]. Come occupando l'una la zona cieca dell'altra (la storia sociale del nazismo trascura le donne, la storia femminista evita il nazismo) le distinte traiettorie si disegnano nello spazio di una inconsapevole omologia.
Solo alla fine degli anni Settanta, con la diffusione televisiva dell'holliwoodiano Olocausto, "un maremoto di produzioni introduce il Terzo Reich nel teatro e nelle famiglie. Di colpo ritorna la memoria del genocidio, mentre i film cominciano a rappresentare la vita quotidiana sotto il nazismo". Ancora generalmente assenti dalla storia degli storici, è nel cinema che le donne iniziano ad assumere un ruolo centrale nella memoria del nazismo: "come Madre Coraggio, risolute e piene di risorse, i personaggi femminili erano le guardiane della famiglia e della società in un'epoca di barbarie".[21] È così riproposta la separazione tra sfera pubblica, politica (maschile) e quella della responsabilità civica, privata (femminile) separazione che, con diversa valenza, caratterizzava la logica sessista del nazismo.[22]
Quando "l'insistente assenza di un tema a lungo sotterraneo"[23] si infrange e la storiografia femminista intraprende l'esame del periodo nazista prevale, con qualche importante eccezione[24], la tendenza ad inserire l'esperienza delle donne nel quadro dell'eroismo e del resistenzialismo - anche nelle sue versioni "silenziose" -, e/o a scagionarle in blocco con la tesi dell'innocenza, che declina al femminile il tema dell'innocenza degli oppressi e, nelle tendenze improntate al femminismo culturalista e differenzialista, sancisce l'innocenza per essenza. Le donne sono innocenti "in ragione non più della loro situazione di vittime e della loro oppressione (da parte del patriarcato), ma della loro essenza - la loro bontà, socievolezza e generosità 'naturali' (o 'naturalmente' legate al loro istinto materno ...), la loro capacità infinita di dedizione, coraggio, sacrificio".[25]
Se il tema delle donne tutte resistenti, giunge a banalizzare la resistenza (attiva) che pure vide protagoniste tantissime donne, quello dell'innocenza rimanda, in ultima analisi, ad un apparato discorsivo che insiste su una dimensione altra dell'essere donna[26], su una sua originaria differenza, grazie alla quale le donne risultano in virtù della loro condizione di oppresse più buone o più vittime di altre vittime.
Questo paradigma - che attraversa diagonalmente molti ambiti disciplinari trovando man mano nuove, inedite articolazioni - giunge a coprire tutti gli aspetti del problema, diventando una chiave universale che può rendere conto di tutto: le diverse angolature, da quelle che esaltano le capacità femminili di sopravvivenza, a quelle che identificano le donne come le vere vittime designate, sottendono un identico presupposto "è in quanto donne e perché donne che le une hanno potuto sopravvivere, e le altre sono state assassinate"[27]. Attraverso un uso sovente distorto di quasi trent'anni di ricerche femministe si giunge a dimostrare che "il vissuto, le esperienze delle donne prese nella macchina nazista, le strategie di sopravvivenza, le sofferenze subite, e perfino la morte stessa, erano radicalmente differenti da quelle degli uomini"[28].
Assunta, dichiaratamente o meno, come fondamento, la differenza sessuale subordina e tende inevitabilmente a diluire o cancellare altre forme di discriminazione, portando un contributo femminile all'appiattimento della storia. "Domani i giovani saranno vecchi; i bianchi e i neri saranno caffè e latte, ma domani le donne saranno sempre delle donne"[29]: esprimendo in forma di predizione una fissità prima, inalterabile dalle evenienze della storia, questa certezza non concerne i mondi futuribili ma l'eterno. Quando presupposti di questo tipo si estendono alla ricerca storica, pretendendo di governarla, costituiscono un ostacolo epistemologico. Non soltanto è preclusa la comprensione dell'effettività storica dello sterminio - se lo consideriamo, con Hilberg, un processo complesso che ha investito l'intera società[30] - ma è risparmiata così ogni riflessione, certo priva di rassicurazioni, sulla capacità "positiva" del nazionalsocialismo di riorganizzare e filtrare istanze femminili in un nuovo ordinamento corporativo. Quest'aspetto inquietante e troppo spesso evitato concerne una dimensione storica che investe il nostro presente e i suoi possibili sviluppi: un'organizzazione neocorporativa della società può assumere la "differenza innata delle donne" come elemento funzionale.
Più in generale - non al di là di, ma attraverso ogni specifico problema affrontato - l'importanza strategica di questo testo mi sembra risiedere nella capacità di sollecitare, a partire da ricerche determinate, un'interrogazione critica delle categorie di analisi e della loro sistematizzazione teorica. Nel suo saggio introduttivo a Féminismes et nazisme, Liliane Kandel sottolinea il paradosso del femminismo: la sovrapposizione di pratica della rottura e teoria della continuità. É questo scarto che il testo si propone di riaprire puntando su una nuova messa in movimento della teoria, sperimentando un deciso rovesciamento di prospettiva. Se, di fronte all'estremo, la categoria del genere, si mostra "talvolta inefficace, talvolta inesatta, spesso crudelmente inadeguata"[31] si tratterà, a partire dalle irriducibilità della storia e da una storia critica del femminismo, di esaminare le nostre teorie, i loro limiti ponendo il problema di forzarli.
* Recensione di Liliane Kandel (a cura di), Féminismes et nazisme, en hommage à Rita Thalmann, Colloque international Cedref - Université Paris 7, Publications de l'Université Paris 7-Denis Diderot, Paris 1997, pp. 300, 120 F. Una nuova edizione di questo volume è stata pubblicata da Odile Jacob nel 2004.
[1] Eleni Varikas ha efficacemente sintetizzato i rischi di tale operazione: "Ridurre il femminismo 'francese' a certe posizioni teoriche non significa soltanto occultare il fatto che la maggior parte delle lotte femministe sono state condotte al di fuori e talvolta contro queste posizioni, non soltanto occultare le posizioni teoriche più influenti nella riflessione femminista in Francia; significa per ciò stesso impedirsi di riflettere sulle condizioni in cui queste posizioni molteplici sono emerse, sul loro rapporto con una pratica politica delle donne, su ciò che definisce la loro accettabilità o inaccettabilità sociale e accademica, sulla loro dinamica sovversiva", E. Varikas, "Féminisme, modernité, postmodernisme: pour un dialogue des deux côtés de l'océan", in Féminismes au présent, supplemento a Futur antérieur, Paris, L'Harmattan, 1993, p. 63. Christine Delphy individua nell'invenzione del French Feminism negli Usa (che riduce il femminismo francese al trittico Luce Irigaray, Helen Cixus e Julia Kristeva) una precisa strategia politica, la cui posta in gioco più immediata è stata la neutralizzazione delle ultime sacche di resistenza del femminismo radicale statunitense. Cfr. C. Delphy, "L'invention du 'French Feminism': une démarche essentielle", in Nouvelles Questions Féministes, Vol. 17, n. 1, 1996, pp. 15-57. In relazione con queste operazioni, si è sviluppato in Italia un processo omologo, non privo di modalità e tratti specifici che restano in gran parte da analizzare.
[2] Giovanissima durante l'occupazione, Rita Thalmann è l'unica sopravvissuta di una famiglia ebrea di origine tedesca sterminata dai nazisti. Autrice del fondamentale Etre femme sous le IIIème Reich, Paris, Laffont 1982, ha curato due volumi pubblicati da Tierce: Femmes et fascismes (1986) e La tentation nationaliste (1990). Oltre a numerosi saggi e articoli ricordo la rivista da lei diretta (nata a ridosso del seminario) Sexe et Race: discours et formes nouvelles d'exclusion au 20ème siècle.
[2] Giovanissima durante l'occupazione, Rita Thalmann è l'unica sopravvissuta di una famiglia ebrea di origine tedesca sterminata dai nazisti. Autrice del fondamentale Etre femme sous le IIIème Reich, Paris, Laffont 1982, ha curato due volumi pubblicati da Tierce: Femmes et fascismes (1986) e La tentation nationaliste (1990). Oltre a numerosi saggi e articoli ricordo la rivista da lei diretta (nata a ridosso del seminario) Sexe et Race: discours et formes nouvelles d'exclusion au 20ème siècle.
[4] Per una problematizzazione storica e teorica del termine "sessismo" e dei limiti della comparazione con "razzismo" si veda Marie-Josèphe Dhavernas e Liliane Kandel, "Le sexisme comme réalité et comme représentation", in Les Temps Modernes, n. 444, juillet 1983, p. 3-27 e, delle stesse autrici, la voce "Sexisme", in Encyclopédie philosophique universelle, tomo II, Paris, Puf, 1990. Indicativo della "originaria" sovrapposizione di sessismo e razzismo negli Stati Uniti, è un testo molto conosciuto anche in Italia : Shulamith Firestone, The Dialectic of Sex. The Case for Feminist Revolution, New York, William Morrow and Company, 1970, tr. it., La dialettica dei sessi. Autoritarismo maschile e società tardo capitalistica, Firenze, Guaraldi,
[10] Si veda Claudia Koonz, "Les femmes, le nazisme et la banalité du mal", in Féminismes et nazisme, cit., pp. 204-213.
15] Oltre al saggio di Paul Pasteur, "Les sociales-démocrates face à l'austrofascisme et au nazisme", in Féminismes et nazisme, cit., pp. 132-147, si vedano anche gli articoli dello stesso e di Rita Thalmann in Austriaca, n. 17, 1983.
20] Liliane Kandel, "Femmes, féminismes, nazisme, ou: on ne naît pas innocent(e), on le devient", cit., p. 19. Sulle torsioni subite dall'originaria affermazione femminista "il personale è politico" si veda Liliane Kandel, "Du politique au personnell: le prix d'une illusion", in Crises de la société, féminisme et changemment, Colloque Gef, Paris, Tierce, 1991.
[21] Claudia Koonz, Les femmes, le nazisme et la banalité du mal, in Féminismes et nazisme, p. 209. Koonz sottolinea che un gran numero di film realizzati nella Rft (da cineasti uomini) rappresentano le donne come innocenti e non implicate nei crimini nazisti. Si veda la trilogia di Fassbinder, Lilli Marleen, Maria Braun e Veronika Voss che mette in scena donne non toccate né dall'ideologia nazista, né dalla politica in genere; così come taluni film di cineaste quali Deutschland bleiche Mutter (Germania pallida madre) di Helma Sanders-Brahms.
[22] Su questo aspetto del nazionalsocialismo si veda Rita Thalmann, "Le national-socialisme: logique extrême du monopole culturel masculin", Revue d'en face, n. 14, 1983, pp. 45-55.
[23] Liliane Kandel, "Une pensée empêchée: des usages du 'genre', et de quelques-unes de ses limites", Les Temps Modernes, n. 587, 1996, pp. 220-248, p. 221. Kandel fa qui riferimento al massiccio impiego in ambito femminista di metafore che rimandano al regime nazista (le nuove tecniche riproduttive costituiscono la "soluzione finale" alla questione delle donne, i processi per stregoneria un "ginocidio" etc.) Oltre il rischio della banalizzazione, su cui è il caso di riflettere in tempi di imperante revisionismo, l'uso di metafore improntate al periodo nazista è tristemente omologo a quello compiuto dagli oppositori all'aborto, nemici giurati dell'autodeterminazione delle donne: la pillola abortiva Ru 486 è "lo Zyklon B moderno", l'interruzione volontaria di gravidanza è "il nuovo olocausto", le Ntr "deportazioni contro natura". Il capostipite di questo stile può essere rinvenuto in William Brennan, The Abortion Holocaust. Today's final solution, Saint Louis, Landmark Press, 1983. Per una analisi di queste metafore nei gruppi antiabortisti in Francia si veda Fiammetta Venner, "'Hitler a tué seulement six milions de juifs'. Sur le discours des adversaires de l'avortement", Mots, n. 44, 1995, pp. 57-69. In Italia queste metafore sono state usate anche da alte cariche dello stato e da rappresentanti dei vertici della chiesa. Due esempi: Antonio Guidi, all'indomani della sua nomina a ministro della famiglia per il governo Berlusconi dichiara che "l'interruzione di gravidanza alla più piccola malformazione è l'anticamera della selezione nazista della razza", si veda Paola Tavella, "Guidi straparla", Il Manifesto, 19.5.94, p. 7; più recentemente l'arcivescovo di Bologna Biffi, nel celebrare "la giornata della vita" ha definito l'aborto "massima vergogna del '900 che pure ha conosciuto le più orrende infamie della storia, come i molti e diversi genocidi che sono stati perpetrati", si veda Andrea Chiarini, "L'aborto peggio dei lager. Il cardinal Biffi all'attacco", La Repubblica , 1.2.98, p. 25.
[24] Rinvio all'introduzione all'edizione italiana del già citato volume di Claudia Koonz per un esaustivo resoconto degli studi femministi pioneristici su queste questioni. La discussione femminista su questi temi ha recentemente dato luogo ad accese polemiche, tra le quali paradigmatica è quella che ha contrapposto Claudia Koonz e Gisela Bock, che trova ampio resoconto in Féminismes et nazisme, e quella che ha accompagnato l'uscita del film di Helke Sander BeFreier und BeFreite (1991), riguardo alla quale si veda il dossier "Femmes et guerres" in Cahier du Grif, "Chair et Viande", 1996, pp.111-140.
[25] Liliane Kandel, "Femmes, féminismes, nazisme, ou: on ne naît pas innocent(e), on le devient", cit., p. 18.
[22] Su questo aspetto del nazionalsocialismo si veda Rita Thalmann, "Le national-socialisme: logique extrême du monopole culturel masculin", Revue d'en face, n. 14, 1983, pp. 45-55.
[23] Liliane Kandel, "Une pensée empêchée: des usages du 'genre', et de quelques-unes de ses limites", Les Temps Modernes, n. 587, 1996, pp. 220-248, p. 221. Kandel fa qui riferimento al massiccio impiego in ambito femminista di metafore che rimandano al regime nazista (le nuove tecniche riproduttive costituiscono la "soluzione finale" alla questione delle donne, i processi per stregoneria un "ginocidio" etc.) Oltre il rischio della banalizzazione, su cui è il caso di riflettere in tempi di imperante revisionismo, l'uso di metafore improntate al periodo nazista è tristemente omologo a quello compiuto dagli oppositori all'aborto, nemici giurati dell'autodeterminazione delle donne: la pillola abortiva Ru 486 è "lo Zyklon B moderno", l'interruzione volontaria di gravidanza è "il nuovo olocausto", le Ntr "deportazioni contro natura". Il capostipite di questo stile può essere rinvenuto in William Brennan, The Abortion Holocaust. Today's final solution, Saint Louis, Landmark Press, 1983. Per una analisi di queste metafore nei gruppi antiabortisti in Francia si veda Fiammetta Venner, "'Hitler a tué seulement six milions de juifs'. Sur le discours des adversaires de l'avortement", Mots, n. 44, 1995, pp. 57-
[24] Rinvio all'introduzione all'edizione italiana del già citato volume di Claudia Koonz per un esaustivo resoconto degli studi femministi pioneristici su queste questioni. La discussione femminista su questi temi ha recentemente dato luogo ad accese polemiche, tra le quali paradigmatica è quella che ha contrapposto Claudia Koonz e Gisela Bock, che trova ampio resoconto in Féminismes et nazisme, e quella che ha accompagnato l'uscita del film di Helke Sander BeFreier und BeFreite (1991), riguardo alla quale si veda il dossier "Femmes et guerres" in Cahier du Grif, "Chair et Viande", 1996, pp.111-140.
[25] Liliane Kandel, "Femmes, féminismes, nazisme, ou: on ne naît pas innocent(e), on le devient", cit., p. 18.
[31] Liliane Kandel, "Femmes, féminismes, nazisme, ou: on ne naît pas innocent(e), on le devient", cit., p. 24.