giovedì 29 marzo 2012

Adrienne Rich / Ad memoriam

Adrienne Rich è morta qualche giorno fa, il 27 marzo, a Santa Cruz. Per un ricordo rinviamo bio-bibliografico rinviamo a La Nuova Towanda. Marginalia la ricorda con questa bellissima foto della fine degli anni 70, dove Adrienne Rich è insieme ad altre due "grandi" che non ci sono più, Audre Lorde e Meridel Le Sueur.

martedì 27 marzo 2012

Frantz Fanon / Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale

Domani sera a Bologna, presso Xm24, a partire dalle ore 21, presentazione del volume Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale , da poco pubblicato da Ombre Corte. Interverranno Sandro Mezzadra e Roberto Beneduce, curatore del volume.

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Son tutte belle le mamme del mondo ...



Questo video (per la "storia": Giorgio Consolini primo classificato al Festival di Sanremo del 1954) è un affettuosamente ironico messaggio in codice per due neo-mamme (stra)fichissime che non vedo l'ora di poter stritolare di abbracci e baci cadendo in estasi davanti alle creature ;-)

domenica 25 marzo 2012

Riposizionare la subalternità / Relocating Subalternity

Relocating Subalternity è il titolo del simposio che si terrà alla Jan van Eyck Academie di Maastricht il 6/7 aprile prossimi e che si propone di esplorare limiti e potenzialità della nozione di "subalternità" nella sua dimensione genderizzata. Di seguito copiamo-incolliamo una sintetica presentazione della due giorni (in inglese e, via Sonia Sabelli, in italiano) rinviando, per il programma dettagliato, al sito della Jan van Eyck Academie.
The symposium Relocating Subalternity aims to explore both limits and potentialities of the (gendered) notion of subalternity. How does subalternity relate to agency and subjectivity? What are the possible intersections between subalternity and other forms and experiences of subjectivation? Can the subaltern become an agent of struggles? What are the political implications of the increasing interest on marginality and subalternity in academia and art? The conference will be a space for political and theoretical confrontation among different conceptual and normative positions that emerged in feminist, postcolonial and queer theory. Speakers will be Nikita Dhawan(Goethe-University Frankfurt), Elsa Dorlin (Panthéon-Sorbonne University), Dhruv Jain (Jan van Eyck Academie), Jasbir Puar (Rutgers University), Srila Roy (University of Nottingham), Asha Varadharajan (Queen's University),Jamila Mascat and Sara de Jong (both JvE Academie) / Il simposio Relocating Subalternity si propone di esplorare sia i limiti che le potenzialità della nozione (genderizzata) di subalternità. Qual è la relazione tra subalternità, agency e soggettività? Quali sono le possibili intersezioni tra la subalternità e le altre forme ed esperienze di assoggettamento? La subalterna (o il subalterno) può diventare un agente delle lotte? Quali sono le implicazioni politiche del crescente interesse nei confronti della marginalità e della subalternità nell’accademia e nell’arte? La conferenza sarà uno spazio di confronto politico e teorico tra le diverse posizioni concettuali e normative che sono emerse nella teoria queer, femminista e postcoloniale. Interverranno Nikita Dhawan (Goethe-University di Francoforte), Elsa Dorlin (Panthéon-Sorbonne University), Dhruv Jain (Jan van Eyck Academie), Jasbir Puar (Rutgers University), Srila Roy (University of Nottingham), Asha Varadharajan (Queen ‘s University), Jamila Mascat e Sara de Jong (entrambe JVE Academie).

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venerdì 23 marzo 2012

Achille Mbembe / Politiques de Frantz Fanon : de la décolonisation à la postcolonie

Segnalazione al volo per chi attualmente è parigina/o: Achille Mbembe - per tutto il mese professore invitato al dipartimento di scienze sociali dell'École normale supérieure -, interverrà lunedì 27 marzo alla giornata di studi Politiques de Fanon : de la décolonisation à la postcolonie (Ens - 45 rue d’Ulm, Paris 5e, salle Dussane), con Elsa Dorlin, Éric Fassin e Matthieu Renault. Pensiamo che Mbembe non abbia bisogno di lunghe presentazioni, in ogni caso per chi volesse leggere qualcosa prima dell'incontro ricordiamo quelle che forse sono le sue opere più famose (in francese) De la postcolonie. Essai sur l’imagination politique dans l’Afrique contemporaine e la più recente Sortir de la nuit noire. Essai sur l’Afrique décolonisée (La Découverte, 2010), mentre in italiano rinviamo ai saggi raccolti nel volume Postcolonialismo pubblicato qualche anno fa da Meltemi.

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martedì 20 marzo 2012

Zapruder Bo a XM24

Dopodomani - giovedì 22 marzo, alle 20.30 - si terrà presso XM24 (via Fioravanti, 24 - Bologna), l'incontro del gruppo bolognese di Storie in Movimento, l'associazione che pubblica il quadrimestrale Zapruder. L'ordine del giorno prevede aggiornamenti sulle proposte emerse durante lo scorso incontro (relative a 1. festeggiamenti per i dieci anni di Zapruder 2. future presentazioni dei numeri della rivista 3. iniziative da realizzare durante il corso dell'anno + varie ed eventuali).Vi aspettiamo numerosi/e!

Angela (Davis)


La scorsa settimana, leggendo un articoli pubblicato in occasione della morte di Lucia Mannucci (voce "femminile" del Quartetto Cetra, gruppo che avevo sempre vagamente collegato alla canzoncina per bambine/i Nella vecchia fattoria), avevo scoperto, con immaginabile stupore, che nel 1971 il Quartetto aveva scritto una canzone dedicata ad Angela Davis. Cantata durante un programma della Rai, la canzone era valsa al gruppo una telefonata di pesanti minacce: "Dica al suo collega Savona di non fare il gradasso sul palcoscenico e di lasciar perdere la politica, di cantare Nella vecchia fattoria e di smetterla di sfruculiare con Angela Davis e tutto il resto... queste sono cose delicate, mi sono spiegato?") . Non trovando lì per lì traccia del brano in rete (testo, audio e/o video) avevo lanciato un s.o.s alle/ai frequentatrici / frequentatori di Marginalia. Grazie ad un commento di Angie ed altre piste suggerite via mail (grazie a tutte/i), la ricerca è approdata ad un sito (Grovenshark) con l'audio di Angela (che potete ascoltare cliccando sul riquadro alla fine del post). Tralasciando qualsiasi commento sulla qualità musicale e sul testo (un tripudio di rime tra amore e dolore su un'aria che oggi definiremmo melensa in cui infine Angela Davis è paragonata ad un fiore ...) riflettevamo su come anche questo piccolo frammento ( a suo modo "storico") contribuisca a complicare il quadro di quegli anni cruciali. Abbandonata l'ipotesi suggerita da qualcuno (e ovvero che le minacce al Quartetto Cetra fossero scatenate dall'evidente bruttezza musicale del pezzo), resta la difficoltà, la confusione, lo stupore. Com'era percepita in quel periodo dall'opinione pubblica (non quindi negli ambiti più o meno politicizzati) la figura rivoluzionaria di Angela Davis? Com'era il "clima" se addirittura cantare in Rai una canzone che oggi ci appare "inoffensiva" se non addirittura banalizzante del messaggio politico della vicenda, poteva provocare delle minacce? Quali furono, se ci furono, le reazioni del gruppo e/o della Rai? ... Mentre altri interrogativi ci frullano in testa vi lasciamo all'ascolto, magari tra qualche giorno se abbiamo tempo ci ritorniamo su.

Angela by Quartetto Cetra on Grooveshark

lunedì 19 marzo 2012

Parole e violenza politica. Gli anni Settanta nel Novecento italiano

Anni ’70. Parole e violenza politica. Gli anni Settanta nel Novecento italiano, è il titolo del convegno organizzato dal Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli studi di Trieste e che si terrà a Trieste il 22 e 23 marzo. Per ulteriori info e per il programma dettagliato rinviamo al sito dell'Università di Trieste.

Zapruder World / An appeal for a new journal and network on the history of social conflicts

Abraham Zapruder was the 58-year-old Russian migrant tailor who filmed the killing of John Fitzgerald Kennedy in Dallas on 22 November 1963. Armed with a 8mm camera, he made history. From below. Since 2002 Zapruder is also a journal on the history of social conflict published in Italy and in Italian. The journal was founded by historians and social activists who took part in the protestmovement in Genoa (July 2001) and, along with the association Storie in movimento (SIM - Histories in movement), it is rooted in the experience of local social forums sprang out from the Seattle, Göteborg and Porto Alegre international demonstrations and meetings. Social activism has fed our research curiosities, broadened our intellectual interests, and pushed us to explore new methodological and theoretical perspectives. History - we felt during those months of continuous and inspiring mass actions and debates - was no longer (just) a series of words on a page, nor a sequence of institutional meetings and events. It was written in and acted by the bodies and the acts of protest, resistance and rebellion of ordinary people against hegemonic and oppressive structures of power anywhere, anytime. Since their inception, the journal and the association have mirrored these experiences. They have been meeting places for academic and non-academic scholars, spaces of inclusive and anti-authoritative cultural creation, laboratories based on egalitarian and democratic participation. For instance, the theme for each issue of Zapruder is chosen through public assemblies and the Editorial Board and the Coordination Committee are elected by the members of the association. Through a network of local groups and annual symposia, SIM´s members have developed critical perspectives, theoretical concepts, and methodological approaches standing clear of the conceptual straightjackets of liberal progressivism, epistemological Eurocentrism and methodological nationalism. as well as of the celebratory history of the institutional organizations of the labour movement. Sustained exploration of new topics in radical historiography has been coupled with the experimentation of research and communicative methods apt at dismantling monopolistic attitudes towards access to sources, the individualistic and solitary nature of historical work, and the tendency to limit research to the academic market and the hyper-fragmentation of knowledge. For all their originality, the experiences of SIM and Zapruder have not taken place in a vacuum. They have been rooted in the changing global geography and paradigms of historiography and related to the(re-)emergence of global movements. New associations of historians have appeared in the last ten-fifteen years and much research has been done, from Western and Eastern Europe to Brazil, from South Africa to the USA and Canada, from Turkey to South East Asia. Publishing mainly in English and French, these associations and related journals have addressed the interactions between different regions of the world throughout the modern era, provided new perspectives on global socio-economic history and suggested new ways of understanding social movements.Moreover, as new forms of workers´ protest, grassroots social movements and a growing collective consciousness regarding the diffusion of contemporary globalization have emerged all over the world, this new type of historiography has incorporated the histories of national and local insurgent movements and social conflicts in a global, comparative, entangled, and trans-local perspective. Similarities, mutual influences and linkages among populations in different nation-states and land-empires, as well as across seascapes have been explored. National boundaries have been transcended, networks within and beyond the national level have been investigated, and repertoires of collective action, forms of resistance, and insurgent movements have been researched in their interconnections and interdependency with political and social changes arising within other societies. It is high time that this wealth of interconnected and socialized knowledge found a way to circulate on the global scale afforded by contemporary digital technology, and help scholars of the Global South and Global North to build bridges of collaborations and mutual inspiration as has already happened on the squares of Cairo, New York and Rome. Our call for the creation of Zapruder World (ZW) is at one and the same time a call for bringing together researchers from around the world into a network of scholars and social activists aimed at exchanging and diffusing their knowledge and knowledge practices, and to realize together a digital tool for the construction and maintenance of this network: An International Journal for the History of Social Conflict. We imagine ZW to be a digital journal (initially written in English) and a network of historians and social activists spread through different places, countries and continents, that will explore the many forms of social conflict and reconsider the notion of social conflict itself. In so doing, our aim is simultaneously to transform the way we look at history, the way historical research is organized, and the way historical memory is transmitted from one generation to another. We understand "social conflicts" in the broadest sense of the word, without spatial or chronological limits. We target the movements of conflicts - rather than their resolutions - and compare forms of conflict across time and space in order to connect our knowledge with current transnational cycles of protests. We consider "social conflict" as a useful interpretative category to address the structural relations between classes, genders, cultures and racialization, technology, the formation of identities and nature. We explore conflicts by producers as well as consumers and stress the agency of the historical actors, their memories, discourses, believes and hopes. We seek to expand and redefine the meaning of insurgent practices beyond the privileged locus of the workplace, e.g. by looking at public ceremonies, celebrations, street theatre and bodily practices as ways to express complaints, demands and eventually deliberate rebellion. We look at wage and subsistence workers, men, women and children, slaves and serfs, unemployed and lumpenproletarians and aim to question the traditional separation between "free" and "unfree" labour. Social conflict is explored through an interdisciplinary perspective, addressed at any scale and looked at through a constant jeux d´échelles. We use concepts and methodologies - derived from history, social sciences, ethnography, economy, geography, anthropology and the humanities at large - that seek to explore the complex interaction between the "local" and the "global": comparative history, histoire croisée, micro-history, multi-sited ethnography, translocality, teleconnections, diaspora. We all practice "global history," but intentionally leave its actual definition, contents and methods open for discussion. As researchers, we realize that addressing all these issues is a huge challenge. We are also conscious that other networks and journals already exist that are trying to cope with this very task. Yet, as social activists, we know that this is still not enough and for this reason we are proposing this new project. Our research activities should be also located in the very historical context we act in. By focusing on social conflict, then, we consciously contrast the normalization and dominance of "liberal thought," which consistently downplays the tenor and causes of social conflict and is essentially impotent in contrasting the spread of the Neoconservative world view. We see history as, essentially, an arena of conflicts and overtly challenge liberal conciliatory descriptions of the Past. Besides answering old and new research questions and exploring new methodological perspective, we should also address the material conditions in which we perform our tasks. We know the present situation of the research only too well: national and international "reform" aiming at the marketization of research and education; cuts on State investments, growing role of private actors, daily difficulties for independent organizations; strengthening of authoritarian clientelism; project-centred approach in funding, mainly driven by short term, market-related goals. The outcomes of these trends are also visible: growing exclusion from research and education; sustained precariousness of contracts, of research and in the lives of the researchers; drastic limitations on independent research. In opposition to this situation, ZW intends to be a pluralistic, open forum for social activists, academic and independent scholars from all countries and all disciplines. Born within the wider project "Storie in Movimento," our initiative stems first of all from the desire to expand our own horizons beyond the national confines of Italian history. Yet, we do not intend to merely "internationalize" either SIM or Zapruder. Rather, within a completely new experience we seek to enhance key aspects of SIM´s experience, namely: its horizontal relationships, direct participation and self-funding principles; its provision of a network for exchanges of critical knowledge; its coupling of individual study and collective discussion. Here lies the most original aspects of the ZW project, what makes it different from any other network and journal on global history and conflict studies. ZW necessarily couples theoretical, methodological and interdisciplinary discussions with a characteristic collective and democratic process of exchange, decision and creation. For this reason, in what follows we ask your decisive commitment to find the most appropriate form for ZW. We are convinced that this project can reach its ambitious goals only insofar as it stays open and succeeds in creating its own mechanisms of permanent democracy. Clearly, this is an appeal for active participation. We do not merely ask you to express an interest in subscribing to a journal or an organization, but to create, shape and expand the project yourself. Therefore, by issuing this appeal to you we do not intend to establish once and for all the characteristics and goals of the project. Rather, we envision the creation of ZW in two organizational steps, both intended to guarantee the democratic process. The first step corresponds to the distribution of this appeal to scholars / activists like yourself whom we have identified as potentially interested in contributing to the creation of ZW. In turn, we ask you to do two things: a. To re-distribute this appeal through your networks with the specific goal to form `local´ groups corresponding to your own geographical location and/or to your favourite research themes and methodologies. Please, make sure that besides responding to you, your contacts will also respond to our email ... b. To fill-out and send-back to us by 30 April 2012 the questionnaire you find attached to this appeal. By so doing you will show us your willingness to take part in the creation of ZW and also be part of a local/thematic/methodological organizing group that will prepare the second organizational phase of our project. Moreover, the information you will send us by filling out the questionnaire will allow us to support the process of formation of the groups themselves by distributing it among all potential participants of a `local´ group. Please make sure that you specify the importance of filling out the questionnaire to anyone you will send this appeal to. In the second phase, by the last week of September 2012 the groups will come together, in the forms that you will find most appropriate (physical, digital, or possibly both) to discuss especially the following points:
a) What do you understand as the key elements (methodological, thematic, etc...) in a history of social conflict on a global scale?
b) What do you envision to be the necessary and/or most desirable organizational traits (i.e. peer-review system of evaluation; only English language submissions or all languages translated into English; thematic issues; single or local editorial boards etc...) in the creation of ZW?
c) Which topics would you and your group be interested in exploring and possibly organize into an issue of ZW?
We very much look forward to hearing from you, The project´s organizing committee:Stefano Agnoletto, Michele De Gregorio, Christian G. De Vito, Claudio Fogu, Marilisa Malizia, Sabrina Marchetti, Alfredo Mazzamauro, Elena Petricola, Giulia Strippoli.
For further info: zapruderworld@storieinmovimento.org

giovedì 15 marzo 2012

Sesso in cambio di un permesso di soggiorno : donne migranti, pornocrazia e questure

Circa tre anni fa pubblicavamo qui in Marginalia un articolo dal titolo Sorvegliare e stuprare. Vi si denunciava, e non per la prima volta, l'uso in termini di emergenza sicuritaria e di "caccia allo straniero" della violenza sulle donne (italiane). Scrivevamo che l'aspetto più dirompente della grande manifestazione femminista e lesbica del novembre 2007 a Roma contro la violenza sulle donne era stata proprio quella di aver ribadito con forza la nostra volontà di non essere strumentalizzate per fomentare il cosiddetto scontro di civiltà e giustificare pratiche razziste e sessiste: la violenza contro le donne - dicevamo - non ha confini geografici, né di cultura o religione ma è l’espressione di un violento rapporto di potere esercitato dagli uomini (intesi non come categoria “naturale”, ma “sociale”) sulle donne. Era stato cruciale allora insistere sul fatto che la violenza sulle donne (italiane e non) avviene per la maggior parte "in famiglia" o tra le cosiddette "pareti domestiche" ed è esercitata, in primis , da mariti, amanti, padri, fratelli, conoscenti (molto spesso italianissimi). In Sorvegliare e stuprare però scrivevamo anche che insistere sulla denuncia delle violenze in ambito "familiare" rischiava di mettere in ombra altri "luoghi" (ambienti di lavoro, canoniche, ospedali, questure, galere ...) in cui le donne subiscono quotidianamente stupri, molestie e ricatti sessuali e di come - tra queste diverse "quattro mura" - fossero le donne migranti ad essere i soggetti più ricattabili grazie anche al cosiddetto "pacchetto sicurezza" che creava il terreno favorevole per soprusi e ricatti di ogni tipo. Raramente, scrivevamo, "queste vicende sono (o possono essere) denunciate e quando lo sono non guadagnano l'onore della cronaca ufficiale. Non ci è dato sapere quante 'badanti' moldave o ucraine sono oggetto di pesanti molestie sessuali dai loro stagionati datori di lavoro, quante donne migranti subiscono ricatti sessuali - in cambio di un aiuto per ottenere il permesso di soggiorno -, dal prete o dal poliziotto di turno. Non ci è dato sapere soprattutto delle tante violenze subite dalle donne migranti tra le quattro mura di un Cie". E ricordavamo alcuni episodi, come il tentativo di stupro ai danni di una donna nigeriana da parte dell'ispettore-capo del Cie di via Corelli a Milano o la vicenda che proprio in quei giorni aveva coinvolto il direttore del carcere di Genova, accusato di aver ripetutamente molestato e costretto a rapporti sessuali una detenuta di origini marocchine. Oggi, a distanza di tre anni (che ci sembrano secoli) leggiamo su Zic di un poliziotto - assistente capo dell'ufficio immigrazione della questura di Bologna - che ha costretto un numero imprecisato di donne migranti a rapporti sessuali con la minaccia che, se non avessero accettato, la pratica per il loro permesso di soggiorno sarebbe rimasta "sepolta" a tempo indefinito. Ci chiediamo perché questo ed altri episodi simili non ricevano la stessa attenzione (e denuncia) di cui è stata oggetto, ad esempio, la pornocrazia berlusconiana. Forse ciò non offende la "dignità delle donne italiane"?

martedì 13 marzo 2012

Binari femministi a Pisa


Asincronie del femminismo di Paola Di Cori, Ets/àltera, 2012.

Angela Davis e il Quartetto Cetra

Da uno degli articoli pubblicati in occasione della morte, avvenuta qualche giorno fa, di Lucia Mannucci (voce "femminile" del Quartetto Cetra, gruppo che avevo sempre vagamente collegato alla canzoncina per bambine/i Nella vecchia fattoria), scopro che nel 1971 avevano invece scritto (e presentato durante un programma della Rai, ricevendo poi pesanti minacce) una canzone dedicata ad Angela Davis. Non mi sembra però che di questo brano ci sia traccia (testo/audio/video) in rete ... Qualcuno/a può dirmi qualcosa di più?

Per un femminismo senza orientalismo / Pour un féminisme sans orientalisme

"En 1978, l'écrivain palestinien Edward Said développait aux Etats-Unis une analyse critique de l'orientalisme qui demeure d'actualité : en renvoyant l'Orient dans une altérité radicale, cette représentation savante a fonctionné dans l'Europe colonisatrice comme une opération de pouvoir d'autant plus efficace qu'elle se niait comme telle. Hier comme aujourd'hui, l'orientalisme renvoie en miroir l'image d'un "occidentalisme" : c'est un même culturalisme qui dessine les figures inversées, mais pareillement imaginaires, de l'Orient et de l'Occident. Depuis la fin de la guerre froide, comme au temps des colonies, l'orientalisme connaît de beaux jours. La rhétorique du "conflit des civilisations", dont l'intellectuel américain Samuel Huntington s'est fait le héraut en 1993, inspire aujourd'hui notre ministre de l'intérieur : selon Claude Guéant, "toutes les civilisations ne se valent pas". Depuis le 11-Septembre, on parle même d'un "conflit sexuel des civilisations" : contre l'islam en particulier, on a découvert les vertus de l'égalité entre les sexes pour mieux stigmatiser l'immigration. Ainsi, avant de se convertir tout récemment, à l'occasion de la controverse sur l'abattage halal, à la défense des droits des animaux, nos gouvernants invoquaient déjà les droits des femmes : au contraire d'"eux", "nous" traiterions bien les femmes. Pendant la campagne présidentielle de 2007, c'est en ces termes que Nicolas Sarkozy justifiait la création d'un ministère de l'immigration et de l'identité nationale : il définissait celle-ci, par contraste avec celle-là, en termes "républicains" : chez nous, "les femmes sont libres". Autrement dit, "chez eux", elles ne sauraient l'être : polygamie, mariages forcés, viol ou virginité imposée, hijab voire niqab, tel serait l'ordinaire, forcément sexiste, des "autres". D'un côté, la démocratie choisie ; de l'autre, l'oppression subie. Or, cette rhétorique s'applique à l'intérieur ou à l'extérieur de nos frontières - au Maghreb ou dans les banlieues : la sollicitude affichée pour les femmes justifie le rejet du garçon arabe comme de l'islamiste barbu. C'est ainsi qu'en Europe le supposé "conflit sexuel des civilisations" a paré la xénophobie et le racisme des atours de la démocratie sexuelle.Les révolutions arabes sont venues bousculer cette vision du monde. D'un seul coup, on s'est interrogé : la démocratie n'était-elle pas du côté des peuples qui se soulevaient contre la dictature, plutôt que des gouvernements européens qui sous-traitaient au dictateur libyen la gestion des immigrés pour ne pas s'embarrasser des droits de l'homme, ou qui proposaient aux dirigeants algériens et tunisiens, pour résister à la pression d'une rue assoiffée de liberté, "le savoir-faire, reconnu dans le monde entier, de nos forces de sécurité" ? Deux réactions se dessinent depuis lors, qui visent à préserver, nonobstant l'actualité, le partage rhétorique entre "eux" et "nous". La première consiste à renoncer à s'encombrer de démocratie sexuelle : d'un seul coup, les droits des femmes paraissent moins urgents. C'est bien dans le contexte du "printemps arabe" qu'on peut comprendre l'humeur du chef de l'Etat français s'interrogeant, le 8 mars 2011, sur l'utilité de ce qu'il appelait "la Journée de la femme" : "C'est sympathique, il faut le faire, enfin parfois il faudrait qu'on se concentre sur l'essentiel." Et d'insister : "Il y aurait beaucoup à dire parce que ça voudrait dire que les autres, c'est des journées des hommes alors ? Très curieux quand même comme système. Franchement." Ce n'est donc pas un hasard si, à la rentrée 2011, la Droite populaire emboîte le pas à Christine Boutin, présidente du Parti chrétien-démocrate, pour dénoncer l'introduction du "genre" dans des manuels de sciences et vie de la Terre : contre Simone de Beauvoir, il s'agit, pour ces conservateurs, de réhabiliter l'idée qu'on naît femme, plutôt qu'on ne le devient. S'il n'est pas surprenant que l'aile la plus réactionnaire de la majorité gouvernementale s'engage dans une telle croisade, il est plus remarquable qu'elle obtienne le soutien de ses dirigeants. Tout se passe comme si l'on revenait alors aux années 1990 : contre le "féminisme à l'américaine", accusé de dénaturaliser la différence des sexes en parlant de gender, il faudrait refonder en nature l'ordre sexuel. Après les révolutions arabes, le "conflit sexuel des civilisations" appartiendrait-il au passé ? A côté de cette droite désorientée, une autre réaction se fait entendre, qui s'emploie à préserver le lien entre féminisme et orientalisme : loin de renouer avec les valeurs chrétiennes, il revendique un combat pour la laïcité fondant l'Occident sur l'héritage des Lumières. Et de s'inquiéter de l'islamisme, qui menacerait la liberté des femmes après les révolutions davantage encore que sous les dictatures. L'illusion démocratique serait dissipée dans le monde arabe par l'échec de la démocratie sexuelle : la libération des peuples s'avérerait une simple ruse de la domination masculine. Le féminisme est ainsi confronté à un dilemme. Sans doute ne risque-t-il pas d'être attiré par la Droite populaire, peu suspecte d'engagement dans la lutte contre le sexisme. Cependant, certaines féministes ne peuvent-elles être tentées, à l'instar d'Elisabeth Badinter, de juger qu'"en dehors de Marine Le Pen, plus personne ne défend la laïcité" ? Mais à l'inverse, refuser toute compromission avec la xénophobie et le racisme condamne-t-il à nier les menaces qui pèsent encore sur les droits des femmes dans le monde arabe ? Il convient de récuser une telle alternative. Pour écarter toute instrumentalisation au service de la politique d'identité nationale, il suffit de rappeler que les menaces contre les femmes ne définissent pas une civilisation plutôt qu'une autre ; elles traversent toutes les sociétés. Sans doute le conservatisme des islamistes n'est-il guère rassurant ; mais le conservatisme sexuel est bien présent en France aussi, à l'heure ou le Front national veut cesser de rembourser les "avortements de confort", tandis que Nora Berra, secrétaire d'Etat à la santé, s'oppose à la gratuité et à l'anonymat de la contraception pour les mineures. Autrement dit, au Maghreb comme en France, il s'agit de politique, et non de culture. Contre le culturalisme du "conflit des civilisations", il faut miser sur un féminisme sans orientalisme. Face à la droite désorientée, c'est le moment de désorientaliser le féminisme" (Eric Fassin, Le Monde, 10 marzo 2012).

domenica 11 marzo 2012

Asincronie del femminismo

Asincronie del femminismo è l'ultimo libro di Paola Di Cori, appena pubblicato dalle Edizioni ETS nella collana di intercultura di genere àltera, diretta da Liana Borghi e Marco Pustianaz.


Mentre, dopo la voracità della prima lettura, ci accingiamo a rituffarci con più lentezza nelle dense pagine di questo volume, vi proponiamo la scheda di presentazione di Asincronie del femmminismo pubblicata dall'editore: "La discontinuità, la sospensione, l’intermittenza, sono requisiti caratteristici delle pratiche femministe degli anni ’70. Tentare di ricostruire alcuni episodi di quelle esperienze assai speciali, significa declinare la storia nel tempo del futuro anteriore e nelle sue asincronie, considerare gli eventi in perenne tensione rispetto a un momento ancora da venire. Attraverso le pagine degli scritti qui raccolti emerge la necessità di effettuare un radicale spostamento di prospettiva: rivolgere la direzione dello sguardo in avanti anziché orientarlo all’indietro; analizzare i materiali del passato per ciò che in essi compare solo in forma appena abbozzata e può essere ripreso, ulteriormente spostato e rianimato; da ciò dipende la capacità di agire e di immaginare il tempo davanti a noi. Nella rappresentazione storica di altre epoche torna così in posizione centrale l’elemento desiderante, il ruolo fondamentale svolto dalle passioni nel guidare i comportamenti umani.Nel volume si affrontano la temporalità nell’autocoscienza, la ricomparsa delle donne di destra nella politica degli anni ’90; e poi: l’ascolto e il silenzio nei collettivi, il rapporto tra storia e autobiografia, la categoria di genere, le difficili relazioni tra femminismo e università, il recente biennio pornocratico".

venerdì 9 marzo 2012

Àlterazioni / I mercoledì di àltera. Collana di intercultura di genere


Black fashion power

Una presa di posizione già vecchiotta per gli standard del web (pubblicato su Le Monde a fine gennaio fa riferimento ad un articolo pubblicato dal settimanale francese Elle il 13 dello stesso mese) e che per mancanza di tempo neanche traduco, quindi l'interesse per i/le più sarà probabilmente pari a zero. Ma non importa, oramai uso spesso Marginalia come "taccuino degli appunti" e magari a qualcuno/a prima o poi tornerà sicuramente utile. Nel caso però poi ricordatevi di ringraziare ;-)

giovedì 8 marzo 2012

Otto marzo : femministe di tutto il mondo unitevi!

La "puntualità" non è il nostro forte: siamo fuori tempo massimo per segnalarvi la maratona-radio femminista del Mfla in onda oggi (perdono! ... ma riusciamo a riconnetterci per qualche minuto solo adesso). Comunque vi avevamo pre-annunciato l'iniziativa Femministe di tutto il mondo unitevi un mesetto fa e confidiamo sulla vostra memoria o su altri siti/blog che sono stati sicuramente più puntuali di Marginalia nel ricordarvelo. Comunque sul sito del Mfla trovate il palinsesto (la giornata non è ancora finita!) e in ogni caso "femministe di tutto il mondo unitevi" è un invito che non si esaurisce con questa giornata ;-)

Nella foto, per chi non l'avesse riconosciuta, Clara Zetkin

mercoledì 7 marzo 2012

Femminismi nel Mediterraneo / Genesis Call for Paper

 Genesis, la rivista della Società Italiana delle Storiche, come sviluppo del seminario tenutosi a Bologna il 14 dicembre 2011, Femminismi nel Mediterraneo, invita a presentare contributi per un numero monografico su questo tema. Specificamente, ci si propone di riflettere su approcci storiografici, categorie, teorie, strategie politiche con riferimento alle diverse realtà culturali dei paesi rivieraschi dell’Europa, dell’Africa del Nord, dei Balcani e del Medio Oriente, in epoca moderna e contemporanea.Il Mediterraneo, nel continuo peregrinare da una riva all’altra si rivela come crocevia di esperienze culturali, sociali e religiose, in conversazioni con ambiti culturali di matrice diversa, permettendo non solo l’assimilazione ma anche la rielaborazione di concetti che mostrano una realtà in fermento e in continua evoluzione. Ed è proprio nel laboratorio vivente del Mediterraneo che rintracciamo una ri-definizione plurale del femminismo. Gli studi, tra gli altri, di Margot Badran sull’Egitto (1995), di Mounira Charrad (2001) e Zakia Daoud (1994) sui paesi del Maghreb, di Julie Peteet sulla Palestina (1991) hanno contribuito alla decostruzione dell’idea di una presunta omogeneità all’interno del mondo “arabo-islamico”, dimostrando che le vicende politiche dei singoli paesi hanno influito profondamente sulle relazioni di genere, producendo esiti diversi. La necessità di trascendere i confini nazionali e ri-scrivere la storia dei movimenti femministi è parte integrante della riflessione storiografica contemporanea, come si evince dai lavori di Leila Rupp (1997), Edith Saurer, Margareth Lanzinger, Elysabeth Frysak (2006), Bonnie Smith (2000, 2005 e 2008), anche se il mondo francofono rispetto all’adozione di una prospettiva mediterranea per la storia del femminismo si rivela più ricettivo, come si evince dagli studi di Séverine Rey, Hélène Martin, Elisabeth Bäschlin, Ghaïss Jasser (2008) e Belkacem Benzenine (2011). Partendo da una storiografia consolidata, ci si chiede: quali sono le modalità con cui i movimenti femministi si sono rivelati nell’incontro con le altre componenti, comprese quelle femminili, delle società in questione? Dopo una lunga stagione in cui il femminismo si è definito prevalentemente dentro cornici ideologiche secolari, da cosa scaturisce e che esiti produce la riappropriazione del tema religioso? Come i femminismi del Mediterraneo, con le loro specificità culturali, interrogano il “femminismo taglia unica” o “féminisme pret à porter” (Fawzia Zouari, 2001) e i postulati del mondo occidentale su modernità, progresso, democrazia e uguaglianza? Esistono esperienze storiche che denotino lo spazio Mediterraneo, costruitosi nell’alternanza tra identità e differenze, continuità e fratture, quale luogo in cui i temi universali del femminismo sono stati declinati in conformità con le specificità culturali? Se studiata attraverso una prospettiva di genere quali rapporti di potere, sistemi di rappresentazione, meccanismi di esclusione si rivelano nella storia del Mediterraneo? Infine, quale visione di "spazio Mediterraneo" emerge dalle storiografie e dai movimenti femministi? Per maggiori info e le modalità/tempi di invio degli abstract rinviamo al sito della Sis.

lunedì 5 marzo 2012

Donne per l'Europa / Femmes pour l'Europe

Riceviamo dal CIRSDe (il Centro Interdisciplinare Ricerche e Studi delle Donne dell'Università degli Studi di Torino) il programma della giornata di studi Donne per l'Europa. Tra le due sponde del mediterraneo: immagini di donne per l'Europa. La giornata, che si terrà dopo domani, 7 marzo, a Torino, intendono essere uno stimolo "per il riconoscimento e la valutazione di un’Europa di genere in una prospettiva transculturale" e sarà incentrata "sulla visualità, data la crescente importanza di questo tema sia nella cultura contemporanea sia nelle iniziative delle donne. Questa tematica viene coniugata con la prospettiva di un’Europa mediterranea, illustrando i contributi che le donne e in particolare le artiste delle due sponde del Mediterraneo possono dare a tale prospettiva". Per il programma dettagliato della giornata (che prevede, tra gli altri, interventi di Luisa Passerini,Nadia Kaabi Linke,Federica Timeto, Hala El Koussy e Gabriele Proglio) e ulteriori info rinviamo al sito del CIRSDe.

Corpi senza frontiere. Il sesso come questione politica

Corpi senza frontiere. Il sesso come questione politica è il titolo del volume, appena pubblicato da Dedalo di Caterina Rea, docente di filosofia all’Université de Louvain-la-Neuve in Belgio e autrice di numerosi articoli e volumi, tra i quali Dénaturaliser le corps. De l’opacité charnelle à l’énigme de la pulsion (2009). L'assunto di base che sostiene Corpi senza frontiere, è che il sesso è un prodotto storico, un’"invenzione" umana che traduce rapporti di dominio e si esprime in un particolare sistema di potere. Di seguito pubblichiamo alcuni stralci dell'introduzione, Dalla natura umana all’istituzione. "La tesi di questo libro, poco condivisa dal sentire comune, ma affermata dal costruttivismo sociale, è che il sesso sia un prodotto storico, un’invenzione umana che traduce rapporti di dominio e si esprime in un tipo particolare di sistema di potere. Le sfere del corpo e del sesso sono state a lungo considerate dalle scienze umane e sociali come una dimensione privata e intima, sottratta al divenire della storia, dell’istituzione sociale e della discussione politica. Così, una certa fenomenologia del corpo ha preteso di rivelarne la dimensione eidetica, intesa come un in sé, un proprio che precede ogni produzione sociale e storica. Allo stesso modo, la psicoanalisi ha elaborato norme universali (il complesso di Edipo, l’ordine simbolico e talvolta perfino una comprensione biologizzante della pulsione) che pretendono di definire lo sviluppo psico-sessuale dell’individuo. In maniera analoga, benché ciò possa apparire a prima vista sorprendente, persino talune prospettive socio-antropologiche e giuridiche hanno posto al centro delle loro analisi la distinzione tra naturale e social-culturale, ma anche tra privato e pubblico, distinzione che non è stata senza conseguenze nell’ambito delle accese discussioni e decisioni politiche riguardanti i moderni cambiamenti socio-familiari. Per chiarezza desidero precisare che questo libro non si richiama volutamente al femminismo storico italiano e non si inscrive nella continuità con il pensiero della differenza sessuale che questo incarna, soprattutto attraverso la Comunità filosofica femminile Diotima a Verona. Due parole per motivare questa presa di distanza: pur affermando la necessità di una pratica che conduca alla politicizzazione del sesso, il femminismo differenzialista non fa propria la lettura denaturalizzata del mondo e dei rapporti sociali che è per noi la sola possibile premessa di una visione politica laica, libera dal peso di ogni riferimento metafisico, da ogni appello a un presunto originario o, più generalmente, da ogni riferimento meta-storico. Che cos’è infatti questa «donna», questo «femminile» a cui il pensiero della differenza fa riferimento? Si tratta di qualcosa che esiste prima dei rapporti sociali di potere propri del patriarcato e della sua organizzazione del mondo in dominatori e dominati? Insomma la differenza sessuale incarna un ordine ontologico, un senso in sé inscritto nelle cose oppure una configurazione universale dello psichismo umano? Un passo di Luisa Muraro ci sembra illustrare come la pratica di questo femminismo presupponga la pretesa di raggiungere un «senso vero dell’esperienza femminile». Questa pratica consiste infatti nel «risalire alle origini seguendo una genealogia femminile, così da trovarvi la fonte della propria forza originale, della propria originalità». Gli accenti naturalistici del femminismo della differenza si fanno ancora più forti nella produzione della psicoanalista Silvia Vegetti-Finzi che, in un testo pubblicato nel 1992, riprende il paradigma, già affermato da Freud, di una vicinanza originaria del femminile alla natura. Se così la relazione madre-figlia, come afferma lo stesso Freud, precede il linguaggio e il simbolico in quanto creazione storico-sociale, l’emancipazione femminile non potrà prescindere da un ripensamento del legame della donna con la natura. Si tratterebbe allora di riconoscere il ciclo biologico e il posto che, in esso, hanno le donne, al fine di elaborare una soggettività femminile capace di opporsi all’impresa maschile di dominio e di sfruttamento della natura. La via dell’emancipazione femminile passerebbe dunque, secondo la Vegetti-Finzi, per "Il compito di volgere al femminile il discorso sul femminile, cioè di avere il coraggio di ritrascrivere, ritradurre in un codice femminile (assumendo la soggettività femminile) il discorso che l’uomo ha elaborato su di noi e con il quale ci siamo così profondamente identificate". Siamo al nodo di questo mio libro che ha per obiettivo proprio la ricerca di un senso originario delle cose, l’idea che esistano modelli universali cui richiamarsi, fatta propria da chi postula una differenza intima, ontologica, essenziale e persino simbolica della donna. Questa differenza è invece solo e soltanto il prodotto della storia ispirata dalle logiche del patriarcato e dalla violenza della dominazione maschile. Quando si reclama il diritto alla differenza, afferma la sociologa francese Colette Guillaumin, da una prospettiva apertamente anti-naturalista, non si tiene conto del fatto che nessuno vorrà negarla, questa differenza, ai gruppi dominati, in quanto essa è il marchio stesso dello sfruttamento. «Reclamare la differenza come qualcosa di mirabile significa accettare la perennità del rapporto di sfruttamento. Significa pensare, a nostra volta, in termini di eternità». Nel corso di questo saggio, riprenderemo il pensiero di quelle femministe materialiste che affermano che i gruppi sociali non sono identità originarie, naturali o comunque precedenti l’organizzazione istituita, ma il prodotto di rapporti storici di potere e che il sesso, come la razza, deve essere considerato «come un marchio biologizzato che segnala e stigmatizza una “categoria alterizzata”». In Italia, come del resto negli Stati Uniti, il femminismo materialista francese è pressoché sconosciuto. Il cosiddetto French Feminism è identificato esclusivamente con le posizioni di Luce Irigaray, di Julia Kristeva e di Hélène Cixous che sono fautrici di un pensiero differenzialista ispirato a una rielaborazione della psicoanalisi lacaniana. Nel femminismo differenzialista manca, a nostro avviso, un’analisi compiuta della dominazione maschile, cioè la consapevolezza del fatto che è proprio del potere il qualificare come differente l’altro/a, il/la dominato/a. Com’è possibile infatti sostituire all’ordine simbolico patriarcale ciò che viene chiamato l’ordine simbolico della madre (genealogia femminile) se tale passaggio non tocca in profondità i rapporti effettivi di potere? Mi riferisco alla diversità, stabilita dalla stessa Muraro, tra ordine simbolico e ordine sociale. Una diversità che impedisce di vedere come l’ordine simbolico, centrato sulla differenza dei sessi, incarni, di per sé, l’apparato discorsivo e di sapere insito nel patriarcato in quanto insieme di rapporti sociali di sesso. Se l’ordine simbolico della differenza costituisce la dimensione discorsiva, linguistica e di sapere propria di una cultura, esso sostiene, veicola ed è al contempo l’espressione di un dispositivo di potere, di una certa strutturazione della trama delle relazioni sociali. In breve, l’ordine simbolico centrato sulla differenza non sfugge all’ordinamento patriarcale. Non a caso, forse, il differenzialismo rifiuta di far proprie le rivendicazioni di eguaglianza di diritti e di parità affermate dalla corrente del femminismomaterialista e radicale, ritenendo che esse portano a cancellare la specificità di quella differenza femminile ritenuta centrale.Alla base del rifiuto della rivendicazione di eguaglianza vi è dunque il timore dell’omologazione, il timore che, attraverso le pratiche emancipatorie, le donne siano costrette ad adeguarsi ai modelli maschili vigenti.Ma questo timore non ha ragion d’essere, come ha giustamente mostrato la critica di Christine Delphy; la paura dell’indifferenziazione vuole evitare "Che tutti si allineino al modello maschile attuale. Sarebbe, si dice spesso, il prezzo da pagare per l’eguaglianza, un prezzo troppo alto. Questa paura proviene da una concezione statica, dunque essenzialista, degli uomini e delle donne, corollario della credenza secondo la quale la gerarchia sarebbe in qualche modo sovrapposta a questa dicotomia essenziale. Ma, nella prospettiva del genere, questa paura è semplicemente incomprensibile. Se le donne fossero uguali agli uomini, gli uomini non sarebbero più eguali a se stessi. Perché allora le donne dovrebbero farsi simili agli uomini in ciò che essi avrebbero cessato di essere?". Sarebbe infatti impossibile assomigliare agli uomini in quanto dominatori e violenti dal momento in cui sono stati eliminati i pilastri stessi dell’ordine della dominazione e della sopraffazione. Una volta soppressa una della due categorie – dominatori/dominati –, è la logica stessa della dominazione, che sottende l’ordine patriarcale, a essere come tale eliminata. A questo punto si impongono alcune domande. Perché l’Italia ha storicamente prodotto in prevalenza un femminismo della differenza? Perché la nozione di differenza, in quanto effetto di rapporti di dominazione, è restata così a lungo un impensato e forse un impensabile? Perché in questa prospettiva il genere non figura se non come espressione linguistica che si fonda su una differenza di sesso pre-data e non come quell’apparato di potere che pone e stabilisce la differenza?. L’Italia sembra pagare, anche in questo caso, l’alto prezzo della presenza invadente del Vaticano e del potere della Chiesa Cattolica che limita ogni forma di pensiero critico, portatore di una visione denaturalizzata, costringendo gran parte dello stesso femminismo a una visione teologico-politica del mondo. Finisce qui almeno per il momento il mio incipit polemico. Si cercherà d’ora in poi di disegnare le diverse forme in cui si esprime la naturalizzazione dell’umano per smascherarne la portata, non solo teorica, ma soprattutto sociale e politica. Beninteso, tali forme di naturalizzazione non si riportano tutte a quel riduzionismo biologico e cognitivo che oggi si estende innegabilmente sempre più dall’ambito delle neuroscienze a quello delle scienze umane e sociali. Tra queste diverse espressioni di una lettura naturalizzata dell’umano, della sua vita corporea, sessuale e persino socio-affettiva o familire, includiamo ogni tentativo di sottrarre queste stesse sfere al divenire politico, ai mutamenti sociali e storici dell’istituzione. Si tratterà allora, ogni volta, di rovesciare le pretese di certezza avanzate da queste prospettive. Passeremo, in questo modo, attraverso la fenomenologia del corpo, ridefinita come fenomenologia dell’opacità, per indicarne lo scacco nella pretesa di pervenire a un’auto-donazione del senso. Analizzeremo, seppur in breve, il riduzionismo neuroscientifico, per denunciarne il rilancio della nozione di natura umana. Attraverseremo, quindi, la teoria freudiana della sessualità per rovesciarne la dimensione ancora biologizzante in una lettura defunzionalizzata della pulsione. Infine, cercheremo di sovvertire quel granitico monolite che è l’ordine simbolico, dietro al quale si trincerano oggi quelle posizioni conservatrici che vorrebbero frenare i cambiamenti sociali. Particolarmente quei cambiamenti che investono sempre più l’ordine sessuale che fissa i rapporti di potere tra i sessi e struttura l’ordine familiare centrato sul primato della legge fallica e paterna. Il ricorso alla naturalizzazione e all’essenzializzazione delle differenze non risponde proprio alla logica politica della dominazione, così come ci insegnano recentemente gli studi di genere e post-coloniali? Se non esiste un senso univoco, immediato e universalmente dato, se la nozione di natura umana, cara alla tradizione metafisica e reinvestita dalle attuali neuroscienze, si rivela come priva di valore, quella sfera del senso, entro la quale l’umano si muove, ci apparirà ben più incerta, senza garanzie, problematica. Essa non è infatti manifestazione di un ordine trascendente e immutabile, ma il prodotto di una creazione umana, una produzione della storia e delle istituzioni, sempre anche attraversate da rapporti di potere, da gerarchie e interessi che si tratterà di volta in volta di ritrovare. In queste pagine si avverte una duplice tensione: quella che lega la riflessione sull’istituzione storico-sociale, propria di Cornelius Castoriadis, e quella che mette in luce le logiche dei rapporti di potere, delle forme di dominazione e di esclusione elaborate dal filone foucaultiano degli studi di genere e degli studi post-coloniali. Attraverso questi molteplici riferimenti, cercheremo quindi di mettere a confronto queste due tradizioni – castoriadiana e foucaultiana – che fino ad ora sono rimaste spesso separate, ma il cui confronto ci appare essenziale per l’elaborazione di una critica sociale radicale. La nostra corporeità, così come noi ne abbiamo esperienza, non precede il processo della sua materializzazione, cioè la sua produzione attraverso la trama simbolica delle significazioni sociali e storiche, di regole e norme, pratiche ed espressioni culturali che la costituiscono e la producono come umana. In questa direzione, discuteremo l’idea di base naturale che non è da intendere come un prima rispetto alla produzione sociale: in quanto in sé inaccessibile, poiché non trasparente e immediatamente data, essa è incessantemente elaborata e persino prodotta dalle forme culturali e linguistiche, dalle pratiche discorsive e normative, cioè dalla storia. In questo senso, come afferma chiaramente la filosofa americana Judith Butler, la materia stessa del nostro corpo è storica, deposito di sedimentazioni dei discorsi e delle pratiche che di volta in volta l’hanno istituita. Più in generale, mostrare che il corpo non è subordinato a un senso primario e naturale che esso dovrebbe riprodurre fedelmente significa affermare che ogni scarto o differenza rispetto a questo «modello» supposto originario non è riconducibile a uno scacco, a una forma devalorizzata di esistenza in quanto contraria ai dettami della natura umana. Ciò cui siamo ogni volta confrontati è piuttosto una delle svariate modulazioni e possibilità non riducibili a un’identità prima, è una produzione o copia senza modello o, per dirlo con la Butler, «un’imitazione senza originale». La nozione di genere introdotta dai Gender Studies americani, ma anche dal femminismo materialista francese ci sembra a questo proposito di primaria importanza. In quanto non fondato su una presunta anteriorità ontologica e naturale del sesso, essa ci appare come l’esempio di ciò che intendiamo per denaturalizzazione. In questo senso, il genere è proprio una produzione senza originario, una categoria critica che permette di leggere i rapporti di potere istituiti come rapporti non necessari e aperti a possibili contestazioni e trasformazioni. Non si tratta di riprendere semplicemente la versione corrente della teoria della performance come se essa fosse l’espressione di un soggetto volontaristico e individualistico capace di modificare il genere a suo piacimento quasi come si indossa ogni giorno un abito diverso. Ciò che intendiamo elaborare è una nozione di performatività come avvenimento storico e temporale, dunque come atto socialmente istitutito e istituente che forgia e plasma quelle differenze che venivano prima considerate come stabili, essenziali e originarie. Benché esso agisca sul piano del linguaggio, il performativo veicola pratiche normative e rapporti di forza. In questo senso, possiamo parlare di un’esplosione del soggetto storico del femminismo, cioè del fatto che esso non può essere circoscritto a una qualche differenza femminile chiusa in se stessa, alla figura quasi ipostatizzata di un «significante Donna» inteso come una realtà in sé, appartata rispetto al problema politico posto oggi sempre più dalle altre minoranze, da tutti quei gruppi resi subalterni e discriminati in funzione di criteri di sessualità, di razzializzazione o di classe sociale. Solo considerando questa condizione denaturalizzata dell’esistenza umana e del suo essere corporeo, già fin dall’inizio implicato in un mondo di significati sociali, linguistici e culturali, possiamo comprendere il valore della creazione immaginaria. Essa non conosce strade pre-tracciate, modelli eterni e immutabili ai quali attenersi nell’impeto incessante e sempre innovatore del suo produrre. Questo è anche il senso dell’istituzione in quanto cammino sempre aperto e senza garanzie, poiché si costruisce proprio mentre lo si percorre. Se noi cerchiamo di allontanarci da ogni visione essenzialista e naturalista del corpo e dell’umano, la nostra riflessione non giunge al suo termine se la corporeità, sottratta all’ordine naturale, è poi assegnata a un ordine simbolico concepito come trascendente e metastorico. Il gesto che mira a denaturalizzare e a de-ontologizzare il corpo non può realizzarsi senza sottoporre a critica anche la sfera dei significati, l’ordine simbolico appunto, al quale il corpo denaturalizzato è riassegnato. Come risignificare allora questa sfera simbolica non più come una struttura universale e permanente ma come una realtà contingente e mutevole, aperta alle svariate possibilità di trasformazione che la storia e il movimento stesso dell’istituzione potranno imprimerle? Si tratta di dare alla politica, in quanto creazione sociale, produzione di nuove norme, deliberazione e contestazione, un ruolo di primaria importanza per definire lo statuto stesso dell’umano e della sua corporeità. La recente politicizzazione delle questioni legate alla sfera corporea, sessuale e familiare (dall’evoluzione dei rapporti socio-familiari e di genere, alle nuove forme di legame parentale e di filiazione, dall’affermazione dei diritti sessuali e (non) riproduttivi alle possibilità aperte dalla procreazione medicalmente assistita) mostra l’irruzione dirompente sulla scena pubblica di quella sfera fino a poco tempo fa considerata come privata, sfera dell’intimo indipendente e avulsa dai cambiamenti della storia e dalle sue molteplici variazioni. Anzi, proprio sul terreno di queste questioni, alle quali il panorama socio-politico italiano si affaccia ancora timidamente ma non senza controversie e sussulti, si gioca oggi la tenuta stessa della democrazia e della laicità, intese come mancanza di ogni riferimento trascendente e sovrasociale, di ogni garanzia ultima che dovrebbe guidare e orientare le decisioni collettive. Se la sfera corporea e sessuale costituiva – e costituisce ancora in parte – l’ultima frontiera di una visione naturalizzata o comunque sacralizzata dell’umano, di un ordine considerato come ontologicamente estraneo alla contingenza delle vicende politiche, oggi questa sfera diviene sempre più oggetto di dibattito, di negoziazioni e di deliberazioni collettive, diviene cioè parte di quell’orizzonte della doxa che non conosce verità stabili e predefinite. Il concetto di democrazia sessuale utilizzato dal sociologo francese Eric Fassin ci aiuterà infine a precisare le poste in gioco politiche della denaturalizzazione e di una concezione della corporeità che la sottragga alla pretesa di accedere a un senso ultimo e immediato. Come vedremo, con questo termine si intende «l’estensione del dominio democratico, con la politicizzazione crescente delle questioni di genere e di sessualità che rivelano e incoraggiano le molteplici controversie pubbliche attuali» mostrando che questi ambiti non si sottraggono alle tensioni e alle trasformazioni che attraversano la sfera sociale(dal libro di Caterina Rea, Corpi senza frontiere. Il sesso come questione politica, pubblicato dalle Edizioni Dedalo).

sabato 3 marzo 2012

giovedì 1 marzo 2012