mercoledì 8 ottobre 2025

7 ottobre 2023 - 7 ottobre 2025: Alcune riflessioni sul concetto di resistenza

In un articolo pubblicato sul suo sito qualche giorno fa (e che riporto in coda a questo post) Lavinia Marchetti, già dal titolo (Quanta disumanità deve subire un popolo prima che la sua risposta venga letta come politica e nn solo come orrore? Riflessioni sul 7ottobre2023) poneva una domanda che meriterebbe l' avvio di una più ampia e collettiva discussione. Lo "spunto" sono i fatti, oramai di pubblico dominio, dello striscione (nella foto, anche questa ampiamente circolata sui media) con la scritta "7 ottobre, giornata della resistenza palestinese" con le reazioni che ha suscitato. Lo stesso copione è andato in scena ieri con il volantino di indizione di un presidio in piazza Nettuno di GP Bologna, presidio che ha visto poi un dispiegamento spropositato di forze dell' ordine con una gestione della piazza più che violenta, ridotta oggi dalla stampa mainstream (e non solo, purtroppo) sotto la solita dicitura "scontri". Intanto questa notte l' IDF ha abbordato le nave Coscience della FFC che insieme alle barche della Thousands Madleens trasportava aiuti e medici (tra questx tre palestinesx) verso la Striscia. Non si sa ancora nulla di certo degli equipaggi rapiti. Nello stesso tempo, a Gaza continua a essere l' inferno che oramai conosciamo: nessuna tregua, continuano senza sosta i bombardamenti, la fame, le uccisioni. Con una forza e costanza che strazia Mosab Abu Toha - scrittore e poeta palestinese - un giorno dopo l' altro continua a trascrivere i nomi dei morti *** QUANTA DISUMANITÀ DEVE SUBIRE UN POPOLO PRIMA CHE LA SUA RISPOSTA VENGA LETTA COME POLITICA E NON SOLO COME ORRORE? RIFLESSIONI SUL 7 OTTOBRE 2023 di Lavinia Marchetti Ci ho pensato molto prima di scrivere questo post. L'argomento è delicato e andava scritto a freddo, rivedere posizioni, letture, mettersi in discussione anche personalmente, del resto non sono qui tanto per farmi amici, ma per mettere in discussione tutto ciò che ci viene propinato, con ragionamenti, fatti e dati. I fatti li conoscono tutti: uno striscione con la scritta “7 ottobre, giornata della Resistenza palestinese” è apparso nel corteo per Gaza, insieme a cori che inneggiavano ad Hamas e al bombardamento di Tel Aviv. Le reazioni sono state immediate: accuse di antisemitismo, indignazione istituzionale, nuove minacce di repressione. Eppure quel cartello, con la sua brutalità e la sua ambiguità, porta dentro una domanda che la politica evita: cosa diventa la violenza quando il potere la esercita da decenni solo contro una parte? La storia italiana conosce bene questo nodo. Claudio Pavone, nel suo libro Una guerra civile (testo molto importante), ha spiegato che la Resistenza fu al tempo stesso guerra patriottica, civile e di classe. Dentro quella triplice natura, ogni atto armato si muoveva tra moralità e necessità, ma anche tra vendetta e giustizia. Pavone scrive: “La deliberazione di uccidere nasce in un clima di guerra dove la morte costituisce una dimensione quotidiana”. La stessa parola “Resistenza” nasce in un paesaggio dove il monopolio statale della violenza è già corrotto. Chi agisce in nome della libertà diventa colpevole perché rompe la forma del potere. Molti episodi partigiani oggi verrebbero giudicati terrorismo. L’attentato di via Rasella del 23 marzo 1944, condotto dai GAP contro il battaglione Bozen, provocò la rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Centinaia di civili uccisi. Eppure Norberto Bobbio definì quella stagione “il solo grande moto popolare dell’Italia moderna”. La violenza dei partigiani fu considerata legittima perché rispondeva a un’occupazione militare e a una dittatura che aveva tolto parola e corpo a un popolo intero. In Piemonte, nella primavera del 1945, comandi partigiani ordinarono “esecuzioni patriottiche” di fascisti e collaborazionisti. Moltissimi storici hanno analizzato quei documenti con rigore: vi trovarono crudeltà, anche estrema, ma anche una volontà politica di restituire giustizia dove lo Stato era crollato. In molte valli le armi servirono a riconquistare la possibilità stessa di giudicare. Il gesto di chi oggi espone uno striscione su Gaza nasce in una contesto simile, dove la storia non si applica unilateralmente. Noi possiamo, loro no. Dentro un contesto coloniale e di apartheid, dove i civili palestinesi vengono bombardati, privati d’acqua, confinati, un simbolo violento diventa linguaggio di disperazione. Non redime la brutalità del 7 ottobre (peraltro le responsabilità di Israele sembrano ormai evidenti). La trasforma in domanda: quanta disumanità deve subire un popolo prima che la sua risposta venga letta come politica e non solo come orrore? Le parole contano. Chi urla “Resistenza” a Roma di certo non sta lì a celebrare un massacro. Evoca un diritto che in Europa abbiamo esercitato con il sangue, convinti che la libertà valesse più della pace mortifera di uno sterminio. Anche i partigiani sbagliarono, anche i loro gesti terrorizzarono. Eppure senza di loro, assieme agli alleati che ci bombardarono a tappeto... l’Italia sarebbe rimasta un Paese occupato, muto, addestrato all’obbedienza. Oggi la stessa logica pretende di giudicare la rabbia palestinese senza guardare la prigione che la genera. Condannare la violenza è doveroso. Ignorare la sua origine significa partecipare alla sua causa.
Articolo pubblicato sul mio profilo Facebook Vi Marginalia .