sabato 31 ottobre 2009

Assemblea nazionale femminista in extremis


Difficilissimo gestire un blog per una (quasi) comune mortale come me. Presa da mille cose (vi risparmio l'elenco) e stremata da discussioni nelle quali mi rifiuto di entrare, solo ora ecco in extremis l'annuncio dell'assemblea nazionale di femministe e lesbiche promossa da quel che resta - se ho ben capito - della fu rete Sommosse, che si terrà oggi a Bologna (v. del Piombo, 5) a partire dalle 10, assemblea indetta in vista della manifestazione del 28 ottobre 2009 contro la violenza maschile sulle donne. Ci sarò soltanto nel primissimo pomeriggio, ritardo treno permettendo. Con chi c'è (c'è), ci vediamo lì ...
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L'immagine è tratta da Kamikaze Women, un'installazione di Gioraro.
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venerdì 30 ottobre 2009

Gli standard giornalistici intrisi di razzismo e sessismo visti dalla Next Generation Italy

Un benvenuto nel web alle/ai ragazze/i italiane/i di "seconda generazione" originari di vari paesi (Albania, Eritrea, Marocco, Egitto ...) e al loro blog Next Generation Italy, di cui vi segnalo Standard giornalistici, un articolo che analizza i diversi "standard giornalistici" della stampa italiana che mentre fa scorrere fiumi di inchiostro quando l'omicida o lo stupratore è un uomo migrante (basti pensare a Hina Saleem, Saana Dafani o Giovanna Reggiani) liquida in sole 12 righe il caso di quel violento fondamentalista razzista padre italiano che ha tentato qualche settimana fa di uccidere la figlia con un punteruolo poiché non ne sopportava la relazione con un albanese ...
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Sulla censura di Gay Imperialism e Out of Place

Come già preannunciato ecco finalmente la traduzione di On the censorship of 'Gay Imperialism' and Out of place, presa di posizione di X:talk sulla censura che si è abbattuta sul volume Out of Place, ed in particolare sull'articolo Gay Imperialism e sui suoi autori , presa di posizione che avevo già pubblicato nella versione inglese e che ora potete leggere in italiano grazie al lavoro di un altro gruppo di mitiche&infaticabili traduttrici militanti, (la traduzione è un'arma). Questa volta il thanks! va tutto alle traduttrici italianofone del progetto X.talk .E' veramente urgente far circolare questa ed altre prese di posizione, per esprimere il nostro fermo rifiuto della censura che ha colpito Out the Place: potete "solidarizzare" facendo girare questa traduzione, leggendo e diffondendo l'articolo Gay Imperialism (che potete scaricare in pdf QUI) e scrivendo a Jin Haritaworn (The Gender Institute, The London School of Economics and Political Science, Houghton Street, London WC2A 2AE, UK). E' importante anche aprire (o ri-aprire magari a partire da episodi recenti e meno recenti) una seria riflessione non solo sulla presenza, in discorsi e pratiche che si vorrebbero antisessiste e antirazziste, di elementi di sessismo e razzismo (nelle loro varie e molteplici forme) ma anche sulla modalità - non degna di un dibattito politico - di rispondere alle critiche muovendo accuse di "personalismi". Disgraziatamente conosco benissimo questo meccanismo (visto che ne sono stata vittima in diverse occasioni per aver criticato discorsi e pratiche provenienti da ambiti di "movimento": femministi, antifascisti, antisessisti e/o antirazzisti), ne conosco i nefasti effetti e "il prezzo da pagare". Tutta la mia solidarietà (politica, umana, personale) a Jin Haritaworn, Tamsila Tauqir and Esra Erdem e, ovviamente, buona lettura (e riflessioni) a tutti/e.
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Abbiamo recentemente assistito all'ennesimo tentativo di mettere a tacere le voci che denunciavano politiche paternalistiche e neo-imperialiste battendosi contro posizioni islamofobiche e di attivismo omonazionalista. Il 7 settembre il libro Out of Place: Interrogating Silences in Queerness/Raciality (2008), a cura di Adi Kunstman e Esperanza Miyake, è stato dichiarato fuori stampa dal suo editore Raw Nerve. Il testo, primo volume accademico che si interroga sulla connessione tra queer e etnicità in Gran Bretagna, contiene un importante articolo - scritto da Jin Haritaworn, Tamsila Tauqir and Esra Erdem - , dal titolo "Imperialismo gay: discorso su genere e sessualità nella guerra del terrore", che spiega come discorsi sui diritti gay vengano strumentalmente utilizzati per giustificare politiche neo-imperialiste, "anti-migranti" e islamofobiche. Gli autori appartenenti ad etnie diverse da quella bianca, islamici queer e femministe migranti, partendo da posizioni Trans/queer, sottolineano come l'equazione di "Islam" con "omofobia" (tanto quanto sessista) ha contribuito al restringimento dei margini, alla ri-costruzione dell'occidente come campione di civilizzazione e modernità e alla vittimizzazione di queer islamici. In Germania, ai/alle migranti provenienti da "paesi islamici" che chiedono la nazionalità, viene richiesto di passare un "Test islamico", nel quale vengono poste domande del tipo: “Cosa faresti se tuo figlio fosse gay?” In Olanda, viene chiesto ai/alle richiedenti di reagire ad un video che mostra due uomini che si baciano. Prendendo spunto da Chandra Talpade Mohanty (1991) e Jasbir Puar (2007) l'articolo mostra la non casualità dell'attenzione puntata sui regimi non occidentali e sulla questione di genere e sessualità all'interno della comunità islamica, da cui deriva - allo stesso tempo, come nel caso della "Guerra del terrore" – l'aumento delle restrizioni delle politiche migratorie e, più in generale, l'accrescimento dell'islamofobia. Gli autori mettono in rilievo come i diritti gay e l'uguaglianza di genere, anche se sono stati raggiunti molto recentemente e non in modo esaustivo, sono divenuti nei paesi occidentali simbolo di civilizzazione e modernità. Pur se l'importanza (anche se limitata) di questi diritti e dell'uguaglianza non è messa in discussione, gli autori mettono in guardia dalla politica emancipatoria di matrice bianca e occidentale che si richiama all'universalità appropriandosi di donne e queer non bianch* e islamici non-occidentali e servendosi di discorsi razzisti e neo-imperialistici. Sembra piuttosto ovvio tracciare una linea parallela con le femministe abolizioniste occidentali che nutrono le leggi sulla sicurezza - criminalizzando migranti, lavoratori e sex worker - alimentando politiche di deportazione e marginalizzazione in nome della lotta contro la violenza di genere. Queste stesse società, che discriminano e negano le persone islamiche, criminalizzano sempre più i/le sex worker utilizzando l'idea dell'omofobia e della violenza di genere come strumenti per deportare e detenere migranti, sex worker e “people of colour”. Ci sono molti paralleli tra i discorsi abolizionisti e quelli islamofobici: la tendenza per la maggior parte dei bianchi e delle bianche occidentali di gruppi queer e di gruppi sui diritti gay, è quella di parlare per loro stess*, di salvare se stess*, ignorando e rafforzando una multipla oppressione, invece di lavorare con organizzazioni islamiche o non bianche e non occidentali (o anche semplicemente ascoltando che cosa questi gruppi abbiano da dire). Allo stesso modo, le femministe abolizioniste occidentali non ascoltano le voci dei e delle migranti sex worker, e così facendo li relegano in uno stato di vittime che necessitano per salvarsi della politica femminista occidentale o, anche, della polizia di frontiera che li assisterà nel ritorno a casa. Le/i Sex worker migranti sono paragonate/i con le vittime di tratta, viste solo come donne passive e ingenue, prive - contrariamente alla realtà -, di un vero e proprio progetto migratorio. L'articolo Gay Imperialism porta avanti proprio questa critica e traccia un' acuta analisi, fornendo bibliografia e riferimenti ai testi criticati. Gli autori, purtroppo, hanno fatto l'errore di citare, senza nasconderli dietro nomi inventati o in codice, esempi di politiche bianche sui diritti queer/gay che riproducono un approccio islamofobico e paternalistico nei confronti di persone queer islamiche - incluso Peter Tatchell in Gran Bretagna. Come risposta, l'editore Raw Nerve ha pubblicato scuse formali a Peter Tatchell, scuse che possono essere lette sul sito http://www.rawnervebooks.co.uk/Peter_Tatchell.pdf e ha ritirato l’intero libro dalla vendita. Le scuse ritengono l'articolo una falsa accusa di razzismo e islamofobia nei confronti di Peter Tatchell ed elencano una lunga serie di presunte falsità contenute nel testo, citate fuori dal contesto e erroneamente rappresentate come accuse a titolo personale. Proprio per questo, gli autori sottolineano ironicamente la difficoltà di avere una voce critica contro Peter Tatchell. L'intransigente censura è in forte contrasto con la radicale difesa della libertà di cui si fa promotore Tatchell. Questa sua intransigente difesa della libertà lo ha portato a partecipare nel 2006 alla Marcia Free Expression, a cui hanno aderito vari gruppi fascisti e razzisti. Ancora una volta, voci marginalizzate sono state minacciate e messe a tacere, ma questa volta, tale silenzio è stato deciso da chi si professa campione e promotore della libertà. Le campagne di Peter Tatchell sono esplicative dei limiti del modo post-politico dell' attivismo da celebrità, dove i bisogni di molti sono sacrificati per dare celebrità e potere a pochi. Questa sua tendenza all'autocelebrazione si riflette nel fatto di aver denominato con il suo stesso nome la fondazione di cui è a capo (come la Peter Tatchell Human Right Fund). "Peter Tatchell", molto più che OutRage!, è uno dei nomi più citati nelle rappresentazioni dei media occidentali riguardo l'attivismo sui diritti gay. Le scuse di Raw Nerve trasformano in personalismi questioni che sono invece politiche facendo sì che la giusta e documentata critica portata avanti da Haritaworn, Tauqir e Erdem , e la successiva censura e ritiro del libro, sia vista come un problema personale fra gli autori e Peter Tatchell. Questo tuttavia elude il punto principale. Nessuno ha qualcosa di personale contro Peter Tatchell. Nessuno, inoltre, contesta che lui si consideri sinceramente antirazzista, antimperialista o anti-islamofobico. Comunque, fa parte del lavoro di alleanze assumersi la responsabilità di affermazioni o azioni che riproducono strutture oppressive. Fa parte dell'essere una persona pubblica l'apertura alla critica piuttosto che il volerla azzittire con la forza. Purtroppo, questa non è la prima volta che queer non bianch* e queer non occidentali hanno criticato Peter Tatchell e sono stati puniti per averlo fatto. Le campagne in Africa di Tatchell e Outrage! sono state fortemente criticate per non aver ascoltato gli/le attivist* LGBT africani che dichiaravano quanto le loro azioni fossero infatti dannose. In una lettera aperta citata dagli autori di Gay Imperialism, alcun* attivist* hanno descritto come Tatchell e Outrage! abbiano ripetutamente non rispettato vissuti, danneggiando le lotte e mettendone a repentaglio la sicurezza, di chi lotta per la difesa dei diritti umani africani (fonte: http://mrzine.monthlyreview.org/increse310107.html). Questo modo di agire viene definito neo-colonialismo, interpretazione che noi condividiamo. Questa dichiarazione, che si può ancora fortunatamente trovare nella rete, è stata anch'essa vittima di una risposta punitiva, risposta punitiva che è reiterata, nei confronti degli autori di Gay Imperialism dalle "scuse" di Raw Nerve. Condanniamo questo tentativo di reprimere le voci di queer of colour e di queer non occidentali ed esprimiamo il nostro supporto sia a chi difende i diritti umani dei queer africani, sia agli autori di Gay Imperialism che resistono alle dichiarazioni e alle azioni razziste e imperialiste fatte in nome delle politiche bianche e occidentali sui diritti della comunità LGBTQ. È senza dubbio all'interno della logica neo-imperialista che un uomo gay bianco e occidentale può ottenere il ruolo di colui che salva queer non-occidentali e islamici vittimizzati, e al contempo rafforzare i discorsi islamofobici che costruiscono un occidente moralmente superiore. Ed è ancora all'interno della logica neo-imperialista che si possono vedere le femministe bianche abolizioniste unire le forze con lo Stato che si fa portatore di un razzismo istituzionale in nome dei diritti delle donne. Come sappiamo dal nostro lavoro, per i/le sex worker migranti questo spesso significa il diritto di essere salvato e deportato, non il diritto di decidere sul proprio lavoro e sulle proprie vite. X:talk è nato dalla necessità di far sentire le voci marginalizzate, opponendole ai discorsi paternalisti e criminalizzanti che ci negano il diritto di parlare per noi stess*. Perciò condanniamo la censura di Out of Place come atto di forza che conferma la validità e la necessità politica di quell'articolo. La censura di Gay Imperialism e della raccolta Out of Place conduce verso una nuova preoccupante direzione. Molti di noi possono aver pensato che fosse stato raggiunto un certo grado di libertà di espressione per le voci marginalizzate. Invece è stato ribadito che vi è un prezzo da pagare quando si fa apertamente e seriamente critica antirazzista e, soprattutto, è stato ribadito chi è a pagare. Abbiamo perso un importante documento e la possibilità di formare un' opinione autonoma e non vincolata dai discorsi dominanti. Abbiamo la speranza che questa censura abbia l'effetto opposto: quello di intensificare e di far sentire ancora più forte le nostre voci; di potenziare nuove alleanze attraverso l'attivismo e i movimenti accademici, per combattere le oppressioni in tutte le sue facce – incluso il mantello con cui si veste il movimento femminista e il movimento dei diritti gay.

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giovedì 29 ottobre 2009

Storia di un'ex-colonizzata tra mito degli italiani brava gente e realtà razzista della postcolonia

Mentre qualcuna riprende la storia di Salmata Bamba - la donna in fuga dalla Costa D'Avorio e finita, su due piedi, in un Centro di identificazione ed esplulsione - e lo fa con un titolo terribile e magnifico (Prego signora, si accomodi all'Hotel Italia), leggo di un'altra donna appena giunta dall'Eritrea, dopo un viaggio da incubo durato mesi: prima attraverso il Sudan, poi - dopo una sosta di tre mesi in Libia - per dieci lunghissimi giorni in un barcone, con altre/e quasi trecento persone (donne, uomini, bambine/i) che le autorità maltesi ed italiane lasciano alla deriva senza cibo e acqua nel solito scarico di responsabilità (e non tutte/i ce l'hanno fatta). Marhaout, 19 anni, incinta, è ora ricoverata in un ospedale siciliano e non ho idea di cosa ne sarà di lei da qui a qualche giorno. Ma leggo, in un articolo, la sua storia, e sì ,anche questa ti strozza la gola. Perché Marhaout racconta di essere giunta qui rincorrendo una sorta di sogno, quello dell'Italia "paese più bello del mondo", paese che lei ha amato attraverso i racconti del nonno, Mario Golino, partito da Roma per l'Eritrea durante gli anni dell'impresa coloniale in Africa. Sposato con una donna del luogo è questo ex-colono che trasmette "a figli e nipoti l'amore per l'Italia". Insieme ne ha trasmesso, direi, anche il mito. Non mi è dato sapere cosa ne sarà di Marhaout, se sarà esplulsa, se sarà rinchiusa in un Cie o se, infine, riuscirà a restare in Italia (dovrebbe poter godere del diritto d'asilo), trovando magari poi lavoro come "badante" o "colf" presso qualche brava famiglia italiana che le conterà anche la frutta che mangia ("metà mela a pranzo e l'altra metà a cena", così imponeva uno dei "badati" ad un'amica, arrivata anche lei dall'Eritrea quasi dieci anni fa, con altri sogni, speranze, desideri, ben lontani dalla lotta quotidiana per piccoli margini di libertà, come poter mangiare se non due, almeno un solo frutto al giorno, ma senza dividerlo a metà, che la sera è tutto nero ...). O forse sarà fortunata, qualcuno dei "possibili parenti italiani" (ha perso nomi e indirizzi in mare) si farà vivo. Ma in ogni caso non mi è dato sapere cosa penserà Marhaout di questo paese quando imparerà a conoscerlo: il paese dei Cie, del pacchetto sicurezza, dei Maroni e dei Gentilini (non soltanto quelli che vedi in tivù, ma quelli e quelle che incontri ogni giorno per strada, sui bus, negli uffici e magari di urlano "sporca negra"). Il paese dove si sono consumate le storie di Mabruka, di Kante, di Joy ... Quel paese che Zahra (somala, giunta anche lei in Italia immaginandolo un "paese meraviglioso") ha abbandonato con amarezza (e senza miti) dopo 28 anni, non sopportandone più il clima di pesante razzismo.
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martedì 27 ottobre 2009

XM24: Difendere la "razza". Identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini


Domani, alle ore 19.30, presso XM24 (via Fioravanti, 24 - Bologna) presentazione del volume di Nicoletta Poidimani Difendere la "razza". Identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini. Oltre all'autrice interverranno Vincenza Perilli e Mauro Raspanti.
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Articoli correlati in Marginalia:

Culture razziste e politiche sessuali dall'Impero alla postcolonia
Difendere la "razza". Identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini
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Storia di una donna migrante, dalla Costa D'avorio al Cie di via Mattei

Si chiama Salmata Bamba ed è arrivata dalla Costa D'Avorio in Italia chiedendo lo statuto di rifugiata. Al suo posto in agosto le viene notificato un mandato di espulsione. Parla poco l'italiano, non riesce o non può far valere i suo diritti. Continua a cercare lavoro. Finalmente lo trova, un posto come badante presso una famiglia di Napoli. Qualche settimana fa si reca in questura per ultimare le pratiche di regolarizzazione ma qui "succede l’impossibile, ciò che non avrebbe mai creduto potesse succedere in un paese democratico": viene arrestata e portata nel Cie di via Mattei a Bologna. Così, su due piedi. Non le viene neanche permesso di poter portare con sé qualche oggetto personale. Tramite la figlia di coloro che sarebbero dovuti diventare i suoi datori di lavoro, apprendiamo che non ha neanche il sapone per lavarsi e che porta ancora addosso gli abiti che indossava al momento dell'arresto. Un po' poco per quello che è stato definito "hotel di lusso per migranti". Nell'unico articolo che ho trovato su di lei (una storia così non fa notizia) - nel sito di Peacelink - si dice che Salmata è una donna "semplice, umile e troppo vulnerabile per affrontare la crudele realtà di questo Paese". Ma chi può affrontarla tutta sola? Ci auguriamo che Salmata abbia trovato all'interno la solidarietà e l'appoggio delle sue compagne di prigionia. E che fuori trovi presto la nostra.
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domenica 25 ottobre 2009

Debout! In memoria di Carole Roussopoulos


Ho appreso ieri sera della morte di Carole Roussopoulos. Il suo primo film che ho visto, se la memoria non mi inganna, credo sia stato S.C.U.M, parecchi anni fa, durante una delle mie tante giornate/notti en promenade per Parigi, tra cinema e femminismo. Film bellissimo, girato nel 1976, con una bellissima Delphine Seyring che legge S.C.U.M Manifesto di Valerie Solanas, mentre la regista batte a macchina e la televisione trasmette immagini di donne che protestano contro al guerra in varie parti del mondo. All'epoca, Roussopoulos era quasi del tutto sconosciuta in Italia (del resto solo recentemente le è stata dedicata una rassegna a Trieste), ma già un mito in Francia. Aveva cominciato a fare video a Parigi sul finire degli anni '60, acquistando la prima videocamera su consiglio di Jean Genet, dopo essere stata licenziata da Vogue su due piedi (per ulteriori notizie biografiche, sul sito di Divergences trovate degli estratti dell'intervista a Roussopoulos pubblicata da Nouvelles Questions Féministes solo qualche mese fa). Io, in quegli anni di nomadismo tra Italia e Francia per mantenermi facevo una miriade di lavoretti e tra questi (senza troppa convinzione, certo) anche fotografie di moda e il fatto che Roussopoulos fosse passata anche lei per certi ambienti per potersi poi dedicare ad altro aveva un non so che di consolante (ero più giovane). Negli anni mi è capitato di vedere, in diverse occasioni, i suoi film, credo la maggior parte se non proprio tutti. Da Genet parle d'Angela Davis, al film realizzato con Christine Delphy per i cinquant'anni de Il secondo Sesso di Simone de Beauvoir, fino a Debout! Une histoire du mouvement de libération des femmes, forse il suo film più famoso che ho visto e rivisto: al festival di Créteil nel 2000, ancora alla fine di un incontro organizzato da un collettivo femminista parigino da qualche parte nel diciannovesimo arrondissements, l'ultima volta al Centre George Pompidou credo o forse alla Cinémathèque. Mi rendo conto solo ora, tentando di rimettere a posto frammenti di ricordi, immagini, parole, quanto questa donna avesse toccato nei suoi film nel corso degli anni tutte le questioni che ritengo (riteniamo) oggi così importanti e centrali: aveva dato parola alle outsiders - dalle sex workers (che negli anni 70 si chiamavano ancora prostitute) alle donne migranti -, aveva parlato di aborto, di stupro e di violenza domestica (Viol coniugal, viol à domicile si intitola uno dei suoi lavori) e filmato le prime uscite pubbliche del F.A.R.H (Front Homosexuel d'Action Révolutionnaire). Ma soprattutto era stata capace di essere non soltanto una cineasta (un'artista, un'intellettuale, una teorica) che guarda le cose restandone fuori (come tanti/e) ma soprattutto una militante, un'attivista. Era stata in Palestina, aveva insegnato l'uso della videocamera a Black Panthers e altre/i militanti di diversi movimenti di liberazione (ad Algeri e altrove) e soprattutto era stata interna al movimento femminista fin da principio. Mi manca una frase, una parola, per chiudere questo articolo per Carole Roussopoulos, forse posso scrivere semplicemente Debout!
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Riflessioni di genere per una politica antirazzista

Da Women in the City, un'intervista di Zenab Ataalla a Francesca Koch del coordinamento Donne contro il razzismo, con interessanti riflessioni - a partire da un bilancio della manifestazione antirazzista di sabato 17 ottobre a Roma -, su razzismo e sessismo. Tra l'altro vi si parla anche del nostro presidio itinerante verso il Cie di via Mattei a Bologna del 13 ottobre, un esempio "di notizia censurata": "Circola in questi giorni nel web un volantino di un collettivo femminista che ha organizzato un sit in davanti al Cie di via Mattei a Bologna con uno striscione che recitava Qui si stupra. Lo slogan ha scatenato un parapiglia, bloccando il traffico, è intervenuta anche la polizia. E' un esempio di notizia censurata? ...Evidentemente la verità in Italia non si può dire. Nei Cie succede di tutto, sono dei veri e propri lager dei quali si parla, ma per i quali non si fa niente. Lì le donne sono più esposte perché donne. Subiscono violenze, botte, stupri. Le ragazze di Bologna hanno dato luce pubblica a quello che non si deve dire, quello che parlamentari e membri del Consiglio regionale hanno potuto verificare con i loro occhi ... Eppure per l'informazione televisiva nazionale non rappresenta una notizia ...". Grazie a Women in the City, Zenab Ataalla a Francesca Koch di contribuire a rompere il clima di omertà che circonda questa ed altre violenze. Potete leggere tutta l'intervista QUI.
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Nous, nous ne sommes pas complices!

Qualche giorno fa, proprio mentre meditavo su certe forme di saccheggio al femminile, ho ricevuto bella mail complimentosa di Karine Gantin di Topics&Roses (Marginalia blog assez génial ... merci Karine!), che tra l'altro auspicava un maggior numero di traduzioni in francese di certains trucs intéressants pubblicati qui (o, in alternativa on nous donner des cours d'italien pendant le séances d'autodéfense ... mmm, l'idea è carina, ci penso). Oui, il faut traduire, ma il tempo è tiranno! Eppure, grazie ad infaticabili traduttrici militanti (che si stanno moltiplicando: presto la traduzione di Gay Imperialism a cura di Tiz) spero davvero di poter continuare a far "parlare" Marginalia in diverse lingue sempre più spesso (parliamo o no di femminismi transnazionali?). Per intanto ecco la traduzione di Noi non siamo complici! in francese (questa volta il grazie è tutto per la traduttrice militante di turno, Sylvie). Buona lettura alle internaute francofone :-)

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Bologne, mardi 13 octobre 2009: “Vous savez où mène cet autobus? , c’est ce que demande une des femmes du groupe de féministes et lesbiennes, montées à bord au centre de Bologne. Et elle commence à lire un texte qui dénonce la violence que les femmes subissent à l’intérieur des Cie (centre d’identification et d’expulsion pour migrants). Ce n’est pas un hasard que ce soit justement aujourd’hui, le jour du procès pour la révolte qui a eu lieu au CIE de la rue Corelli à Milan lors des dernier mois (NdT : révolte surtout portée par les femmes du centre), ce n’est donc pas un hasard que des femme ont décidé de ce rendre au Cie de Bologne rue Mattei pour rendre publique les violences que les femmes migrantes vivent à l’intérieur de cet univers concentrationnaire. Parce que justement lors d’une audience du procès une femme nigérienne a publiquement dénoncé la tentative de viol qu’elle a subit de la part de l’inspecteur chef et que maintenant, elle risque un procès pour diffamation. En arrivant au CIE elles ont accroché une banderolle « ICI, ON VIOLE » Voici le tract qu’elles ont distribué: "Nous, nous ne sommes pas complices! Combien de fois, étudiant l’histoire du XXème siècle, nous est-il arrivé de nous demander pourquoi pendant le nazisme les gens faisaient semblant de ne pas voir ce qui se passait dans les rues de leur propre ville - matraquage, abus, violence- et de ne pas savoir ce qui ce passait dans les camps ? Et combien de fois la réponse fut « moi, je n’aurais pas pu faire semblant » Et alors, pourquoi, aujourd’hui, tant, trop de personnes, font semblant de ne pas voir ce qui se passe dans les rues, semblant de ne pas comprendre les effets mortels du « dit » pacchetto sicurezza (ndt : ensemble des lois qui criminalisent les personnes migrantes et organisent contrôle et répression sociale) sur la vie de milliers d’être humain, semblant de ne pas savoir que dans la ville où nous vivons il y a des lieux où les conditions de rétentions, et certaines des violences qui y sont perpétrées rappellent les tristement célèbres camps du même ordre sous le nazisme. Ces lieux s’appellent centre d’identification et d’expulsion, créés en 1998 et disséminés sur tout le territoire national. Cà fait longtemps que les migrants/tes détenus/es dénoncent les conditions épouvantables de vie à l’intérieur des CIE, les violences incessantes, les humiliations, les passages à tabac, les maladies pas soignées et les morts suspectes. Tellement que le ministre Maroni a annoncé récemment, au nom de la sécurité la construction de nouveau CIE. Ils ont essayé de nous raconter que, dans les CIE, sont enfermés les clandestins parce que les étrangers seraient tous, selon leur rhétorique de racisme institutionnel, criminels, et violeurs potentiels et que donc sans qu’ils aient commis aucun crime, il est juste de les enfermer là pour ensuite être expulsés de l’Italie. Mais nous savons ce qu’est la sécurité dont ils parlent. Et nous savons ce qu’est le racisme institutionnel. Et nous savons ce qu’est la violence. Nous savons, par expérience que les lieux dangereux pour les femmes sont les maisons où nous vivons, les lieux où nous travaillons, les préfectures et les commissariats où nous avons le malheur de nous aventurer ou d’être amenées. Et aussi les quatre murs d’un CIE, où tellement de femmes subissent agressions, humiliations et violences des gardiens. Humiliations et violences que les femmes migrantes non jamais cessé de dénoncer. Comme Raya, une des femmes enfermée au CIE de Bologne, qui en mai dernier a été frappée d’un policier en uniforme et laissée sur le pavé sous les yeux indifférents de la « Misericordia », l’agence miséricordieuse qui gère le centre. Ou comme les femmes du CIE de Lampedusa qui ont entrepris au début de l’année, une longue révolte pour protester contre les rapatriements, pour dénoncer les conditions de vie à l’intérieur des CIE et en demander ma fermeture. Ou comme la protestation de Mabruka, femme d’origine tunisienne depuis trente ans en Italie, qui s’est pendue au CIE de Rome en avril pour ne pas être déportée, protestation qui se sont étendues ensuite aux sections de hommes. Ou comme Joy, une femme nigérienne emprisonnée et en procès à Milan pour s’être rebellée, au mois d’août dernier, contre une tentative de viol de la part de l’inspecteur chef du CIE Vittorio Adesso et aux conditions inhumaines dans lesquelles les femmes et les hommes, sont contraints de vivre au CIE Corelli. Pour ses déclarations, Joy risque un procès pour calomnie, parce que dans l’Italie du troisième millénaire, ces camps ne peuvent pas être mis en question, et que ce qui se passe à l’intérieur doit rester caché. Exactement comme la violence sexiste que les femmes subissent dans les familles ou sur les lieux de travail. Nous savons et nous ne voulons pas nous taire. Nous ne voulons pas être complices des violences exercées sur les femmes migrantes au nom de a sécurité. En concomitance avec les sentences pour la révolte du CIE milanais, nous avons choisi de nous retrouver devant le CIE de Bologne pour exprimer aux femmes enfermées notre proche solidarité, mais aussi et surtout pour dénoncer dehors ce qui se passe dedans ces camps du troisième millénaire. Et toi ? Tu continueras de faire semblant de ne pas savoir ?"
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venerdì 23 ottobre 2009

Saperi di donne native e migranti a confronto

Domani, sabato pomeriggio, a partire dalle 16.30, alla Casa di Khaoula (via di Corticella, 104 - Bologna) un incontro su Donne native e migranti. Scambio di saperi alla ricerca delle comuni origini, promosso dalle associazioni Annassim, Sopra i Ponti e Magamagò. Sarà presentato il bel volume I saperi delle donne. Il patrimonio culturale delle donne migranti nella cura della persona e la gestione del quotidiano (curato da Annassim) e il progetto di turismo solidale in Marocco promosso dall'associazione Sopra i Ponti . Una bella occasione per conoscersi, confrontarsi, gustare insieme dolci marocchini e the alla menta ascoltando un reading di poesia femminile del Mediooriente con Fatiha Morchid e Songul Abdullah ... Da non perdere ...
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Sorvegliare e stuprare


Ho rimarcato più volte, qui in Marginalia e altrove (ad esempio in Economia politica dello stupro/ Economia politică a violului) come l'insistere sul fatto che la violenza sulle donne avviene per la maggior parte "in famiglia" o tra le cosiddette "pareti domestiche" fosse un passaggio necessario e obbligato per contrastare/criticare l'uso in termini di emergenza securitaria e di "caccia allo straniero" della violenza sulle donne (che è esercitata in primis , ed è bene ricordarlo sempre, da mariti, amanti, padri, fratelli, conoscenti, molto spesso italianissimi), ma che si rischiava anche, nello stesso tempo, di mettere in ombra altri "luoghi" (ambienti di lavoro, canoniche, ospedali, questure, galere ...) in cui le donne subiscono quotidianamente stupri, molestie e ricatti sessuali. Tra queste diverse "quattro mura" le donne migranti sono i soggetti più ricattabili grazie anche al nuovo "pacchetto sicurezza" che inasprisce regole e vincoli e crea il terreno favorevole a soprusi e ricatti di ogni tipo. Raramente queste vicende vengono (possono essere) denunciate e quando lo sono raramente guadagnano l'onore della cronaca "ufficiale". Non ci è dato sapere quante "badanti" moldave o ucraine sono oggetto di pesanti molestie sessuali dai loro stagionati datori di lavoro, quante donne migranti subiscono ricatti sessuali - in cambio di un "aiuto" per ottenere il permesso di soggiorno -, dal prete o dal poliziotto di turno. Non ci è dato sapere soprattutto delle tante violenze subite dalle donne migranti tra le quattro mura di un Cie, luogo deputato - secondo la retorica razzista in voga nell'Itaglia di Berlusconi, Maroni &CO -, a salvare "noi donne" - "le (nostre) donne" - dalle orde di stranieri , tutti potenziali stupratori. E invece, come denunciato dal presidio itinerante Noi non siamo complici!, è proprio in questi luoghi che le donne migranti subiscono continui ricatti, molestie, stupri da parte di chi si sente forte del ruolo di "rappresentante dell'ordine" e di sorvegliante delle muliebri virtù (bianche), come l'ispettore-capo del Cie di via Corelli a Milano implicato in un tentativo di stupro ai danni di una giovane reclusa nigeriana. Ed è di questi giorni un'altra notizia di violenze "tra quattro mura", quelle di un carcere stavolta: il direttore del carcere di Genova è accusato di aver ripetutamente molestato e costretto a rapporti sessuali una detenuta di origini marocchine. Questa notizia - pubblicata ieri da Il Manifesto e che ho letto nel sito dell'Osservatorio sulla repressione - probabilmente avrà ben poca eco, perché nell'Italia neo-coloniale è solo la virtù della donna italica che va tutelata. Quando serve, ovviamente.
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Nella foto lo striscione delle donne di ActionA (qui la loro lettera alle migranti della Pinar) durante la manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne dello scorso anno a Roma
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mercoledì 21 ottobre 2009

Avvistato burqa, Ufo postcoloniale?

Non seguo molto la questione ma sembra che gli avvistamenti di U.F.O (la sigla sta per Unidentified Flying Object, in italiano Oggetto volante non identificato) siano frequentissimi nel mondo, l'ultimo segnalato in Italia è avvenuto questa estate sulla spiaggia di Riccione (per le/gli appassionate/i c'è anche il video). Più rari sembrano invece gli avvistamenti di burqa made in Italy, nonostante gli allarmismi lanciati da Gelmini, Santanchè &Co per distogliere l'attenzione da questioni decisamente più preoccupanti (ma questa resta una nostra modestissima opinione). L'ultimo avvistamento di burqa c'è stato ieri a Pieve di Soligo, dove era già stato avvistato circa un mese fa. Niente video dell'inquietante apparizione, ma una foto (e articolo). In realtà non è un burqa ma un niqab, tipico velo della tradizione islamica più ortodossa, ma ovviamente parlare di niqab non avrebbe la stessa "potenza comunicativa" (e colonizzatrice): in fondo Bush andò a bombardare l'Afghanistan per liberare "le donne" dal burqa, no?

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(Alcuni) articoli correlati in Marginalia:

Il burqa nel cervello ...
Il fondamentalismo del pelo superfluo
Burqa laptop
L'Islam fa male alle donne?
In memoria di Marwa al Sherbini, una donna che indossava la hijab
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E' caduta una Stella (Gelmini)

La "stella" è Maria Stella Gelmini, espulsa dal consiglio comunale di Desenzano sul Garda nel 2000, su mozione del suo partito, con la seguente motivazione: "manifesta incapacità ed improduttività politica ed organizzativa" (delibera del consiglio comunale del 31 marzo del 2000, questa "chicca" si può gustare qui). Per poi essere ricollocata nel firmamento stellare della politica italiana come Ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca Scientifica. Sappiamo da chi, questa è storia recente. E mentre continuano a smantellare la scuola pubblica, creando ignoranza, precarietà e in-sicurezza per tutte e tutti, trovano però i soldi per costruire nuovi Cie su tutto il territorio nazionale ...
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lunedì 19 ottobre 2009

Noi non siamo complici: antirazziste in assemblea

Domani, 20 ottobre, alle ore 19, presso XM24 (via Fioravanti, 24 - Bologna), le antirazziste che martedì scorso hanno distribuito - nel corso di un presidio itinerante fin sotto il Cie di via Mattei a Bologna - il documento Noi non siamo complici! -, indicono un'assemblea cittadina per aprire un confronto con altre antirazziste, femministe e lesbiche sulla questione.
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(Alcuni) documenti correlati in Marginalia e zone limitrofe:

Stupri non denunciabili
Un autobus verso il Cie
Donne migranti, rivolte e tentativi di stupro nei Cie
Nell'Italia neocoloniale ogni silenzio è oramai complice ...
Donne migranti in rivolta
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Il burqa nel cervello ...

Sì, sì, sì! Lo vedo bene che è il solito messaggio! Perdonate la monotonia, ma c'è una novità! Mi scuso con tutti/e gli/le altri/e (prometto presto un messaggio dedicato a tutti/e voi), ma stamani vorrei dedicare questo messaggio esclusivamente - ripeto : esclusivamente - a chi mi invita a ritirarmi in un hammam o in un harem, a farmi la ceretta meglio se integrale (!) e ficcarmi un burqa in testa (!!!) . E soprattutto a non scrivere più. A stare zitta, I presume. Oh che peccato dovervi ancora deludere!
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sabato 17 ottobre 2009

Gay Imperialism: a proposito della censura di Out of Place al tempo della guerra al terrore

Di Out of Place: Interrogating Silences in Queerness/Raciality, aveva già parlato Barbara De Vivo nel suo Relazioni Pericolose. Movimenti femministi e Lgbtiq al tempo delle guerra al terrore, pubblicato nell'ultimo numero di ControStorie, numero che contiene anche la traduzione di un articolo di Jinan Coulter, sull'"imperialismo" (e razzismo) presente anche in una parte dei movimenti femministi e lgbtiq. L'articolo che segue, pubblicato originariamente nel sito x:talk e girato sulla lista del network femminista transnazionale NextGENDERation, fa il punto sulla pesante censura che ha investito Out of Place, libro collettivo di una "straordinaria potenza politica", come giustamente scrive Barbara De Vivo, perché riesce - nello stesso tempo - a mettere in crisi la politica dell'identità, assumere come elemento necessario la questione dell'intersezionalità delle diverse forme di oppressione, e infine condannare senza appello le politiche razziste postcoloniali, securitarie e islamofobe. In particolare uno degli articoli contenuti nel volume - Gay Imperialism: Gender and Sexuality Discourse in the 'War on Terror ' di Jin Haritaworn, Tamsila Tauqir e Esra Erdem - , analizza impietosamente ma rigorosamente, l'uso del discorso sui diritti dei/delle omosessuali per giustificare politiche neoimperialiste, anti-migranti e islamofobe. Vi lascio quindi alla lettura dell'interessante documento di x: talk, per intanto nella versione originale inglese, sperando che si attivi presto un altro gruppo di infaticabili traduttrici militanti ...

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We have recently witnessed the umpteenth attempt to silence voices that denounce paternalistic, neo-imperialist politics and argue against Islamophobic positions and homonationalist activism. On 7th September 2009, the book Out of Place: Interrogating Silences in Queerness/Raciality (2008) edited by Adi Kunstman & Esperanza Miyake, was declared out of print by its publisher, Raw Nerve. The collection, which was the first academic volume on queerness and raciality in Britain, contained an important article which exposed the use of gay rights discourse as an instrument to justify neo-imperialist, anti-migrant and Islamophobic policies, namely ‘Gay Imperialism: Gender and Sexuality Discourse in the “War on Terror”‘ by Jin Haritaworn, Tamsila Tauqir and Esra Erdem. In ‘Gay Imperialism’ the authors - themselves academics and activists writing from different trans/queer of colour, queer Muslim and migrant feminist positions - pointed out how the equation of ‘Muslim’ with ‘homophobic’ (as well as sexist) has contributed to the tightening of borders, there construction of the West as the champion of civilisation and modernity, and the victimisation and patronising of Muslim queers. In Germany, migrants from ‘Muslim countries’ applying for nationality are required to pass a discriminatory ‘Muslim Test’ which asks questions such as: What would you do if your son was gay? In the Netherlands, applicants are asked to react to a video showing two men kissing. Drawing on the work of Chandra Talpade Mohanty (1991) and of Jasbir Puar (2007) the article shows how it is not incidental that the attention drawn to non-Western and Muslim gender and sexual regimes comes at the same time as the ‘War on Terror’, the increase in restrictive migration policies and the general upsurge in Islamophobia. The authors point out how, ‘gay rights’ and gender equality, even though they were achieved very recently and not at all exhaustively, have become symbols of the civilisation and modernity of Western countries. While the importance of these (even if limited) rights and equality is not disputed, the authors warn against a white Western single-issue emancipatory politics that claims universality and patronises non-white non-Western Muslim women and queers, while serving neo-imperialistic, racist discourses. It seems rather obvious to draw a parallel with how Western feminist abolitionists feed into security laws that criminalise migrant sex workers and effectively lead to deportation and further marginalisation in the name of combating gender violence. The same societies that demonise and discriminate against Muslims are increasingly criminalising sex workers, using ideas about both homophobia and gender violence as their tools to deport and detain migrants, sex workers and people of colour. There are further parallels between the abolitionist and the Islamophobic discourse: Instead of working with Muslim or non-white non-Western queer organisations (or even simply listening to what they are saying), the tendency for majority white, western gay rights and queer groups is to talk for them, to “save them”- ignoring and re-enforcing the multiple oppressions at stake. Likewise, Western abolitionist feminists do not listen to migrant sex workers’ voices, and by so doing they relegate them to the duped status of victims that need rescuing by the enlightened and modern Western feminist, or, even, by the border police that will ‘assist them home’. Migrant sex workers are equated with trafficked victims and trafficked victims with passive, naive women with no agency or no migratory project of their own. The ‘Gay Imperialism’ article made just such an informed, valuable critique. It drew on acute textual analysis and provided thorough references and links to the texts critiqued. Yet the authors made the “mistake” of naming examples of white queer/gay rights politics that re-produced Islamophobia and patronised queer Muslims, one of which included the gay rights activist Peter Tatchell in the UK. In response to this, the publisher Raw Nerve has issued an apology to PeterTatchell on its web-site and declared the whole book out of print. The apology deems the article as falsely accusing Peter Tatchell of being Islamophobic and racist and enlists a long series of ‘untruths’ contained in it, which are quoted out of context and misrepresented as personal accusations. Ironically, the authors had warned about the difficulty of raising a critical voice against Peter Tatchell. The censorship stands in stark contrast to the radical defence of freedom of speech which Tatchell has made a name for himself. In 2006, this went as far as leading him to participate in the March for Free Expression, which was also attended by various racist and fascist groups. Once again, marginalised voices are being threatened and silenced, but this time, this silencing is instituted by the very champions of free speech themselves. Peter Tatchell’s political campaigns are illustrative of a post-political trend towards celebrity activism where the needs of the many are sacrificed to the empowerment of the few. This is reflected in his tendency to name his campaigns after himself (as in, the Peter Tatchell Human Right Fund). ‘Peter Tatchell’, even more than OutRage!, is one of the most quoted names in Western media representations of gay rights activism. The Raw Nerv apology repeats this personalisation of activism by making Haritaworn’s, Tauqir’s and Erdem’s critique and its subsequent suppression look like a personal problem between the authors and Peter Tatchell. This nevertheless misses the point. No-one has anything personal
against Peter Tatchell. No-one, further, disputes that he genuinely thinks of himself as anti-racist, anti-imperialist or anti-Islamophobic. However, part of doing allied work is being accountable when one’s statements or actions reproduce oppressive structures. Part of being a public person, further, is being open to public critique, rather than shutting it down with force. Sadly, this is not the first time that queers of colour and queers from the Global South have critiqued Peter Tatchell and been punished for it. Tatchell’s and Outrage!’s campaigning in Africa has been strongly criticised for not having listened to African LGBTI activists’ repeated warnings that their actions were in fact harmful. In an open letter quoted by the authors of ‘Gay Imperialism’, activists described how Tatchell and Outrage! had “repeatedly disrespected the lives, damaged the struggle, and endangered the safety of African Human Rights Defenders”. They identify this as neo-colonialism, which is an interpretation we share. While this statement is thankfully still to be found on the net, it has been met with a similarly punitive response, which the Raw Nerve ‘apology’ repeats. We condemn this attempt to quell the voices of queers of colour and queers from the Global South, and express our support to both the African Human Rights defenders and the ‘Gay Imperialism’ authors for resisting racist and imperialist statements and actions made in the name of a white Western ‘gay rights’ agenda. It is undoubtably within a neo-imperialist logic that a white Western Gay man can obtain the role of the saviour of victimised Muslim and non-Western queers, while re-enforcing Islamophobic discourses that construct the West as morally superior. And it is also within aneo-imperialistic logic that one sees white Western feminist abolitionists joining forces with anti-migrant state institutions in the name of women’s rights. As we know from our work, for migrant sex workers this often means the ‘right’ to be ’saved’ and deported, not the right to decide upon one’s work and lives. X:talk was born out the necessity for marginalised voices to be heard, against paternalising and criminalising discourses that deny us the right to speak for ourselves. We therefore condemn the censorship of ‘Out of Place’ as an act of force, that if anything confirms the article’s political validity and necessity. The censorship of ‘Gay Imperialism’ and the Out of Place collection points us in a worrying new direction. Many of us may had thought that a degree of freedom of expression for marginalised voices had been reached. Yet here we go - it has become clearer than ever what the price of anti-racist critique is, and who is paying it. An important document has been lost to us, and those who would like to form their own opinion on the matter can’t. Let us hope that the censorship will have the opposite effect, and lead us to raise our voices even louder. Let us hope that it will provide the impetus for new alliances across activist and academic movements, that join to fight oppression in all its faces, including the ones that wear the cloaks of feminism and gay rights.
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Non vogliamo un femminismo dell'oblio e delle parentesi ... Lettera di alcune antirazziste francesi a proposito del 17 ottobre 1961


Ecco finalmente la traduzione della lettera del gruppo di femministe antirazziste francesi (a proposito del 17 ottobre 1961 e di un certo femminismo "dell'oblio e delle parentesi") di cui avevamo già pubblicato - con una breve introduzione - l'originale francese. La traduzione è una "collaborazione in rete" di Leonora, Chiara e Vincenza. Solo con il prénom, come le firmatarie della lettera. Buona lettura e riflessioni.

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Una manifestazione femminista unitaria? ... il 17 ottobre?

Il prossimo 17 ottobre il CNDF (Collettivo nazionale per i diritti delle donne) e l' associazione Femmes Solidaires (Donne Solidali), con il sostegno di più di una cinquantina di associazioni e di partiti politici, hanno scelto di organizzare una manifestazione nazionale per i diritti delle donne. Noi, che siamo delle donne e delle lesbiche che hanno attraversato e militato negli spazi femministi, riteniamo che la scelta di questa data sia fortemente inappropriata, per non dire offensiva. Pensiamo che sia politicamente necessario prendere posizione e fare notare, insieme alle persone ed alle associazioni che se ne ricordano, che la Repubblica Francese si è costruita storicamente sul proprio impero coloniale, e che la data del 17 ottobre non è scindibile dall'anno 1961. E noi ci ricordiamo del 17 ottobre 1961. Quel giorno, all' appello del FLN (Fronte Nazionale di Liberazione algerino, NdT), in risposta al divieto per tutti i cittadini e le cittadine algerini/e presenti nella capitale di circolare la notte, ragazze e donne scesero in strada con i loro compagni di lotta: padri, fratelli, sorelle, madri e mariti. Quel giorno, per la prima volta, ragazze e donne algerine manifestarono la propria resistenza anticoloniale "nella metropoli". Quel giorno, nelle strade di Parigi, più di trecento algerini e algerine furono uccisi dalla polizia francese, su ordine del prefetto Maurice Papon (ex collaborazionista e responsabile della deportazione di migliaia di ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, NdT). Dal 1991, il 17 ottobre 1961 è oggetto di commemorazione. Ma non solo. Perché quel giorno simboleggi anche la difficoltà di far conoscere e riconoscere quanto è successo, di costringere le autorità ad ammettere pubblicamente la realtà del massacro perpetrato dallo Stato. Simbolo dell'invisibilità della lotta anticoloniale, di una storia scritta solo in parte, questa data ci ricorda che la repressione coloniale perdura ancora oggi, sotto altre forme ma con una brutalità altrettanto intollerabile. Scegliendo questa data, le organizzazioni che fanno appello alla manifestazione per i diritti delle donne si desolidarizzano da tutte quelle donne issues de l' immigration coloniale et postcoloniale (ovvero discendenti da coloro che provengono dalle colonie ed ex colonie francesi, NdT) forzandole a scegliere tra due lotte, mentre per loro queste due lotte essendo riconducibili alla stessa medesima oppressione non possono essere scisse. Scegliendo questa data le promotrici della manifestazione dissociano le lotte femministe dalle lotte anticoloniali e in questo modo non solo le donne issues de l'immigration coloniale e post-coloniale, ma tutte le donne, sono costrette a scegliere tra le due. Dobbiamo forse precisare che in tutte le pubblicazioni inerenti alla manifestazione per i diritti delle donne non si fa alcun accenno alla repressione del 1961? Niente di niente, né sui volantini, né sul web. Non una parola in risposta alle domande che alcune di noi hanno posto su una scelta così singolare. Manifestare a un'ora diversa rispetto alla commemorazione annuale delle vittime del 17 ottobre non è sufficiente a legittimare questa scelta, perché appropriarsi di questa data ha comunque un valore simbolico. La copertura mediatica che sarà dedicata all'iniziativa della CNDF, per quanto possa essere limitata, impedirà di fatto che il 17 ottobre del 61 risuoni nelle memorie. Anche se dominate tra i dominanti, le organizzatrici della manifestazione colonizzeranno questa data storica. La violenza di questo approccio è per noi insopportabile. Se, nel costruire una manifestazione per i diritti delle donne, si fosse tenuto conto degli avvenimenti del 17 ottobre 61, allora l' "unità" politica invocata avrebbe avuto tutt'altro effetto. Ma le organizzatrici e gli organizzatori non hanno considerato politicamente necessario questo gesto. Ma la necessità di questo gesto si impone a noi con tale evidenza che ci meravigliamo di come l'insieme delle associazioni coinvolte non l'abbia sentita come propria. La memoria collettiva agisce sul presente politico. Certi avvenimenti non possono essere cancellati o nascosti. L'unità della lotta femminista può esistere soltanto tenendo conto degli aspetti multipli della dominazione, e senza cancellare le lotte passate. Noi non vogliamo un femminismo dell'oblio e delle parentesi, ma un femminismo che combatte l'insieme delle oppressioni. Scegliere il 17 ottobre per una manifestazione, senza alcun collegamento o rimando agli avvenimenti del 1961, vuol dire partecipare al rifiuto generalizzato verso la storia della resistenza anticoloniale. Significa ignorare la lotta per la restituzione della memoria portata avanti dalle generazioni issues de l'immigration coloniale e post-coloniale. Scegliere questa data significa occultare le resistenze passate e odierne con la violenza sorda che caratterizza i dominanti. Per questo motivo, è anche una forma di razzismo. Voi che prenderete posizione a favore di questa lettera, noi che l'abbiamo scritta, non parteciperemo passivamente, col pretesto dell'unità, a questa manifestazione del CNDF - Femmes Solidaires, perché questa giornata è stata rubata ad altri e ad altre. Speriamo di essere in molte ad articolare la molteplicità delle lotte e ad esprimere il nostro disaccordo nei confronti di questa grande amnesia selettiva, attraverso azioni creative e prese di parola. Marceremo in altri giorni, in altre notti, contro le violenze perpetrate nei confronti delle donne, siano esse coloniali, razziste, lesbofobiche, sessiste, dovute alla posizione sociale ed alla classe.


Frink, Inès, Isabelle Laetitia, Sabine, Shirine ...
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giovedì 15 ottobre 2009

Nous ne voulons pas d'un féminisme de l'oubli et des parenthèses mais d'un féministe combattant l'ensemble des oppression

"Noi non vogliamo un femminismo dell'oblio e delle parentesi ma un femminismo che combatte l'insieme delle oppressioni", è una delle frasi che meglio riassume il senso di una lettera aperta che un gruppo di femministe antirazziste francesi (si firmano solo con il prénom: Frink, Inès, Isabelle Laetitia, Sabine, Shirine ...) ha scritto e fatto circolare in rete per criticare la scelta di molte organizzazioni femministe di indire una manifestazione nazionale Pour les droits des femmes, per dopodomani, sabato 17 ottobre, a Parigi. Il "problema", ignorato dalle promotrici della manifestazione, è che per le/i militanti antirazziste/i francesi (e soprattutto per quelle/i issue de l'immigration, ovvero discendenti di coloro che arrivarono in Francia dalle colonie o ex-colonie francesi), il 17 ottobre non è una data "neutra", bensì l' anniversario del massacro avvenuto il 17 ottobre 1961 nella capitale francese. Quella sera migliaia di algerini (uomini, donne, bambini) erano confluiti da tutta Parigi e dalle sue banlieues, sfidando il coprifuoco imposto dalle autorità, per una grande manifestazione indetta dal Fnl (Fronte nazionale di liberazione algerino) per l'indipendenza dell'Algeria, che proprio in quei mesi viveva una delle fasi più drammatiche della colonizzazione. La repressione fu terribile: circa trecento algerini/e furono uccisi dalla polizia francese, all'epoca diretta dal prefetto guiMaurice Papon. Molti/e furono buttati/e nella Senna, altri/e imprigionati e torturati per giorni. Tra queste molte donne. Come scrivono le firmatarie della lettera aperta proprio quel giorno "per la prima volta, delle ragazze delle donne algerine hanno manifestato una resistenza anticoloniale 'en métropole"' , motivo in più per ricordare questa data per un femminismo che assume come fondante la lotta anticoloniale e antirazzista. Eppure non vi è traccia di questo episodio nel documento di convocazione della manifestazione indetta dal Cndf ed altre organizzazioni femministe francesi, e le firmatarie della lettera aperta hanno ragione di rilevare che così facendo "le organizzazioni che indicono la manifestazione per i diritti delle donne si desolidarizzano dalle donne issues de l’immigration coloniale et postcoloniale" e "dissociano le lotte femministe dalle lotte anti-coloniali". In questo modo obbligano "a sciegliere tra due lotte", dimenticando che "l'unità politica della lotta femminista non può farsi che nella presa in conto degli aspetti multipli della dominazione e non nella cancellazione delle lotte passate". Un documento importante che mette ancora una volta in causa un certo tipo di femminismo, incapace di pensare (ed agire) insieme la totalità delle oppressioni, come sperimentano con sgomento quelle di noi che tentano quotidianamente di attraversare e contrastare con la propria pratica politica le diverse e molteplici - e intersecate - forme di oppressione. Intanto trovate qui di seguito il documento nella versione originale francese e prestissimo - dopo la riunione di stasera delle magnifiche tredici alla quale non posso mancare - nella traduzione italiana ancora in corso.
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Le 17 octobre une manifestation féministe unitaire?

Le 17 octobre prochain, le CNDF (le collectif national pour le droit des femmes) et les Femmes solidaires, avec le soutien de plus d'une cinquantaine d'associations et de partis politiques ont choisi d’organiser une manifestation nationale pour les droits des femmes. Nous, qui sommes des femmes et des lesbiennes qui avons traversé en militantes des espaces féministes, estimons que le choix de la date est fort inapproprié, voire insultant. Aussi pensons-nous qu’il est politiquement nécessaire de se positionner, de rappeler avec les associations et les personnes qui se souviennent que la République Française s'est bâtie sur son empire colonial, que le cette date est désormais inséparable de l'année 1961. Nous nous souvenons du 17 octobre 1961 Ce jour-là, à Paris, à l’appel du FLN, suite à l’interdiction faite à tous les Algérien.ne.s de la capitale de circuler la nuit, des filles et des femmes sont descendues dans la rue avec leurs camarades de combat, leur père, leurs frères, leurs soeurs, leur mère et leur mari. Ce jour-là,pour la première fois, des filles et femmes algériennes ont manifesté une résistance anticoloniale « en métropole ». Ce jour-là, dans les rues de Paris, plus de 300 Algérien.ne.s ont été tué.e.s par la police française, sous l’ordre du préfet Maurice Papon. Depuis 1991, le 17 octobre est destiné à la commémoration. Mais pas seulement. Car ce jour-là témoigne également de la difficulté à faire connaître et reconnaître les faits survenus, à faire admettre publiquement par les autorités la réalité du massacre perpétré par l'Etat. Symbole de l'invisibilité de la lutte anti-coloniale, d’une histoire qui s’écrit à peine, cette date rappelle aussi que la répression coloniale sévit toujours, sous d’autres formes mais avec une brutalité tout aussi insupportable.En choisissant cette date, les organisations qui appellent à la manifestation pour les droits de femmes se désolidarisent des femmes issues de l’immigration coloniale et postcoloniale.Elles forcent ces femmes à choisir entre deux luttes, alors même que ces deux luttes ne sont qu’une seule et même oppression pour elles. Elles dissocient les luttes féministes des luttes anti-coloniales, par-là même, ce ne sont pas seulement les femmes issues de l'immigration qui sont sommées de choisir, mais toutes. Faut-il préciser qu'aucune mention de la répression de 1961 n'apparaît dans l'ensemble des publications qui appellent à la manifestation pour les droits de femmes ? Rien, ni sur tracts, ni sur les pages web. Pas un mot non plus en réponse aux interrogations de certaines d'entre nous sur ce curieux choix. Défiler à une heure différente du rassemblement annuel ne peut suffire à le légitimer. Car l'occupation de la date est signée symboliquement. La couverture médiatique, qui sera donnée au rassemblement proposé par le CNDF, si faible soit-elle,empêchera de fait le 17 octobre 61 de résonner dans les mémoires. Quoique dominées parmi les dominants, les organisatrices coloniseront cette date historique. La violence de ce traitement nous est insupportable. Construire une manif pour les droits des femmes en prenant en compte l'événement du 17 oct.61 aurait donné une autre teneur à "l'unité" politique. Cela n'est pas apparu aux organisatrices/teurs comme une nécessité politique. Cette nécessité s'impose à nous avec une telle évidence que nous nous étonnons qu'elle ne se soit pas vécue par l'ensemble des associations. La mémoire collective agit sur le présent politique, certains événements ne peuvent pas être effacés ou recouverts. L'unité de lutte féministe ne peut se faire que dans la prise en compte les aspects multidimensionnels de la domination, et non dans l'écrasement des combats passés. Nous ne voulons pas d'un féminisme de l'oubli et des parenthèses mais d'un féministe combattant l'ensemble des oppressions. Choisir le 17 octobre, pour organiser une manifestation sans attache ni rappel aux événements de 1961, c'est participer au déni généralisé de l’histoire de la résistance au colonialisme, c'est court-circuiter le combat de restitution de la mémoire mené par les générations issues de l’immigration coloniale et postcoloniale. Choisir cette date, c'est occulter les résistances passées et actuelles, avec la violence sourde qui caractérise les dominants. En cela, c’est une forme de racisme. Vous, qui prenez position en faveur de cette lettre, Nous, qui l'avons écrite Ne participerons pas passivement, au prétexte d'unité et de rassemblement, à cette manifestation du CNDF-Femmes Solidaires, parce que cette journée a été volée à d'autres... Nous espérons être nombreuses à trouver par des actions créatives, par des prises de paroles, l'inscription de la nécessaire articulation des luttes, l'expression de notre désaccord face à cette grande amnésie sélective. Nous marcherons d’autres jours, d’autres nuits, contre les violences faites aux femmes, qu’elles soient violences coloniales,racistes, lesbophobes, sexistes, violences de place, de classe.

Frink, Inès, Isabelle Laetitia, Sabine, Shirine...
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Stupri non denunciabili


Da Macerie: "Il primo grado del processo contro i rivoltosi di Corelli si è chiuso. C’è stata una sola assoluzione, ma le condanne sono state di molto inferiori alle richieste dell’accusa: dai 6 ai 9 mesi, contro i due anni abbondanti che pretendeva il Pm durante la sua requisitoria. Rimane tutta aperta la questione di Joy, che sarà processata per calunnia per aver raccontato in aula ciò che nessuno ha avuto il coraggio di affermare fino ad ora a voce alta: e cioè che oltre ad essere luoghi di reclusione e teatro di pestaggi, ricatti e umiliazioni, i Centri spesso nascondono storie tremende di molestie e violenze sessuali. Spogliati di tutto, nuda vita, i prigionieri sono corpi reclusi dei quali i guardiani ritengono sia naturale servirsi a proprio piacimento".
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Noi non siamo complici!
Solidarietà alle migranti e ai migranti in lotta fuori e dentro i Cie
Le menzogne del regime
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Donne migranti in rivolta
Nell'Italia neocoloniale ogni silenzio è oramai complice
L'uomo bianco stupra, lo stato bianco assolve
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martedì 13 ottobre 2009

Noi non siamo complici!

NOI NON SIAMO COMPLICI

Noi non siamo complici! è il titolo del volantino che un gruppo di antirazziste, femministe e lesbiche, ha distribuito oggi pomeriggio, a Bologna, durante un'azione di agit-prop sul bus 14 A, quello che dal centro porta in via Mattei, dove è situato il Centro di identificazione ed espulsione della città. "Sapete dove porta questo autobus?", così esordisce una donna del gruppo. "Questo autobus porta al Cie. E sapete cos'è un Cie?". E comincia a leggere il volantino, in cui si denunciano le violenze che le donne subiscono all'interno dei Centri di identificazione ed espulsione. Ed è sotto il Cie di via Mattei, che si è concluso il presidio itinerante. Per alcune ore le antirazziste hanno portato la loro solidarietà alle donne lì detenute e alle "rivoltose" di via Corelli , con interventi, striscioni e fuochi d'artificio, circondate da un esagerato dispiegamento delle cosiddette forze dell'ordine. Dieci probabili denunce per presidio non autorizzato hanno chiuso la giornata ma resta una grande determinazione. Non è che l'inizio: noi non siamo complici!

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Quante volte, studiando la storia del Novecento, è capitato di chiedersi perché durante il nazismo la gente facesse finta di non vedere quanto avveniva nelle strade delle proprie città – rastrellamenti, soprusi, violenze – e di non sapere ciò che succedeva nei lager? E quante volte la risposta è stata “Io non avrei potuto far finta di niente”? E allora perché oggi tante, troppe persone, fingono di non vedere quello che succede nelle strade, fingono di non capire gli effetti mortali che il cosiddetto “pacchetto sicurezza” ha sulla vita di migliaia di esseri umani, fingono di non sapere che nelle città in cui viviamo ci sono luoghi che, per come ci si viene rinchiusi/e e per alcune delle violenze che vi vengono esercitate, ricordano i famigerati lager di stampo nazista? Questi luoghi si chiamano Cie – Centri di identificazione ed espulsione, nuovo nome per i Cpt – Centri di permanenza temporanea creati nel 1998 con la legge Turco-Napolitano e disseminati su tutto il territorio nazionale. Da tempo le migranti e i migranti detenute/i denunciano le spaventose condizioni di vita all’interno dei Cie, le continue violenze e umiliazioni, i pestaggi, le malattie non curate e le morti sospette. Ciononostante il ministro Maroni ha annunciato recentemente, in nome della “sicurezza”, la costruzione di nuovi Centri di identificazione ed espulsione. Hanno provato a raccontarci che nei Cie vengono rinchiusi i “clandestini” perché gli stranieri sarebbero tutti, secondo la retorica del razzismo istituzionale, criminali e potenziali stupratori, e che quindi, anche senza che abbiano compiuto alcun reato, è giusto che stiano rinchiusi lì anche per 6 mesi per poi venire espulsi dall’Italia. Ma noi sappiamo cos’è la sicurezza di cui ci parlano. Sappiamo cosa sono i Cie. Sappiamo cos’è il razzismo istituzionale. E sappiamo cos’è la violenza. Sappiamo per esperienza che i luoghi pericolosi per le donne sono soprattutto le case in cui viviamo, i luoghi in cui lavoriamo, le canoniche e le questure nelle quali abbiamo la sventura di avventurarci o di essere portate. E anche le quattro mura di un Cie, dove tantissime donne subiscono molestie, torture e stupri da parte dei loro guardiani. Umiliazioni e violenze che le donne migranti non hanno mai smesso di denunciare. Come Raya, una delle donne migranti rinchiuse nel Cie di via Mattei a Bologna, che lo scorso maggio è stata picchiata da un poliziotto in borghese e poi lasciata svenuta sul pavimento sotto gli occhi indifferenti degli operatori della Misericordia, il “misericordioso” ente che gestisce il Centro. O come le donne migranti che nel Cie di Lampedusa hanno intrapreso, all’inizio dell’anno, una lunga rivolta per protestare contro i rimpatri, denunciare le condizioni all’interno del Cie e chiederne la chiusura. O come la protesta delle compagne di Mabruka, donna di origini tunisine da 30 anni in Italia, che si è impiccata nel Cie di Ponte Galeria a Roma ad aprile pur di non essere deportata, protesta che si è poi estesa alle camerate degli uomini. O come Joy, una donna africana imprigionata e processata a Milano per essersi ribellata, lo scorso agosto, ad un tentativo di stupro da parte dell’ispettore-capo del Cie Vittorio Addesso e alle condizioni disumane in cui, con altre donne e uomini, era costretta a vivere nel Cie di via Corelli. Per le sue dichiarazioni Joy rischia, ora, un processo per calunnia, perché nell’Italia del terzo millennio questi lager non si possono mettere in discussione, e quello che accade lì dentro deve restare omertosamente nascosto. Proprio come la violenza sessista che le donne subiscono in famiglia e nei luoghi di lavoro. Noi sappiamo e non vogliamo tacere. Non vogliamo essere complici delle violenze perpetrate contro le donne migranti in nome della “sicurezza”. In concomitanza con la sentenza per la rivolta nel Cie milanese di via Corelli, abbiamo scelto di trovarci davanti al Cie di Bologna per esprimere alle donne rinchiuse lì la nostra vicinanza solidale, ma anche e soprattutto per denunciare all’esterno quello che accade dentro questi lager del terzo millennio. E tu? Continuerai a far finta di non sapere?


Solidalidarietà alle migranti e ai migranti in lotta dentro e fuori i Cie


Stamattina è in corso, a Milano, l'ennesima udienza del processo contro i "rivoltosi di via Corelli" e tra questi Joy, la migrante nigeriana che aveva denunciato un tentativo di stupro nel Cie milanese. Mentre ieri era stato lanciato dalle/dagli antirazziste/i un appello per il presidio di stamani sotto il Tribunale, altri e altre, che al presidio non ci potevano - per forza di cose - andare, hanno voluto dare il proprio sostegno ai/alle processate/i in un'altra maniera: circa cinquanta migranti reclusi a Corelli e una trentina a Gradisca sono infatti in sciopero della fame per rendere visibile la loro solidarietà ai processati.
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Per la foto d'archivio grazie a Chiara che mi ha segnalato il sito Negroartist
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domenica 11 ottobre 2009

Il fondamentalismo del pelo superfluo

Mentre la Lega Nord armeggia intorno ad una legge per la proibizione del burqa (ma in molti loro siti, che non vi linko, illustrano la notizia con immagini di niqab, chador, hijab e quant'altro, rivelando ancora una volta ignoranza abissale e malafede), decidiamo di approfittare del grigio pomeriggio domenicale per vederci tutte a casa di una di noi. Mangiando baklava, cannoli e katayef (forse anche cannoli andrebbe in corsivo), chiacchierando di femminismi di qua e di là, senza farci mancare un po' di gossip e pettegolezzo rigorosamente al femminile (avrete letto Taglia e Cuci di Marjane Satrapi), dimenticandoci completamente della prole intenta a giocare in un'altra stanza, diamo il via al rito liberatorio della ceretta collettiva. Conveniamo tutte che la ceretta halawa lascia una pelle morbidissima ma che - soprattutto se la natura è stata generosa - fa un male cane come tutte le altre cerette del mondo, industriali o meno, al miele o no, halawa o non halawa. Dopo qualche ora, mentre prepariamo il terzo tè alla menta del pomeriggio e scorrono a fiumi oli e profumi, siamo giunte alla drammatica conclusione che tutte sentiamo sul collo il fiato, che si fa sempre più intenso, dei fondamentalismi che - diversamente da quello che vanno blaterando la Lega e vari esponenti di destra - sono non uno ma almeno tre e sempre alleati tra loro quando si tratta di limitare la libertà delle donne. Ma il fondamentalismo più insidioso e che sembra accomunarci tutte (tranne qualche coraggiosa eccezione, ne conosco, ma perdonami ... non fai testo), è lui, il fondamentalismo del pelo superfluo.

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Frammenti collegati in Ella de Riva e Marginalia
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sabato 10 ottobre 2009

Ritratto degli estremisti di destra

Tra una trovata creativa (?) e l'altra, tra un invito ad esponenti della sinistra di governo e un'aggressione , tra taxi rosa e fumosi progetti per prolifiche mamme italiane, i "fascisti del terzo millennio" di CasaPound sono presi dall'ansia patologica di ottenere un riconoscimento sociale e far parlare di sé. E oggi, dopo tanto che qui non si tornava sull'argomento, tentiamo di dare anche noi una mano a questi poveri emarginati.
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Il video L'estremista di destra, è un celebre spot tedesco della serie Filme gegen rechte gewalt (Film contro le violenze di destra), sottotitolato in italiano da Rosebud, collettivo di video attivisti/e.
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venerdì 9 ottobre 2009

Giornata dell'urlo: contro la crisi e il razzismo, per la libertà di donne e uomini migranti è il momento di urlare

Il silenzio non paga, non si può più tacere. E' il momento di urlare. Domani, sabato 10 ottobre, a partire dalle ore 10 in piazza Nettuno a Bologna, il Coordinamento migranti invita alla Giornata dell'urlo. Insieme alzeremo la voce, tanto che nessuno potrà fingere di non sentire. Tutti devono sapere che il razzismo istituzionale del governo sta distruggendo vite intere. Non si tratta solo di quelle/i che sono respinti in mare o alle frontiere e che di respingimento muoiono. Si tratta anche di chi rischia ogni giorno di perdere il permesso di soggiorno perché non trova più un lavoro, e di finire per sei mesi in un Cie. Si tratta di chi, magari in Italia magari da vent'anni e con un mutuo da pagare, potrebbe essere espulso se non raggiungesse un reddito sufficiente. Si tratta di chi, se non dovesse riuscire a rinnovare il permesso di soggiorno, verrebbe espulso, dovendo così rinunciare ai contributi versati in anni di duro lavoro. Si tratta di chi non potrà mandare i propri figli a scuola qualora il numero di bambini migranti in una classe superasse la soglia del 30% stabilito dal governo. a questo si è aggiunta l'illusione della sanatoria: troppo ristretti i parametri per accedere, troppi soldi da sborsare. Non vogliamo finte sanatorie, vogliamo una regolarizzazione permanente per tutti/e, slegata dal lavoro e dal salario. Mentre il reato di clandestinità non è altro che un modo per criminalizzare tutti/e i/le migranti e costringerli/e al silenzio. Per questo è importante essere domani in piazza e urlare liberamente. Qui il documento di convocazione.

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(Alcuni) articoli correlati in Marginalia:

Uniamo le forze contro la crisi e il razzismo ...
Donne migranti e tentativi di stupro nei Cie
Donne migranti in rivolta
Donne migranti e suicidi clandestini
Non possiamo vederli ma ...
Nell'Italia neocoloniale ogni silenzio è complice
Vivre libre ou mourir. Per Mabruka, suicida in un Cie
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mercoledì 7 ottobre 2009

Quando i lodi vengono al pettine

Emergenza sdoganamenti

Il Coordinamento Facciamo Breccia, riunito in assemblea nazionale a Firenze il 4 ottobre 2009, in merito alla campagna stampa intorno all'"omofobia" e alle alleanze trasversali che nel nome di questa ennesima "emergenza sicurezza" vengono attuate, denuncia che in Italia non esiste nessuna emergenza omofobia. L'emergenza omofobia è solo un pretesto.
I media hanno costruito ancora una volta sui nostri corpi un'emergenza, come nell'autunno 2007, in seguito all'omicidio di Giovanna Reggiani, costruirono l'emergenza stupri. Non c'è una "fobia", una paura irrazionale che si avventa contro i nostri corpi: nel nostro paese e nel mondo impera un sistema eterosessista violento ed escludente che produce un clima terribilmente favorevole alla violenza contro lesbiche, gay e trans così come contro le donne. Questa violenza non è certo iniziata quest'estate, anzi essa è strutturale, tanto che ancora oggi anzitutto è dentro la famiglia, che, a sua volta, è il secondo pilastro - insieme alla sicurezza - della propaganda. Negli ultimi anni lo scivolamento verso un regime autoritario, oggi stabilizzato, ha legittimato forme di violenza di strada che spesso hanno una matrice politica fascista ed integralista, matrice politica che mai da istituzioni e media viene sottolineata e denunciata.
Sono state costruite campagne d'odio e di istigazione alla violenza da parte delle gerarchie ecclesiastiche e delle destre istituzionali nei confronti di tutte le soggettività eccentriche, di tutte quelle persone che non rientrano nel paradigma di "decorosa normalità" che si è voluto imporre come modello unico. Ora è operante un meccanismo che istituisce capri espiatori a rotazione - oggi sono lesbiche gay e trans, domani i/le rom, poi rumeni/e, in seguito le prostitute... -, nuovi oggetti su cui viene indirizzata la violenza, a fasi, sempre sottolineate da campagne di stampa. Su ognuna di queste soggettività si applicano dispositivi repressivi diversi, specifici, ma il paradigma sotteso è lo stesso e deve essere smascherato. I mandanti di questo odio prima agiscono per costruirlo poi stigmatizzano gli esecutori e si pongono a tutela delle soggettività che vogliono ridurre a vittime: i carnefici in fiaccolata al fianco di chi vogliono ridurre a vittima. La norma stabilita dall'alto si attua in una forma poliziesca, in una forma di controllo del territorio agita direttamente da gruppetti e singolarità di fascisti o comunque di individui che hanno assunto un modello violentemente autoritario. Smascheriamo i mandanti, togliamo il velo calato sull'istigazione. Il regime autoritario in cui oggi viviamo si fonda sulla definizione di un ordine razzista ed eterosessista che espelle tutte le soggettività eccentriche e criminalizza l'immigrazione. Le leggi razziali imposte con il pacchetto sicurezza, l'introduzione del reato di clandestinità, il potenziamento di lager urbani detti C.I.E., con il pretesto della nostra sicurezza, legittimano la persecuzione di donne e uomini che arrivano nel nostro paese per migliorare le proprie vite dopo aver subito la colonizzazione e la depredazione da parte del ricco nord del pianeta. Oggi è necessario attuare nuovi percorsi di liberazione che mettano al centro l'autodeterminazione e l'autorganizzazione delle soggettività, percorsi di liberazione che reclamino cittadinanza per tutte e tutti e che non permettano la vittimizzazione di soggetti per di più usata per reprimerne altri. Da queste nostre riflessioni riteniamo si possa evincere chiaramente perché rifiutiamo un dispositivo legislativo antiomofobia (quello che andrà in discussione alla Camera il 12 ottobre) che ribadisce il paradigma securitario limitandosi a inasprire le pene ed a legittimare il Pacchetto sicurezza.
Inoltre non ci stupisce che proprio i/le trans non siano fra la categorie ritenute da tutelare nella proposta legislativa: nel nostro paese molte trans sono straniere, vengono criminalizzate sulle strade ed incarcerate nei C.I.E., quindi sembra che la logica sia "meglio lasciarle dall'altra parte, tra i babau da indicare all'opinione pubblica come coloro da cui "essere difesi/e.". Lo ha detto anche Ratzinger, d'altra parte, proprio lo scorso gennaio, che il maggior pericolo per l'"ordine naturale" viene dal transgender.
Oggi è necessario rimettere al centro un posizionamento antifascista che rifiuti ogni tentativo di instaurazione di un pensiero unico. Non possiamo quindi non denunciare l'azione di sdoganamento operata da parte dell'unica parlamentare dichiaratamente lesbica di quel "pensiero unico" che ben conosciamo e contro cui abbiamo sempre lottato. Con i fascisti non vogliamo rapporti né oggi né mai: non è svendendo i nostri valori che supereremo veri o supposti isolamenti bensì contribuendo a costruire percorsi di liberazione e di lotta antirazzisti ed antisessisti, insieme alle femministe, alle prostitute, a immigrate ed immigrati, a chi lotta per il lavoro e per il diritto all'abitare, strappando il filo rosso che lega le varie "emergenziali" campagne stampa. Alla stessa stregua non possiamo aderire ad iniziative "apolitiche" che seguono l'onda dell'"emergenza omofobia" senza denunciare i mandanti della violenza che non riguarda soltanto trans, lesbiche e gay, ma sempre più tutte le soggettività che si discostano dal pensiero unico. L'ultimo pride di Roma aveva come slogan "Liberi tutti / libere tutte". Non solo gli/le "uguali".

"Non dimentichiamo che è del fascismo questo slogan: famiglia e sicurezza" (Carla Lonzi -1970)

Il Coordinamento Facciamo Breccia
www.facciamobreccia.org
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