giovedì 30 ottobre 2008

Kebedech Seyoum e le altre. Donne in guerra contro l'invasione coloniale italiana

Si sa che la privazione della memoria delle lotte passate e contemporanee è una forma di dominazione. Questa ha investito (e investe) soprattutto le lotte delle donne, basti pensare alla partecipazione delle donne italiane alla Resistenza, per lungo tempo disconosciuta o ridotta in termini di "aiuto" e di "contributo" al movimento di liberazione (inteso "maschile"), situazione ben riassunta da un libro del 1976, La Resistenza taciuta.
Negli ultimi decenni il lavoro e la riflessione femminista (storica e non solo) ha invece messo in luce l'importanza del ruolo svolto dalle donne nella lotta contro il nazifascismo. Cercando di uscire dall'agiografia (dominante dal dopoguerra fino agli anni 60), la ricerca femminista ha mostrato come, al di là di alcune figure esemplari spesso restituite in termini fortemente retorici (pensiamo alla gappista Irma Bandiera "eroina purissima degna delle virtù delle italiche donne"), la partecipazione delle donne (lesbiche, ebree, jugoslave ...) alla Resistenza fu molto più massiccia di quanto si potesse comprendere attenendosi ai soli dati numerici che concernevano le donne impegnate in attività "organizzate" ( nei gruppi combattenti, nei Gruppi di difesa della donna ...), o le donne perseguite, imprigionate, torturate, massacrate o deportate.
Era necessario considerare non solo queste donne (la maggioranza delle quali non rientrava comunque nei criteri molto rigidi adottati alla Liberazione per il riconoscimento del titolo di resistente), ma anche la grande massa anonima delle donne che avevano aiutato i partigiani, i disertori, gli/le ebrei/e ... Del resto è chiaro che senza questo largo tessuto di sostegno, costituito principalmente da donne, la lotta partigiana stessa non sarebbe stata possibile. E' stata dunque incoraggiata l'introduzione della categoria di "resistenza civile" (elaborata da Jacques Sémelin in un contesto differente), uno strumento di analisi che ha permesso di comprendere la molteplicità delle condotte, non immediatamente riconducibili alla resistenza "armata" o "organizzata". Malgrado l'interesse di queste ricerche i rischi derivanti dall'assunzione di questa categoria non sono trascurabili, basti pensare a quel processo di estensione del concento di "resistenza civile" che ha portato all'inclusione nelle "pratiche di resistenza" di pratiche che potremmo definire di "sopravvivenza (tipo sfidare il coprifuoco per la ricerca di cibo). E' chiaro che in questo modo si finisce per "banalizzare" (o mettere in ombra) la lotta di quelle donne che, anche con armi in pugno, hanno fatto qualcosa di più che "sopravvivere", spesso anzi pagando con la vita il loro impegno militante. Ma si rischia anche di produrre una versione femminile del "siamo tutti resistenti ", altra faccia del mito "italiani, brava gente". Rischio che mi sembra tanto più reale, se si pensa al fatto che molte di queste ricerche, privilegiando il periodo 1943-1945, eludono una riflessione sul consenso, anche femminile, al fascismo durante il "ventennio" e sulla partecipazione delle donne a gruppi e organizzazioni fasciste.
Ma su queste questioni avremo modo di ritornare durante l'incontro promosso dal Laboratorio femminista Kebedech Seyoum a Bologna in occasione del 64 anniversario della battaglia di Porta Lame il 7 novembre (iniziativa di cui presto posterò qui il programma completo). Per intanto mi preme riprendere la questione che ponevo all'inizio di questo post, ovvero di come la privazione della memoria delle lotte passate e contemporanee è una forma di dominazione. E' chiaro che questo processo diviene vera e propria rimozione quando queste lotte riguardano donne di altri contesti nazionali, soprattutto se, come nel caso delle donne resistenti etiopi che lottarono contro l'invasione coloniale italiana, questa rimozione si intreccia con la smemoratezza (voluta e imposta) delle imprese coloniali fasciste e con l'immaginario sessista e razzista (tuttora operante, si pensi a molti dei discorsi sulle "migranti") che vuole le donne (in specie "non bianche") come vittime passive e consenzienti (e magari anche "felici").
La conoscenza del passato, della storia, di "questa" storia, che come sottolinea Gabriella Ghermandi nel suo Regina di fiori e di perle, "è anche la nostra", la conoscenza di queste ed altre "resistenze", di un passato di lotte che come donne ci ha viste protagoniste o comunque coinvolte, (pur se non sempre dallo stesso lato della "barricata"), ci sembra essenziale per mettere a punto nuove pratiche di resistenza per opporci efficacemente al fascismo, al razzismo e al sessismo nelle loro attuali articolazioni.
In molt* mi hanno chiesto negli ultimi mesi il perchè del nome Laboratorio femminista Kebedech Seyoum, spero di aver risposto almeno in parte. In molt* hanno anche lamentato la difficoltà di reperire foto e materiali sulla partecipazione delle donne etiopi nella lotta contro l'impresa coloniale italiana. Un ricco dossier è disponibile on line nel sito della Ossrea, con sede ad Addis Abeba. Ci sono molte informazioni su Kebedech Seyoum e su altre resistenti, sia per quanto riguarda il periodo dell'impresa coloniale fascista degli anni 30, che per la fase precedente culminata nella sconfitta dell'esercito italiano ad Adua. Ricchissima la bibliografia in appendice. Grazie ancora a Gabriella Ghermandi per la preziosa segnalazione.

La foto che illustra questo post è stata scattata nell'isola dell'Asinara. La donna che vi /ci guarda è Yodbar Gebru, musicista di fama internazionale. Nata il 12 dicembre 1923 ad Addis Abeba in un'agiata famiglia, all'età di sei anni si reca in Svizzera con la sorella , dove studia violino e pianoforte. Nel 33 torna in Etiopia, ma nel 37 - appena quattordicenne - , viene fatta prigioniera e poi deportata con il resto della famiglia prima sull'isola dell'Asinara poi a Mercogliano, vicino Napoli. Il destino di molte è stato molto più terribile.
Qui invece trovate la foto di un gruppo di veterane, scattata ad Addis Abeba nel 1973, durante una cerimonia di commemorazione della vittoria contro l'invasore italiano.


lunedì 27 ottobre 2008

Colette Guillaumin: La colère des opprimées

Est-ce que la théorie est une place forte? Ou est-ce qu'elle est une chassa gardée? Ou bien plutôt qu'est-ce que la théorie? Les minoritaires - et on entendra ici par minoritaires non ceux qui seraient forcement en nombre moindre mais bien ceux qui dans une société sont en état de moindre pouvoir, que ce pouvoir soit économique, juridique, politique ... les minoritaires donc, dans quelque société que ce soit, sont dans une position singulière en ce qui concerne les productions intellectuelles: le plus souvent ils haïssent la théorie, la connaissant pour ce qu'elle est, le verbiage sacerdotal de ceux qui qui les dominent, ce qui sort de la tête et de la bouche de ceux qui disposent de la force (outils, armes concrètes, police, armée) et de la nourriture (salaires, terres, biens ...). Dans la relation majoritaire/minoritaire la force, les biens et la liberté individuelle qui en découlent étant des caractéristiques du dominant, l'expression institutionnalisée de sa conscience et de sa vue de la situation est la seule a être publiée, diffusée, et glosée. Cela alors se nomme "théorie". De plein droit. Qu'ils aient nom Malthus ou Hegel, Comte ou Gobineau, ou qu'ils aient été, bien avant eux, les théologiens, ils produisent ce qui pour les minoritaires est un cauchemar, eux qui ne savent d'ailleurs même pas le plus souvent les détails académiques de l'affaire, se contentant de connaître, en pratique et quotidiennement, par la contrainte, par le mépris subi, par la faim, que le place ils n'en ont que soumise toujours, mortelle parfois. Place du silence, de l'infériorité, de la menace diffuse. Menace à certains moments effroyablement précise, dans le coups, le meurtre. Et toujours à chaque instant le travail à fournir, la présence à ne pas faillir, l'attention à ne pas relâcher. Alors ne peuvent parler que l'amertume et la fureur; la pensée qui s'élabore, la, jamais n'est appelée théorie. Langage d'invective, de sarcasme, de passion refrénée. D'ironie et de noir blasphème, ou bien de désespoir blessé. [Colette Guillaumin, "Femmes et théories de la société: remarques sur les effets théoriques de la colère des opprimées" (1981), in Sexe, Race et Pratique du pouvoir ]
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giovedì 23 ottobre 2008

Tra sessismo e razzismo: ricordo dell'Africa Orientale

Per una ricostruzione "per immagini" di alcuni aspetti del passato coloniale italiano: di fianco una delle cartoline della serie Africa Orientale disegnata da Enrico De Seta, dal titolo Ufficio Postale (1935-36). La didascalia recita: "Vorrei spedire ad un mio amico questo ricordo dell'Africa Orientale ...".
Le cartoline di De Seta , violentemente razziste e sessiste, insistono sul tema già altrove collaudato delle donne e delle vittorie "facili". Gli uomini africani sono "sotto-uomini", bestie, insetti o parassiti che si possono sterminare con un insetticida, "l'arma più opportuna" come recita la cartolina Armamenti. Le donne sono facili prede, che si possono acquistare al mercato o spedire come un pacco, irrimediabilmente sottomesse al colonizzatore italiano, esponente della "razza superiore". Anche la lunga tradizione di donne guerriere viene ridicolizzata in cartoline come Esercito abissino e Donne guerriere ("Allegri ragazzi ... Sotto, al corpo a corpo! ... ). Nonostante ciò la serie (originariamente destinata alle truppe in Africa Orientale), viene rifiutata dagli alti comandi, poiché le autorità non gradiscono il fatto che queste cartoline finiscano comunque per incoraggiare le cosiddette "unioni miste". La politica sessuale nelle colonie africane sta cambiando, con il decreto dell'aprile 1937 i rapporti sessuali interrazziali saranno definitivamente proibiti.

Questa ed altre cartoline di De Seta sono reperibili nel catalogo della mostra La menzogna della razza, a cura del Centro Furio Jesi.
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venerdì 17 ottobre 2008

Miti e smemoratezze del passato coloniale italiano


Di seguito trovate il mio articolo Miti e smemoratezze del passato coloniale italiano, da poco pubblicato nel primo numero della rivista ControStorie, Razzismo_Genere_Classe. Nei prossimi giorni comincerò a postare man mano qui in Marginalia gli altri articoli del n°1 di questa nuova rivista: un grazie alla redazione che offre a me l'opportunità di metterli on line e a voi di leggerli. Dovrebbe essere superfluo ricordarlo, ma il continuo saccheggio di quanto scrivo e pubblico mi obbliga a farlo: credere nella condivisone di pratiche e saperi ed essere sostenitori del free-copy (come Marginalia) non significa che tutti e tutte sono autorizzat* a scopiazzare senza indicazione di nomi e fonte ... Comme ça c'est clair?


Miti e smemoratezze del passato coloniale italiano


Come sottolinea Nicola Labanca1, è negli elenchi stradali italiani che permane il ricordo – altrove rimosso – delle imprese coloniali dell'Italia unita: una piazza Adua, un corso Tripoli o una via Mogadiscio, sono frequenti nella toponomastica non immemore delle nostre città. Più difficile sembra, invece, trovare qualcuno/a capace di spiegarcene il senso. Ai più sfugge, ad esempio, il legame tra una “via Libia” - che a Bologna costeggia un quartiere familiarmente detto “della Cirenaica”2 – e i ripetuti tentativi di “conquista” di queste terre da parte dell'Italia liberale prima e di quella fascista poi.

Chi ricorda la spietata rappresaglia italiana all'indomani della sconfitta subita a Sciara Sciat (villaggio alle porte di Tripoli) ad opera dei ribelli libici nel 1911, la “caccia all'arabo” che si scatenò tra le vie della capitale con impiccagioni collettive nella centrale Piazza del Pane e deportazioni di massa verso l'Italia che durarono almeno fino al 1916? Qui (nelle prigioni delle Isole Tremiti, di Favignana, di Gaeta, di Ponza, di Ustica...) coloro che non erano morti nella traversata, morirono in gran numero per le condizioni inumane di prigionia, le malattie non curate, il lavoro forzato e i maltrattamenti. A tutt'oggi, scrive Angelo Del Boca, “ci sono famiglie in Libia che vorrebbero almeno sapere dove sono sepolti i loro cari”3.

E chi ricorda – ancora –, durante la “riconquista” della Libia negli anni 30, le rappresaglie, le distruzioni sistematiche, le deportazioni di massa di civili (che causarono 60 000 morti nella sola Cirenaica, anche bambini/e), l'impiccagione, tra gli altri, il 16 settembre 1931 – in spregio ad ogni convenzione internazionale – di Omar el Mukhtar, uno dei capi della resistenza locale?

I responsabili di questi ed altri crimini dell'impresa coloniale italiana non hanno mai pagato. E credo non si possa più tollerare che a pagare siano – ancor oggi – le vittime, con un prezzo che si chiama oblio, cancellazione, rimozione. Si chiama mito degli “italiani, brava gente”.

Un mito secondo il quale il colonialismo italiano è stato, a confronto di altri colonialismi coevi, buono, umano e tollerante. Un colonialismo, come scrive efficacemente Paola Tabet, “all'acqua di rose”4. Un mito talmente persistente che neanche i puntuali studi storiografici – a partire dall'opera pioniera di Del Boca alle importanti ricerche degli ultimi decenni di giovani storici e storiche5 – , sono riusciti realmente a scalfire. Più facile, o forse comodo, introiettare un mito che è insieme tranquillizzante e autoassolutorio piuttosto che farsi carico della consapevolezza di questo ingombrante passato che getterebbe, certo, una luce troppo inquietante sul presente6.

Questo mito è frutto di un lungo processo di rimozione, perseguito tra l'altro con tenacia già all'indomani della firma del trattato di pace di Parigi il 10 febbraio 1947 che privava per sempre l'Italia delle colonie, quando lo stato italiano anziché avviare un dibattito sul colonialismo, cercò di occultare e distorcere con ogni mezzo la realtà. Ne è un esempio la pubblicazione in cinquanta volumi, a cura del ministero degli Affari Esteri, dell'opera L'Italia in Africa. Spacciata come una sintesi e un bilancio delle presenza italiana nelle colonie, si rivela invece come una colossale mistificazione atta a esaltare i meriti della colonizzazione italiana.7

Indubbiamente rispetto ad altri colonialismi coevi, il colonialismo italiano presenta alcune “diversità”. Anzitutto l'Italia era stata unificata da appena un ventennio quando – fra il 1882 e il 1885 – fece le sue prime esperienze coloniali, che ebbero la loro fase culminante in anni in cui altre imprese coloniali dovevano già fare i conti con il processo di decolonizzazione. Fu anche un'esperienza circoscritta nel tempo, poco più di 60 anni : dal 1982 in Eritrea, dal 1889 in Somalia, dal 1911 in Libia e dal 1935 in Etiopia e tutte potevano dirsi concluse nel 1943, come anche il “protettorato”in Albania e le colonie nelle Isole Sporadi meridionali (dette impropriamente Isole Egee), storia coloniale tra le più dimenticate8. Inoltre, rispetto ai ben più vasti imperi di altre potenze – si pensi all'Inghilterra o alla Francia – le colonie italiane erano anche circoscritte geograficamente, e più “povere”, quindi economicamente meno vantaggiose. Infine, fin dalle origini, il colonialismo italiano si caratterizzò per un'assoluta ignoranza del territorio e delle popolazioni che vi abitavano considerate barbare, inette e militarmente incapaci, sottovalutando di conseguenza anche le loro capacità di resistenza. Queste le ragioni che portarono, ad esempio, alla celebre sconfitta di Adua, quando l'esercito guidato dall'imperatore Menelik II e dall'imperatrice Taitù Zeetiopia Berean – figura mitica di donna guerriera, che anticipa altre celebri resistenti come Kebedech Seyoum9 – infligge agli italiani quella che è unanimemente considerata la più grande sconfitta mai subita dai colonizzatori “bianchi” in Africa, intaccando per sempre “i reticolati del più vasto campo di concentramento della terra”10 Ma queste diversità non hanno determinato una minore “brutalità” dell'impresa coloniale italiana, come il mito degli italiani brava gente vorrebbe farci credere.

Semmai l'Italia, giunta in ritardo sullo scacchiere coloniale, poteva vantare su una lunga tradizione di “razzismo interno”, che trovò il suo culmine nella cosiddetta “guerra al brigantaggio”, che come ci ricorda Del Boca “ fu anche 'una guerra coloniale', che anticipò, per le inaudite violenze e il disprezzo per gli avversari, quelle combattute in seguito in Africa. Non fu forse il generale d'armata Enrico Cialdini, luogotenente di re Vittorio Emanuele II a Napoli, a dichiarare: 'Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele'?”11.

Latte e miele che non impedirono certo i massacri e le deportazioni, gli inferni delle carceri eritree – e tra queste la famigerata Nocra – , il lavoro forzato in Somalia – chiamato dai Somali “schiavismo bianco” –, i campi di concentramento in Libia, l'uso massiccio di gas come fosgene e iprite – già vietati dalla Convenzione di Ginevra – per piegare la resistenza etiopica, la strage, tra le altre, di Debrà Libanòs o la feroce rappresaglia che si scatenò per le vie di Addis Abeba in seguito all'attentato, il 19 febbraio 1937 al viceré d'Etiopia maresciallo Rodolfo Graziani12. Senza dimenticare la politica di segregazione razziale e di “difesa del prestigio della razza” imposta dal regime fascista in Africa a partire dal 36, con la proibizione assoluta di rapporti sessuali interrazziali nella cosiddetta colonia per maschi”13. Un aspetto questo essenziale per un'analisi delle articolazioni – anche odierne – del sessismo e del razzismo.

L'immagine della donna “indigena”, esotica, disponibile e voluttuosa era stato uno dei cliché massicciamente diffusi nei primi anni della conquista coloniale italiana – anche attraverso una serie di cartoline che ebbero larga diffusione -, funzionando come una sorta di “richiamo erotico” per i colonizzatori, secondo la sovrapposizione simbolica della conquista sessuale con quella coloniale già collaudata in altri contesti nazionali. Per i primi quarant'anni il cosiddetto madamato viene largamente tollerato mentre la presenza delle donne “bianche” in colonia è generalmente scoraggiata . Ma a partire dalla proclamazione dell'Impero le “unioni miste” (sia nella forma del madamato che del matrimonio) cominceranno ad essere osteggiate fino ad essere proibite del tutto con il decreto dell'aprile 1937 e mentre la prostituzione subisce un'impennata la presenza delle donne “bianche” in colonia – come mogli, anche potenziali dei “cittadini bianchi” - comincia ad essere incoraggiata fortemente. In questo modo si realizza da una parte “l'ufficializzazione della percezione delle donne native come prostitute”14 e dall'altra la celebrazione ulteriore della donna “bianca” come moglie e madre. Del resto queste ultime sono le uniche a poter accedere allo statuto di “donna”, le altre sono “femmine”, come scrive un ex colono italiano nelle sue memorie: “Femmine ce ne sono in colonia, nere esuberanti e generose; mancano le donne, le quali non possono essere che bianche”15


1Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell'espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002, p. 7

2La Cirenaica, insieme alla Tripolitania, è stata una delle regioni libiche che ha maggiormente subito l'invasione coloniale italiana.

3Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005, p. 115.

4Paola Tabet, La pelle giusta, Einaudi, Torino 1997, p. VII.

5Impossibile fornire nel contesto di questo breve articolo, una bibliografia esaustiva. Mi limiterò a segnalare alcuni testi di Angelo del Boca, tra i quali i quattro volumi de Gli italiani in Africa orientale editi da Laterza (Dall'unità alla marcia su Roma, 1976; La conquista dell'impero, 1979; La caduta dell'Impero, 1981; Nostalgia delle colonie, 1984) e L'Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte, Laterza, Bari 1992; i testi di Giorgio Rochat, Il colonialismo italiano, Loescher, Torino 1973 e “L'impiego dei gas nella guerra d'Etiopia. 1935-1936”, in Rivista di storia contemporanea, n. 1, 1988, p. 74-109; il volume di Nicola Labanca, In marcia verso Adua, Einaudi, Torino 1993. Per quanto riguarda la lettura delle vicende coloniali italiane in una prospettiva di genere, ricordo il saggio di Gabriella Campassi, “Il madamato in A.O: relazioni tra italiani e indigene come forma di aggressione coloniale”, in Miscellanea di storia delle esplorazioni, XII (1987) e i volumi di Giulia Barrera, Dangerous liaisons. Colonial Concubinage in Eritrea, 1890-1941, Evanstone (Illinois), Northwestern University 1996 e Barbara Sòrgoni, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interraziali nella colonia Eritrea (1890-1941), Liguori, Napoli 1998. Vorrei inoltre ricordare, a quasi tre anni dalla morte, Riccardo Bonavita con il suo saggio “Lo sguardo dall'alto. Le forme della razzizzazione nei romanzi coloniali e nella narrativa esotica”, in Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza, Grafis, Bologna 1994.

6Mi sembra di poter cogliere un sintomo di questa rimozione anche nel linguaggio cosiddetto “critico” o “militante”, dove la tendenza – oramai consolidata – all'uso di metafore o immagini che rinviano al passato per descrivere o contestare il presente, solo in rare eccezioni trova nell'impresa coloniale italiana un utile serbatoio dal quale attingere. I recenti “rastrellamenti” di migranti sui mezzi pubblici in diverse città italiane come anche l'odioso atto di razzismo di un capotreno contro una passeggera migrante, hanno evocato il segregazionismo nell'America razzista del secolo scorso o l'aphartheid sudafricano, ma non la politica di segregazione razziale imposta dall'Italia fascista a partire dal 36 nelle sue colonie africane.

7Cfr. Angelo Del Boca, “Gli studi storici e il colonialismo italiano”, prefazione a Enrico Castelli ( a cura di), Immagini&colonie, Centro documentazione del museo etnografico Tamburo Parlante, Montone 1998, pp. 7-8.

8Nicholas Doumanis (1997), Una faccia, una razza. Le colonie italiane nell'Egeo, Bologna, Il Mulino, 2003

9A Kebedech Seyoum, splendida combattente durante l'occupazione fascista dell'Etiopia, Gabriella Ghermandi dedica una delle sue “storie” nel bellissimo Regina di fiori e di perle, Donzelli, Roma 2007.

10Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. Dall'unità alla marcia su Roma, op. cit., p. 701.

11Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, op. cit., p. 57.

12Tre giorni di vera e propria “caccia all'uomo”(uomini, donne, bambini/e) che provocò, a seconda delle fonti, da un minimo di 1400 a un massimo di 30 mila morti.

13Giulietta Stefani, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, Ombre Corte, Verona 2007.

14 Barbara Sòrgoni, Parole e corpi, op. cit., p. 244.

15 Ibidem.


mercoledì 15 ottobre 2008

Non è il Nobel (e neanche l'Oscar), comunque a Marginalia è stato conferito un premio ...

... e mi fa piacere;-)
So che molt* giudicano (magari a ragione) questi premi come un inutile divertissement (anche nel senso di détournement) tra blogger, ultima frontiera delle catene di sant'Antonio e che mal si addice a un blog "serio". Sarà. Eppure, passato il primo attimo di imbarazzo, eccomi qui ad accetttare (poco tempo per spiegarvi i perché e i percome) e rilanciare , seguendo scrupolosamente le istruzioni (indicare in un post chi ti ha conferito il premio, conferirlo a tua volta ad almeno 7 blogger e avvertirli della lieta novella. Tutto va ovviamente fatto con i consueti link d'ordinanza). Dunque eseguo:
Grazie a Ventodamare per avermi assegnato il Brillante Weblog live (il premio si chiama così), una maniera molto carina di festeggiare il nostro incontro: ci eravamo persi di vista da circa una ventina d'anni (Enzo è quel che si dice un amico d'infanzia ;-) ciò che spiega, spero solo in parte, la generosità) ...
Il mio primo premio va a Paola Guazzo e al suo La nuova Towanda, inutile dire che la/lo adoro. Il suo post Time out sulle lesbiche confinate, già da solo merita un premio ...
E poi ad Incidenze, perchè sa realmente incidere, pur se l'incidenza che maggiormente di lui apprezzo e auspico è quella nel discorso filosofico piuttosto che in quello bloggesco ...
E un premio anche al blog No, no e poi no (Vat) perchè ce n' è davvero tanto bisogno e spero che il premio faccia venir voglia di tornare ad aggiornarlo ...
Per associazione di idee, un premio lo conferisco anche a No Vat - Facciamo Breccia e ad una delle sue attiviste, Graziella Bertozzo, che è stata quella che ha maggiormente subito le conseguenze della stupidità degli/delle Itali. E a questo proposito un gesto concreto di solidarietà non guasterebbe ...
E sulla scia della solidarietà (politica) un premio al blog dell'Assemblea Antifascista Permanente, perché offre strumenti indispensabili per opporsi al (e proteggersi dal) neo-fascismo spesso violento e squadristra. E che per questi strumenti di difesa è finito sotto indagine per istigazione a delinquere ...
E un'altro a L'Ombroso, blog che mi è stato segnalato non poco tempo fa da una cara amica, Martina Guerrini, in un momento in cui ero veramente molto ombrosa. Dopo mi sono sentita un pochino meglio ...
E un premio anche al blog di Gennaro Carotenuto, perchè insegna giornalismo e non risparmia critiche ai/alle giornalist* soprattutto quando fomentano razzismo e ignoranza, dà spazio a chi ha voglia di dire qualcosa, e soprattutto dice molte delle cose che vanno dette e sa come dirle/scriverle ...
Infine un premio a tutti i blog/siti segnalati nelle rubriche del mio blogroll, Eppur si muove ..., Segnaletica, Le amicheee e Altr* blog e soprattutto a quant* hanno speso un po' del loro tempo per confrontarsi/scontrarsi qui in Marginalia. Mi spiace non citarli tutti, ma loro sanno di esserci ...
Mi permetto di sollevare i blog da me premiati dall'obbligo di continuare "la catena" se non lo ritengono necessario/utile, so che il tempo è poco e prezioso. E abbiamo tanto da fare fuori dal web...
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lunedì 13 ottobre 2008

ControStorie: Razzismo, genere, classe



Editoriale

Alex Gaudillière, La nuova destra
Leila Soula, Scioperi per documenti
Nina Ferrante, Contro l'essenzialismo culturale
A. G, Angela Davis: la forza, l'intelligenza, l'energia che trasmette
Chris Harman, Schiavitù e razzismo (traduzione dall'inglese di Stefano Gioffrè)
Vincenza Perilli, Miti e smemoratezze del passato coloniale italiano
Valentina Quaresima, Laicità o persecuzione religiosa?
Barbara De Vivo, Velare, svelare: il razzismo nella Franca coloniale e postcoloniale

Altre storie

Mouvement des Indigènes de la République, Siamo gli indigeni della Repubblica (traduzione dal francese di Barbara De Vivo)
Elsa Dorlin, Performa il tuo genere, performa la tua razza! (traduzione dal francese di Brune Seban)

Impaginazione: Brune Seban; Grafica: Lorenzo De Vivo; Illustrazioni: Linda Vignato

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E mentre scrivo ( forse scriviamo decisamente troppo) apprendo che a Varese una ragazzina è stata vittima , tra l'indifferenza generale, di un violento pestaggio da parte di una trentina di compagn* di scuola, pestaggio (come oramai è regola) condito da insulti razzisti quali "marocchina di merda". Sembra che l'aggressione sia l'atto conclusivo di un "alterco" scoppiato in autobus il giorno prima quando lei si era rifiutata di cedere il posto a sedere. Pensare a Rosa Parks è troppo facile, ma forse utile.
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venerdì 10 ottobre 2008

Ehi Mambro, mambo italiano, ehi Mambro, mambo italiano ...



Stridente associazione di idee : Mambo italiano cantata da Miranda Martino (o se preferite la versione inglese di Rosemary Clooney), l'omonima commedia del canadese Emile Goudreault sul coming out di un giovane gay di origini italiane (in very real&genuine&veracious famiglia italo-americana spaghetti-mamma-pummarò-pizza-San Gennaro ...) e le ultime esternazioni di Imma Battaglia, presidente di Di'Gay Project Onlus, che ha espresso solidarietà a Francesca Mambro, terrorista dei Nar, condannata per la strage della stazione di Bologna, ma che in questi giorni ha ottenuto la libertà condizionale ( e nel 2013 sarà libera ) *:

"Contrariamente alle polemiche innescate da Mario Adinolfi penso che da parte della Mambro e di Fioravanti ci sia stata una evoluzione positiva della loro esperienza. Mi piace ricordare che in occasione del Wolrd Pride del 2000 Mambro e Fioravanti hanno saputo dialogare con le posizioni più estremiste contrarie alla manifestazione gay, mostrando non solo coraggio, ma l’intelligenza di essere al corteo dell’orgoglio gay e di sapere parlare a tanti giovani di estrema destra o di destra, ma anche a tanti giovani di sinistra. Quindi rispetto alle polemiche di queste ore trovo giusto esprimere la mia solidarietà alla Mambro" (I. Battaglia, Solidarietà alla Mambro)".

Stridente associazione di idee offerta in meditazione a coloro che un mesetto fa, su un mensile molto gay-fashion (mi dicono), hanno definito "militonti sedicenti antagonisti" incapaci di "saper leggere i più elementari codici della comunicazione satirica" quant* avevano criticato la campagna pubblicitaria del Pride 2008 e in specie Italo.
E che ora si dicono "sdegnati" delle dichiarazioni di Battaglia.

A quale codice comunicativo risponde lo sdegno tardivo?
Elementare ...

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* Provvedimento che Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione familiari delle vittime della strage di Bologna, ha definito "l'ennesimo premio all'omertà di stato".
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martedì 7 ottobre 2008

CasaPound Superstar


Stamani su Il Resto del Carlino (ah! come potrei sopravvivere quando sono a Bologna senza Il Resto del Carlino?) leggo di un'improbabile denuncia del responsabile provinciale di CasaPound Bologna, Alessandro Vignani, che nella mappatura della presenza fascista in città pubblicata sul sito dell'AAP, vede "un'istigazione alla violenza". Cito: "E' chiaro che qualcuno, in questa città, vuole istigare alla violenza [...] A che cosa può servire una mappatura (peraltro correlata di invenzioni degne di un romanzo) se non a identificare e a promuovere azioni contro tali persone e luoghi? [...] Con questi mezzi cercano di intimorire". E invita "chi di dovere a intervenire, per evitare che qualche esaltato passi dalle parole ai fatti".
Ma caso vuole che, da un bel po' di tempo, gli "esaltati" sono stati (e restano) gli appartenenti alla cosiddetta "destra radicale" nella cui galassia si colloca CasaPound e relativo sito, "esaltati" che sono passati dalle "parole ai fatti" contro migranti, rom e sinti, compagni e compagne (o semplicemente persone reputate , per il loro aspetto, "irregolari" o "di sinistra"), omosessuali, trans, donne e lesbiche vittime di "stupri punitivi" ... Ed è proprio per contrastare la disinvoltura di queste aggressioni (in diverse circostanze mortali) che l'Assemblea Antifascista Permanente ha realizzato questa mappa, che ha uno scopo puramente difensivo, uno strumento "necessario per fini di tutela collettiva", come è stato ripetutamente precisato sia in forma scritta che in occasioni pubbliche (ed anche in un recente comunicato).
E basta leggere questi documenti per rendersi conto che non soltanto non ci sono "fatti" da imputare, ma neanche "parole". Gli stessi nomi e cognomi presenti nella mappa sono nomi già noti grazie a informazioni pubblicate dagli organi di stampa.
Ad esempio il nome di Vigliani non mi era ignoto, in quanto è intervenuto qui in Marginalia con un commento al post Italo da rottamare, per precisare il suo esatto cognome che compariva in forma errata in un passaggio che avevo ricopiato da un articolo del Corriere.
Ne ho tratto l'impressione, oggi confermata, che Vignani sia assillato dalla ricerca di un po' di notorietà. Alla storia di CasaPound nel mirino non ci crede nessuno e, come riferisce l'articolo del Carlino, non ci crede nemmeno la Questura (notoriamente non sempre tenera con gli/le antifascisti/e ...) ... Perché mai dovremmo crederci noi?
E no, questa storia non ce la beviamo. Figurarsi se ce la mangiamo ...

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Non ricordo se ho segnalato già la mappa, comunque la trovate qui
Qui invece potete scaricare in pdf un utile dossier nel caso abbiate ancora qualche dubbio su chi è veramente CasaPound
... e grazie a L'Ombroso per la bella immagine che ho ripreso dal suo blog!

venerdì 3 ottobre 2008

La matrice della razza

A dimostrazione che, seppure in ritardo, mantengo le promesse, di seguito ecco la mia recensione al libro di Elsa Dorlin, La matrice de la race. Généalogie sexuelle et coloniale de la nation française (prefazione di Joan W. Scott, Paris, La Dècouverte 2006, pp. 308, 27 €), pubblicata (forse con qualche piccolo taglio, ma ora non sono in grado di controllare sul cartaceo) sul n. 15 di Zapruder (Confini senza fine, 2008).
Del resto di Dorlin (che ha curato un'antologia sul Black Feminism, se non ricordo male da poco recensita anche su Liberazione), è possibile ora leggere un saggio in traduzione italiana, appena pubblicato sul primo numero di una rivista completamente autoprodotta e autofinanziata, ControStorie. Ma questa nuova pubblicazione sarà argomento di un prossimo post, quindi intanto vi lascio alla recensione:

Tratto dalla sua tesi di dottorato (Au chevet de la Nation. Sexe, race et médicine, XVIIe - XVIIIe siècle, Paris IV-Sorbonne, 2004), questo libro di Elsa Dorlin – all’incrocio tra filosofia politica, storia della medicina e studi di genere – contribuisce, come sottolinea Joan W. Scott nella prefazione, a dar conto delle relazioni tra storia della sessualità/storia della politica. Nel solco di quell’“epistemologia della dominazione” inaugurata da Colette Guillaumin, rinnovata con gli orientamenti di studio e ricerca nati sotto la spinta del Black Feminism, questo volume fa emergere le articolazioni tra genere, sessualità e “razza” e il loro ruolo centrale nella formazione della nazione francese moderna. Il “sesso” e la razza” non vengono visti nel loro rapporto analogico, ma in quello che l’autrice definisce il loro “rapporto genetico”, costitutivo. Analizzando come il discorso sul “sesso” e quello sulla “razza” si modellano reciprocamente, Dorlin giunge a stabilirne una stessa “matrice”: il concetto di temperamento. Nozione medica ricorrente dall’antichità fino al XVII secolo, il temperamento è l’ insieme di virtù e di vizi (fisici e morali) che caratterizzano ciascun sesso. Attraverso questo concetto – che pensa il corpo come composto da diversi “umori” (sangue mestruale, sperma…) connotati da qualità differenti –, la scienza medica ha definito il corpo femminile, in contrasto con quello maschile, come “malato”. C’è “patologia femminile” perché le donne hanno un temperamento “freddo e umido”, mentre quello degli uomini è “secco e caldo”. Il corpo femminile è visto come “un circuito precario, organizzato intorno all’utero” (p. 36), che i medici devono continuamente controllare e regolare. E sono i rapporti sessuali e le gravidanze le cure più frequentemente consigliate, essendo la generazione il fine naturale dell’essere donna, sorta di ricettacolo amorfo e passivo. Nel XVII secolo, la concezione del corpo delle donne come “malato” giustifica l’ineguaglianza dei sessi: il sano e il non-sano funzionano come categorie – mediche e politiche – connesse all’esercizio del potere degli uomini sulle donne: le donne sono “naturalmente” più deboli perché fisicamente imperfette, in uno stato di disequilibrio permanente. Se il corpo “virile” delle donne “voluttuose” (prostitute, ninfomani, tribadi), rischia di mettere in crisi questo modello, la gestione politica della sessualità lo riassorbe, con un procedimento che lo esclude dal corpo sociale delle donne. E’ il caso, ad esempio, del corpo delle prostitute – che Dorlin definisce “mutante” – che fornisce una giustificazione alla divisione del lavoro sessuale delle donne: poiché il calore “maschile” del loro corpo brucerebbe lo sperma esse sono definite come “naturalmente” destinate alla prostituzione in quanto sterili. Il loro calore virile non sarebbe dovuto a una complessione naturale, ma il frutto delle loro pratiche illecite, abusive, che le modificano fisio-anatomicamente (al pari di tutte le donne la cui sessualità è considerata contro natura). Ed è questo stesso concetto di temperamento che, all’inizio del XVIII secolo, nelle Americhe, diviene un utile strumento per la naturalizzazione delle differenze antropologiche, condizione di possibilità per l’elaborazione del moderno concetto di “razza”. L'insieme dei criteri di classificazione antropologica (segni o “marchi”) precedentemente di tipo statuario, convenzionale o contrattuale (l'abbigliamento, l'acconciatura, il lignaggio...) o di tipo culturale o ambientale (il clima, il cibo, i regimi politici...) vengono sostituiti da un insieme di marchi “naturali” indipendenti e anteriori da colui/colei che ne è “marcato”. Se esistono delle differenti “razze” ciò è determinato non da tratti aleatori o variabili, ma da una causa “interna”, genetica: la “razza” è definita “come un effetto del temperamento, del “naturale”, e non del clima: non si cambia di “razza” “cambiando latitudine”(p. 216). In questo processo, i nativi o gli schiavi deportati vengono assimilati non alle donne, ma al loro temperamento “femminile”, al loro “naturale”. E' dunque all'opera non un'analogia tra la differenza razziale e sessuale bensì un'assimilazione delle popolazioni dominate al temperamento patogeno, effeminato e debole che ne marca la differenza e l'inferiorità. Nello stesso periodo – nella “metropoli” – la concezione del corpo delle donne come “malato” deve essere necessariamente riconfigurata per garantire la perennità dei rapporti di dominazione e la loro articolazione, principalmente in ragione dell’intensificazione della politica schiavista e del timore di una “degenerescenza” della popolazione. Per i teorici nazionalisti francesi, la popolazione – e dunque la procreazione – gioca un ruolo cruciale nella prosperità della nazione e, poiché questa è simbolizzata attraverso il corpo materno, questo non può più essere “malato”, altrimenti anche la nazione lo sarebbe. Conseguentemente, dal corpo “malato” delle donne, l’attenzione si sposta alla salute del corpo materno. La politica si fa “nosopolitica”: la salute delle madre e del bambino assume un valore inedito, viene rivalutato l'allattamento, vengono messi sotto accusa alcuni dei prodotti venuti dalle “Americhe” che indeboliscono il corpo femminile, snaturandone il temperamento. Comincia così una rivalutazione del corpo delle donne in quanto madri – e la “madre” diviene lo strumento maggiore di quella che l’autrice chiama génotechnie (genotecnia), ovvero la tecnologia più efficace per la costruzione di un popolo, di una nazione – del modello femminile della “madre sana, bianca, e feconda” (p. 209). Questa viene opposta, come già in passato, alla femminilità “degenerata”, in questo caso delle donne non bianche, delle schiave delle colonie, che subiscono una sorta di “virilizzazione”, un'opposizione che serve a marcare le differenze tra la Nazione e le sue colonie. Emerge dunque come “il sesso” e “la razza” partecipino di una stessa matrice, nel momento in cui la Francia si impegnava nell’impresa schiavistica e coloniale. Nello stesso tempo, “il governo coloniale ha introdotto la razza nel cuore della nazione francese in un momento storico chiave, quando nazionalità e cittadinanza venivano elaborate” (p. 274). In questo senso, La matrice de la race contribuisce e sollecita a colmare quel vuoto teorico che, riflettendo sulla situazione italiana, Nicoletta Poidimani lamenta in un recente saggio – pubblicato in Nerina Milletti e Luisa Passerini (a cura di), Fuori della norma (2007) –, ovvero “la tendenza a ragionare per compartimenti stagni – da una parte le colonie, dall'altra il territorio nazionale – senza approfondire quanto l'impresa coloniale e la produzione culturale e ideologica che l'ha sostenuta si siano riflesse anche nella vita e nella cultura 'metropolitana'”.
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